Da almeno vent’anni registriamo un profondo e sempre più evidente cambiamento che riguarda i sistemi insediativi urbani, con l’esplosione dell’edificazione e con la formazione di una nuova città, lontanissima dal processo di espansione più o meno regolare e continuo, che ha caratterizzato la città industriale prima e quella moderna poi e che l’urbanistica ha cercato di governare attraverso strategie regolative e la zonizzazione. La città contemporanea, è una città discontinua, costituita da sistemi costruiti, semi costruiti e aperti, con una grande offerta di aree che nel passato avremmo giudicato potenzialmente trasformabili (aree dismesse, sottoutilizzate, abbandonate, vuoti urbani di varia natura), che insieme formano un’offerta di gran lunga superiore alla domanda immobiliare, non solo pubblica ma soprattutto privata.
La città contemporanea è inoltre caratterizzata da un modello di mobilità quasi esclusivamente dipendente dalla motorizzazione privata e dall’enorme spreco energetico dovuto alla condizione di gran parte del suo patrimonio immobiliare e alle modalità di uso del suolo indifferenti a tale problematica. Una città che non sarà possibile trasformare come immaginato dal precedente modello insediativo, che non potrà essere oggetto d’interventi di densificazione capaci di occupare tutti gli spazi liberi che la caratterizzano, che dovrà essere trattata per la situazione complessa che la contraddistingue, fatta di spazi urbani con diverse densità e modalità di uso del suolo, dove possono essere anche compresenti le principali funzioni insediative urbane con quelle rurali.
La crisi ancora aperta ha prodotto una caduta verticale del settore immobiliare, dovuta alla sovraproduzione degli ultimi decenni, che ha determinato un patrimonio edilizio tanto consistente, quanto incapace di soddisfare una forte domanda abitativa presente nelle aree urbane. La più evidente mutazione nei nostri territori riguarda la crescente distanza tra la grande offerta di aree potenzialmente trasformabili e la richiesta del mercato immobiliare; una distanza che è destinata a modificare gli stessi processi di formazione e accumulazione della rendita fondiaria urbana ed anche il suo valore economico complessivo.
In questo quadro si deve inoltre evidenziare l’insostenibilità di una continua erosione delle risorse ambientali fondamentali, anche di quelle non riproducibili come il suolo e la necessità di perseguire la rinaturalizzazione delle molte aree libere interne alla città, la cui trasformazione non appare più plausibile a fronte dei possibili trend di sviluppo attesi.
La legge regionale “Norme per il governo del territorio” dal 2004 è il nuovo riferimento giuridico che sostituisce la legge 61/85 dal titolo “Norme per l’assetto e l’uso del territorio”. La riforma avviata con la legge regionale 11/04 apre un quadro urbanistico nuovo: quello che unisce al piano strutturale non prescrittivo, il piano operativo quinquennale prescrittivo per l’attuazione; quello che ottiene le aree di uso pubblico nella misura necessaria per tutta la città, in compensazione dei diritti edificatori privati concessi dal piano; e infine quello che individua nel piano di coordinamento di area vasta, il livello da potenziare per il governo del territorio.
La risposta ai problemi urbanistici, ancora oggi tutti presenti nel Veneto, è contenuta nel pacchetto di norme della legge riferite alla “Valutazione Ambientale Strategica”, agli istituti della “perequazione”, “compensazione” e del “credito edilizio”.
La VAS prevista dalla normativa del Veneto per tutti i livelli di pianificazione (Ptrc, Ptcp, Pat) introduce la congruità delle scelte degli strumenti urbanistici rispetto agli obiettivi di sostenibilità individuando gli impatti, le eventuali misure di mitigazione e di compensazione. La svolta, rispetto alle precedenti applicazioni della valutazione agli strumenti urbanistici, sta nella dimensione strategica: dagli impatti ambientali di un progetto a un sistema di valutazione degli impatti delle opportunità di sviluppo dell’ambiente.
