Con la legge di stabilità 2013 e il rinvio al 1° gennaio 2014 la riforma degli enti intermedi avviata dal governo Monti rischia l’archiviazione, senza che le classi dirigenti locali abbiano colto finora le opportunità, presenti pur tra molti difetti, di gestirla dal basso e interpretarla come primo passo di un processo che potrebbe concludere la pluridecennale gestazione di nuovi enti di area vasta con funzioni in grado di connotarli rispetto agli altri livelli di governo.
La riforma vuole ispirarsi a modelli europei e risponde a un’esigenza per la quale l’UE ha esercitato forti pressioni sul governo italiano: adottare misure in grado di ridurre i costi e incrementare l’efficienza dei vari livelli dell’amministrazione pubblica.
È mancata, però, chiarezza sulla definizione sostanziale di città metropolitana, in assenza della quale l’individuazione secondo il solo criterio demografico, unita all’automatica coincidenza del territorio metropolitano con quello della soppressa provincia, risulta puramente arbitraria posto che, sul piano amministrativo, Città metropolitane e Province sono entrambe enti di area vasta costituiti da una pluralità di Comuni; ma la legge non spiega (come faceva invece la 142 del 1990) che le prime sono caratterizzate da un territorio prevalentemente urbanizzato e integrato in cui i Comuni sono strutturalmente connessi tra loro a vari livelli, mentre le seconde comprendono un territorio solo parzialmente urbanizzato composto da Comuni identificabili come comunità distinte.
In concreto, insomma, la Città metropolitana non può che essere il precipitato di quella crescita incontrollata degli agglomerati urbani oltre i confini amministrativi che ha modificato il concetto di città intesa come sistema urbano, rendendo indispensabile individuare un corrispondente efficace modello di governance, in grado di incidere positivamente sulle dinamiche di sviluppo del territorio.
A Bari il punto debole della riforma si è rivelato proprio nella coincidenza di confini tra l’istituenda Città metropolitana e la sopprimenda Provincia, composta da 41 Comuni molto diversi, ricadenti su un territorio esteso, disomogeneo e difficilmente identificabile, se non per una parte, come sistema sia pur disordinatamente integrato.
Questo punto debole è stato facilmente strumentalizzato da una classe politica locale timorosa del nuovo e arroccata su posizioni difensive, tanto da perdere di vista la parte migliore e più fertile della riforma, consistente nella sua notevole flessibilità e nell’ampio spazio decisionale lasciato ai Comuni, sia quanto all’adesione o meno al nuovo ente (almeno per i Comuni confinanti con altre Province della stessa Regione), sia quanto all’organizzazione dello stesso.
Sul piano amministrativo, infatti, il Comune costituisce l’unità elementare anche della Città metropolitana e conserva, nel proprio territorio, tutte le attuali prerogative, con l’aggiunta di un potere ampio ed elastico, da esercitare anzitutto in sede statutaria, per organizzare i rapporti nell’ambito dell’ente intermedio anche tramite deleghe nelle due direzioni e per strutturare la “metropoli” in aggregazioni (forme associative) più ristrette ed omogenee (almeno laddove non esistano alternative praticabili di accorpamento ad altre Province).
Su questo secondo aspetto, il dibattito è stato avviato proficuamente e i sindaci interessati, riuniti nella Conferenza metropolitana, hanno abbozzato una prima suddivisione tra Conca barese, Area murgiana, Valle d’Itria, Terra di Bari.
Per quanto riguarda, invece, l’organizzazione di poteri e funzioni, la preoccupazione dominante è stata quella di non cedere prerogative, soprattutto in materia di pianificazione del territorio e di gestione di servizi pubblici locali; preoccupazione a stento celata dietro l’ostentata difesa di una malintesa autonomia delle comunità locali, con buona pace dell’idea stessa di governo di area vasta e di ogni tentativo di perseguire efficienza ed efficacia attraverso la dimensione ottimale nella gestione dei servizi.
Il problema, evidentemente, è quello di una cultura politico-istituzionale ancorata a schemi obsoleti e incapace di fare i conti con scenari (nemmeno più tanto) nuovi, sebbene di aree metropolitane si parli almeno dalla legge 142 del 1990 e l’attuale titolo V della Costituzione contempli la Città metropolitana tra gli enti costitutivi della Repubblica, pur senza darne una precisa definizione.
Di Città metropolitana il legislatore riprese a parlare nel 2009 con la legge n. 42 sul federalismo fiscale, che ne regolava in via transitoria la prima istituzione ad iniziativa di Comuni e Province interessate, rinviando ad una successiva legge la disciplina ordinaria. Anche questa previsione non sortì gli effetti sperati: le amministrazioni coinvolte non sfruttarono la possibilità di verificare sul proprio territorio procedure, metodi ed effetti dell’istituzione del nuovo ente.
Si arriva così al decreto legge n. 95 del 2012 che, nel quadro di un complessivo riordino degli enti intermedi, all’articolo 18 istituisce le 10 città metropolitane sopprimendo contestualmente le corrispondenti Province.
Si è già accennato agli aspetti più controversi di ordine politico e sostanziale, primo fra tutti la coincidenza automatica tra le due aree amministrative che non sempre rispetta criteri di omogeneità e/o integrazione, né rispecchia le peculiarità dei territori. Per altri aspetti, relativi in particolare a funzioni e organi delle Città metropolitane, allo scioglimento anticipato di organi eletti a suffragio universale e alla configurazione come ente di secondo grado, sono state sollevate altrettante questioni di costituzionalità.