L’istituto della perequazione urbanistica viene definito come lo strumento che persegue l’equa distribuzione, tra i proprietari degli immobili interessati dagli interventi, dei diritti edificatori e degli oneri derivanti dalla pianificazione urbanistica.
La compensazione urbanistica consente ai proprietari di aree ed edifici oggetto di vincolo preordinato all’esproprio di recuperare adeguata capacità edificatoria su altre aree o edifici, anche di proprietà pubblica, previa cessione all’amministrazione dell’area oggetto di vincolo.
Con il credito edilizio infine la norma intende una quantità volumetrica che viene riconosciuta o a seguito di compensazioni urbanistiche oppure con la realizzazione di interventi di restauro ambientale che attengono alla riqualificazione urbana, paesaggistica, architettonica e ambientale.
Nel merito di questi istituti la legge punta a superare l’ambiguità insita nel rapporto tra pubblico e privato nell’attività di pianificazione, chiarendo che gli spazi per il ruolo dei privati sono soprattutto da ricercare nella parte operativo-attuativa della pianificazione la quale resta, invece, un’attività di responsabilità istituzionale pubblica, svolta nell’interesse generale, pur aperta a fasi di partecipazione democratica.
La legge regionale 11/2004 ha certamente individuato alcuni nodi critici del territorio e dell’ urbanistica introducendo e portando a sistema gli studi e le norme sulla difesa del suolo, la consapevolezza della necessità di contenere il consumo di territorio e i nuovi approcci al paesaggio. Alle politiche di vincolo e tutela si sono affiancate modalità nuove di leggere i temi sempre presenti: le diverse domande abitative, gli spazi verdi assenti o residuali, il traffico e la marginalità del trasporto pubblico locale, la questione energetica come tema che riguarda la città e il territorio nel suo complesso.
Una costante, a fronte di piani che hanno affrontato questi temi, è rappresentata dalla incapacità/impossibilità di attivare politiche in grado di dare risposte ai fabbisogni di famiglie e imprese, mentre la qualità urbana e territoriale è in costante declino.
In questi primi dieci anni di attuazione e sperimentazione si evidenziano, come era del resto atteso, luci ed ombre e certamente non sempre l’interpretazione che ne è stata data risulta soddisfacente. Tre questioni emergono sopra le altre.
1. Le potenzialità progettuali e operative che stanno alla base del rapporto tra Piano Strutturale (Pat) e Piano Operativo (Pi) nella pratica non sono pienamente acquisite; si assiste addirittura a soluzioni che riproducono il Prg (direttamente prescrittivo e generatore di rendita) accomunando le scelte, i tempi e la scala operativa del piano strutturale e di quello operativo. Ne consegue l’incapacità di dare risposte credibili e praticabili; compito dell’amministrazione urbanistica è anche quello di tutelare le risorse e dare risposte ai fabbisogni senza che questo debba significare continuare a vendere il territorio.
2. Nei confronti del rapporto tra enti cresce la burocratizzazione e la cultura del mero controllo sempre più formale, giustificato dalla esigenza di omologazione dei quadri conoscitivi, mentre sono ancora rari e limitati i casi di pianificazione associata e di area vasta capaci di affrontare le questioni emergenti alla scala in cui si presentano.
3. I nuovi piani, non rappresentano la prima esperienza per i comuni veneti, i Piani di assetto strutturale si inseriscono in un processo che rappresenta la terza o quarta generazione. I Pat si presentano in una fase caratterizzata da ridotte espansioni, da significativi processi di riconversione di aree che hanno perso la funzione originaria e da nuove attenzioni ai problemi ambientali ed energetici delle città. Queste caratteristiche, che sono parte delle ragioni che hanno sollecitato la necessità del processo di riforma, richiedono una attivazione progettuale nuova, capace di incrociare discipline che fin qui non dialogavano, così come richiede nuovi sviluppi culturali delle stesse discipline urbanistiche e del fare urbanistico.