Con il rinvio dell’udienza già fissata per il 6 novembre 2012 la Corte, di fatto, ha dimostrato di non voler intralciare più di tanto i percorsi della politica, ma la mancata conversione in legge del decreto n.188 del 5 novembre 2012 ha interrotto il processo di attuazione del riordino avviato con il “salva Italia” (decreto legge n.201/2011) prima e con il decreto 95 poi.
C’è da chiedersi allora se sia svanita, per il momento, la speranza di attuare una riforma importante quanto complessa, che per vero avrebbe richiesto maggior respiro e un approccio a 360 gradi per affrontare le diverse tematiche non solo giuridiche, ma storiche, economiche, sociali, politiche e territoriali.
Per il momento, pressioni periferiche e interessi locali tendenti all’azzeramento della riforma hanno ottenuto, in sintesi, di rinviare tutto al 31 dicembre 2013, con l’intento non troppo velato di differire il più possibile questioni scomode e dal forte impatto politico-istituzionale.
Rimangono irrisolti molti dei nodi emersi nel corso di un dibattito che ha avuto, comunque, il merito di portare alla ribalta dell’opinione pubblica una inderogabile esigenza di riforma dello Stato e dei vari livelli di governo, finora sottovalutata proprio da coloro che sarebbero dovuti essere protagonisti e veri soggetti attuatori della riforma: gli amministratori locali.
Nessuno può ritenere che le soluzioni prospettate fossero le migliori in assoluto, né sottovalutare le difficoltà che una riforma di questa portata comporta, ad esempio, in termini di trasferimenti di risorse finanziarie e umane, di riallocazione degli uffici, di rapporti giuridici tra nuovi e vecchi Enti o di gestione degli strumenti di programmazione a livello sub-provinciale (contratti d’area, distretti Industriali, patti territoriali, aree vaste, Gal) e utilizzo degli strumenti rivenienti dall’attuazione delle misure dei fondi strutturali europei.
E tuttavia occorre prendere atto che proprio l’Unione Europea, che guarda al territorio in chiave prevalentemente economico-funzionale, dopo aver continuato negli anni a finanziare numerosi programmi finalizzati ad integrare e migliorare lo sviluppo urbano e metropolitano, specie nelle regioni più svantaggiate, valuta le aree metropolitane tra le priorità dell’Agenda territoriale 2020.
Ciò che sarebbe importante definire è un modello di governance della Città metropolitana, che assicuri il coinvolgimento di tutte le parti interessate e al contempo migliori l’interazione tra il livello decisionale e quello attuativo; una governance, cioè, multilivello orientata a far divenire la Città metropolitana una macroarea competitiva anche nei confronti dei sistemi locali di altri Paesi e che potrebbe gettare la basi per una nuova cooperazione economica, meno vulnerabile alle crisi del mercato interno ed estero ed in grado di affrontare con maggiore energia le sfide dell’immediato futuro.
Solo in questo modo si potrà tentare di dare attuazione ai modelli di governance previsti dal trattato di Lisbona e dalla strategia Europa 2020 che, puntando a uno sviluppo sostenibile su differenti livelli, individuano le Città metropolitane quali luoghi di mediazione nel rapporto tra locale e globale, tra fenomeni socio-culturali e produttivi, tra tradizione e innovazione, tra identità territoriale e pluralità etnico-culturale.
Non è pensabile, però, che il Paese possa cambiare secondo formule velleitariamente calate dall’alto, senza un processo di partecipazione in grado di raccogliere l’esperienza delle comunità locali e mettere in moto le positività dei territori.
Al prossimo governo toccherà dunque attivarsi per dare seguito alle disposizioni sopravvissute alla decadenza del decreto 188, puntando su processi il più possibile partecipati per contenere le spinte “emotive” dei localismi e delle loro facili strumentalizzazioni, cercando di porre almeno le basi per un riordino moderno ed efficiente degli Enti locali.
Se questo non avverrà, avremo perso l’ennesima occasione di avvicinarci a quell’Europa che ha pensato la governance metropolitana come ambito e metodo di programmazione, piuttosto che di gestione, in cui, partendo dall’ottimizzazione dell’apparato burocratico, siano create strutture amministrative snelle, funzionali alla risoluzione dei problemi, alla promozione e allo sviluppo economico e sociale del territorio, tramite azioni integrate nel campo della pianificazione territoriale, della gestione e organizzazione dei servizi pubblici, della mobilità e delle infrastrutture, non riducibili a operazioni di facciata, semplici ritocchi dell’esistente per inseguire facili consensi, ma tali da impattare con forza sul tessuto urbano programmando e gestendo fenomeni di crescita e rigenerazione sociale.
Agli amministratori spetterà di smentire con i fatti chi descrive le istituzioni locali come luoghi di sperpero e cattiva gestione, impegnandosi nella costruzione del nuovo modello istituzionale che favorisca le relazioni tra i territori per integrarne le economie mettendo a valore le differenti caratteristiche, risorse e vocazioni, per migliorare il welfare locale e la qualità dei servizi pur riducendo i costi, per creare nuove opportunità in direzione dello sviluppo intelligente, sostenibile e inclusivo che l’Europa ci chiede.