Dal 2000, anno intorno al quale le più importanti leggi regionali di riforma urbanistica sono state varate, molte cose sono cambiate sia nel contesto locale che globale e molti passi in avanti sono stati compiuti nella direzione di migliorare piani e politiche territoriali
Oggi ci si deve misurare con la complessità dei cambiamenti che continuamente scompongono e ricompongono la realtà socio economica e territoriale, processi che indicano la necessità di riconsiderare politiche e azioni nel quadro dei nuovi scenari che si vanno a delineare e tra questi in primo luogo:
l’allarme sui cambiamenti climatici;
i processi di metropolitanizzazione; la continua espansione che genera alti consumi di suolo, diseconomie di scala e una progressiva disarticolazione delle funzioni urbane;
la minore disponibilità di fondi per gli investimenti sia da parte pubblica che da parte privata.
Ormai da decenni si va affermando che il territorio è una risorsa limitata, che la priorità è il recupero e la riqualificazione urbana, e che servono nuovi strumenti in quanto quelli a disposizione sono stati pensati in un’altra epoca in un altro scenario: quello della crescita per diffusione. Da decenni però i processi urbanistici hanno fatto registrare il proseguimento indisturbato di quel modello che nonostante i costi, soprattutto infrastrutturali, risultava più semplice, più condiviso. Per contro nelle nostre città (grandi o piccole che fossero) si sono moltiplicate aree e edifici dismessi senza che operatori pubblici o privati fossero capaci di tradurre i tanti progetti in opere.
Oggi, segnati dalla crisi, tutti siamo costretti a rivedere convinzioni, modelli operativi e a misurarci con nuove sostenibilità anche economiche. I processi di recupero e riqualificazione urbana non sono più solo una opportunità, ma stanno diventando l’unica modalità possibile di intervento nelle città.
Ai tradizionali vuoti urbani determinati dalle aree dismesse (industrie, scuole, ospedali, caserme, ecc.) si sommano nuovi spazi e nuovi edifici prodotti dal cosiddetto federalismo demaniale, incidendo in modo sostanziale sui valori dei beni e sulle reali potenzialità di valorizzazione di tali beni. Per lungo tempo infatti nel nostro paese, anche in ragione della bolla immobiliare, le aree dismesse sono state molto sopravalutate e i progetti di trasformazione caricati conseguentemente di volumi, fenomeno quest’ultimo che lungi dal premiarli spesso a prodotto soluzioni non accolte sul mercato.
La fase che stiamo attraversando, pur nella crisi, sembra indicare una soluzione tutta orientata alla qualità urbana, alla densificazione senza che questo significhi sempre riempimento, all’aumento delle dotazioni urbanistiche e non ultimo alla infrastrutturazione delle reti per la mobilità.
La vera scommessa sembra essere quella di operare con valorizzazioni minori, ma con una maggiore attenzione per la città pubblica; una scommessa che coinvolge anche gli operatori privati i quali non a caso sono in prima linea nel sostegno agli interventi normativi e progettuali indirizzati alla rigenerazione urbana.
In questi dieci anni di applicazione della legge regionale abbiamo assistito ad un continuo proliferare di aggiornamenti, revisioni, sovrapposizioni di norme e di nuovi strumenti che hanno reso il quadro operativo sempre più complicato e foriero di contrasti. La vera questione non è però rappresentata da una spesso giusta necessità di adeguamento e aggiustamento di una nuova legge quanto dalla volontà (spesso manifesta) di scardinare la logica del piano così come disegnata dalla legge 11/04
Il Piano Casa nelle tre versioni fin qui varate ha proposto, attraverso l’affermazione della deroga, una logica tutta orientata al sostegno del settore delle costruzioni, seguendo l’ipotesi che la crisi è una crisi determinata da difficoltà procedurali (soprattutto urbanistiche predisposte dai comuni). Nella logica del legislatore regionale non compare nessuna riflessione nei confronti dell’enorme sovrapproduzione sia residenziale che non residenziale (capannoni e uffici) degli ultimi dieci anni, così come non vi si trova nessuna riflessione sulle dinamiche del mercato abitativo e sui fabbisogni residenziali. Il Censis nel Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2013 denuncia come lo stock edilizio sia sempre più sfasato rispetto all’evoluzione della famiglia italiana, oggi registriamo “una dimensione media degli alloggi, in termini di stanze (4,2) che in qualche modo è sproporzionata alla dimensione media della famiglia (2,4 componenti)” da qui una riflessione circa i benefici che deriverebbero dal mettere mano ad un frazionamento del patrimonio esistente con il “risultato di aumentare il numero degli alloggi a parità di volume costruito, dando una risposta agli alloggi di piccolo taglio. Una opzione quindi che tiene conto dell’obiettivo di fermare ulteriori spinte espansive della città, insostenibili non solo dal punto di vista ambientale ma anche in termini economici, dati gli alti costi necessari per l’adeguamento della rete dei servizi e delle infrastrutture”. Il Piano Casa Veneto ha scelto la soluzione semplice e di facile consenso: puntiamo su quanto avviene comunque e cioè i piccoli adeguamenti e facilitiamoli evitando problemi burocratici e oneri urbanistici; il successo rivendicato (il numero degli interventi più alto rispetto alle altre regioni italiane) non solo è poca cosa, ma sarebbe ugualmente avvenuto senza depauperare le già vuote casse comunali.
Ancora, ma questa è una riflessione che riguarda tutta le produzione legislativa di questi ultimi dieci anni, la norma, in quanto in deroga, non distingue i contesti, anzi nel Piano Casa ter tende ad omologarli ancora di più, rendendo difficile e foriera di problemi l’applicazione.
Il tema della efficentazione energetica, ad esempio, strategico in una logica di premi volumetrici in cambio di risanamento, presenta difficoltà e quindi sfide diverse in ambiti rurali, periurbani e urbani; nei centri storici e in quelli consolidati.
La Regione Veneto ha sempre posto una attenzione particolare al tema delle aree da destinare ad insediamenti produttivi; uno dei primi provvedimenti, prima ancora della predisposizione di una legge urbanistica organica, è stato infatti la Lr 73/1978 sull’ampliamento dei fabbricati produttivi in zona impropria.
Lo sportello unico per le attività produttive SUAP, nato in ambito nazionale con l’obiettivo di “semplificazione” procedurale (DPR 947/98 e successive modifiche), nell’applicazione veneta ha puntato soprattutto a risolvere la grande quantità di imprese insediate “fuori zona” proseguendo il principio attuato fino dagli anni Ottanta e cioè quello di prendere atto di un modello insediativo “banale” che intende esternalizzare i costi delle proprie scelte e che chiede (e ottiene) la “legalizzazione” dell’insediamento.
Oggi con lo sportello unico (Lr 55/2012) si consente il consolidamento delle imprese ovunque insediate e l’opportunità di ampliarsi fino a 1.500 mq; si risolve così ogni prospettiva relativa ad riordino delle aree produttive, alla loro ristrutturazione in termini tecnologici, ambientali, logistici e infrastrutturali evitando di affrontare il tema dei capannoni vuoti e in progressivo degrado.
Anche in questo caso una risposta ad un problema reale (gli spazi per la produzione e le necessità di evoluzione delle imprese nel loro ciclo di vita) tutta giocata in funzione della proprietà immobiliare dei terreni piuttosto che in chiave imprenditoriale.
Molte questioni e molti temi sono affrontati dalla Lr 50/2012 “Politiche per lo sviluppo del sistema commerciale nella Regione del Veneto”, dalla libera concorrenza, ai rapporti tra grande distribuzione e commercio di vicinato, dalla riqualificazione dei centri storici a quella delle aree degradate e dismesse.
Tutti temi rilevanti e presenti nel territorio regionale e la legge sembra sposarne uno in particolare: basta prevedere grandi interventi in aree periferiche, che producono consumo di suolo, congestione e traffico, oltre al killeraggio della piccola distribuzione, portiamo invece il commercio nei centri delle città in particolare nei centri storici. Interessante soluzione, la scelta di avere norme uguali, valide per tutti in nome della deroga provoca però alcuni problemi:
la scelta della localizzazione degli spazi commerciali fino a 1500 mq ovunque sembra non tener conto del modello insediativo veneto, composto di molti piccoli centri per i quali una struttura di quelle dimensioni è certamente insostenibile sia dal punto di vista economico che urbanistico (dimensioni edilizie e traffico generato);
se in centro storico di un capoluogo si possono prevedere grandi strutture di vendita anche senza la realizzazione di parcheggi in quanto esistono i mezzi pubblici, nei piccoli e medi comuni, la deroga dai parcheggi non è possibile;
la riqualificazione commerciale per i capannoni dismessi e delle aree degradate sembra essere indicata come l’unica soluzione possibile, che se comprensibile in una legge di settore non è certo auspicabile un una ottica generale.
Superare il piano inteso come il momento, non certo definitivo e valido per sempre, ma come scelta capace di valutare il sistema insediativo, le funzioni compatibili egli impatti cumulati, porta anche nel caso del commercio ad una logica che privilegia i bisogni e le domande settoriali.
A seguito dell’alluvione del 2010 la Regione ha affrontato la questione delle aree a criticità idraulica. Lo ha fato con un provvedimento, le “aree di attenzione” che mettendo assieme i dati a disposizione ha perimetrato il territorio Veneto con il risultato che “tutto è a rischio” e con l’esito conseguente che “nulla è a rischio”. Infatti dopo le proteste di Sindaci e operatori si è provveduto a togliere e/o limitare notevolmente il perimetro delle cosiddette aree di attenzione.
Invece di valorizzare gli studi puntuali e approfonditi condotti per i PAT e spingere i comuni a completarli, si è aggiunto un nuovo livello di vincolo e controllo poi tutto vanificato. E oggi non c’è chiarezza e certezza su cosa si deve fare.
Il territorio della Regione Veneto è stato interessato da una continua erosione di risorse ambientali dovute in gran parte alle modalità di uso e di spreco di suolo. Tale situazione è oggi riconosciuta non solo in sede tecnico scientifica, ma è coscienza diffusa e il contenimento del consumo di suolo e il corretto uso delle risorse rappresentano una prospettiva strategica. Il progetto di legge della Giunta regionale n 390 “Disposizioni per il contenimento del consumo di suolo, la rigenerazione urbana e il miglioramento della qualità insediativa”, così come il testo del Governo adottato dalle Commissioni riunite VIII e XIII “Contenimento del consumo di suolo e riuso del suolo edificato” evidenziano questa nuova attenzione.
Il progetto di legge veneto che si propone gli obiettivi, del tutto condivisibili, di tutela del suolo, con particolare riferimento alle superfici agricole, come bene comune e risorsa non rinnovabile, rischia di fatto di essere un enunciato poi smentito dagli articoli di attuazione del provvedimento.
Infatti, mentre si prevede di bloccare con i PI le aree di nuova urbanizzazione nella misura del 50% delle “superfici corrispondenti al carico insediativo aggiuntivo previsto dal PAT”, nulla si dice sul “residuo” dei vecchi PRG (che automaticamente diventano il primo PI ai sensi della Lr 30/2010) che rappresentano il vero carico urbanistico previsto per il prossimo futuro.
Inoltre, mentre si “blocca” il 50% delle nuove espansioni, si introducono deroghe capaci di limitarne gli effetti in quanto riferite proprio ai settori che maggiormente incidono nel consumo di suolo quali gli accordi pubblico – privato, gli interventi con lo sportello unico, gli interventi di rilievo sovra comunale.
Due questioni del Disegno di legge della Giunta meritano inoltre una ulteriore attenzione.
La scelta di prevedere che “le aree di nuova urbanizzazione non attuate” possono perdere la loro efficacia, rappresenta un approccio assolutamente innovativo e di grande impatto comunicativo, ma che sarebbe opportuno trattare nel Piano (la sede dove si effettuano le scelte conformative dei diritti edificatori) e non con un articolo di legge, inoltre bisognerebbe distinguere l’attuazione e la consistenza delle azioni (per quale motivo il 50%) in relazione alla ubicazione nel contesto urbano e in relazione alla dimensione dei comuni.
La seconda si riferisce alla riclassificazione di terreni edificabili, denominate “varianti verdi”. Una città casuale è quella edificata in questi anni seguendo le richieste (consenso diffuso) e la rendita (poteri forti) una città dove non trovano razionalità servizi, aree produttive, residenziali e infrastrutture, ma una città che rincorre la domanda e ora con la possibilità di “riclassificare in agricole le aree edificabili” si rincorre la stessa domanda con sottrazione senza rispondere a forma e bisogni della città.
Certamente interessanti appaiono le proposte di sostegno alla rigenerazione urbana, soprattutto perché contenute nello stesso disegno di legge che promuove il contenimento del consumo di suolo, ma c’è il rischio di svuotare, anche in questo caso le sue potenzialità. Le modalità attuative dei processi di rigenerazione urbana sembrano indirizzati esclusivamente ad un aiuto del settore edilizio sostenuto da incrementi volumetrici premiali. L’articolo sulla compensazione previsto dalla legge 11/04, lasciava alla valutazione comunale le quote compensative, ora nel Progetto di Legge vengono definite (15% e 30%) in modo uniforme su tutto il Veneto e per tutte le tipologie di intervento, senza porsi il problema dell’impatto e della relazione tra queste e la domanda di dotazioni urbanistiche
Ancora una volta il legislatore sembra non aver compreso il rapporto tra PAT e PI.
La crisi della pianificazione urbanistica si riverbera nel successo del disegno per brani di città, che evoca un approccio alla costruzione e alla trasformazione urbana che è legato ad approcci architettonici e a visioni connesse ad elementi di qualità scarsamente presenti nei piani di tradizione. Rappresenta, quindi, una modalità di prefigurazione delle trasformazioni urbane che ha un indubbio fascino evocativo.
Ma proprio per i rischi insiti in questo suo fascino, essa ha bisogno di un sistema di regole alle quali appoggiarsi e, quindi, di un piano urbanistico che le faccia da riferimento per la predisposizione di progetti di trasformazione che siano sistematicamente inquadrati in un disegno d’insieme. È evidente che questo è possibile solo se il piano di assetto assume la sua valenza strutturale, ma anche strategica.
I comuni sono però attestati anche su di un altro fronte di crisi, rappresentato dalla carenza di risorse da investire per il governo del territorio, che significa difficoltà di costruzione e realizzazione dei servizi pubblici.
Questa nuova condizione pone importanti problemi ai comuni, ai cittadini e anche agli urbanisti; nello specifico si pone il tema di come il piano (e altri strumenti di governo del territorio) possano garantire qualità urbana ed ambientale, servizi pubblici e case in affitto, in assenza di interventi pubblici diretti e di operatori in grado di trovare sostenibilità economica per finanziarli. Sembra una domanda senza risposta, ma forse proprio nel piano urbanistico e nella sua possibilità/capacità di “regolare” interessi pubblici e privati può essere trovato un equilibrio in grado di fornire risposte alle domande che anche il mercato pone. Si possono cioè ripensare interventi ed investimenti di sostegno alle famiglie e alle imprese remunerando gli investimenti e non i processi immobiliari sganciati da qualsiasi ragione di domanda produttiva e residenziale come è stato fatto nel passato con il proliferare dei “capannoni” promossi con gli incentivi di Tremonti.
Molti comuni grandi e piccoli sono alle prese con la redazione dei Piani Urbanistici e cioè nel tentativo di dare risposte credibili ai loro cittadini e al loro territorio; compito della tecnica urbanistica è anche quello di aiutarli ad attraversare il tempo della crisi, senza che questo debba significare continuare a vendere il territorio per fare cassa o rinunciare a dare risposte ai fabbisogni.
In altri termini significa superare la logica semplice del Piano Casa, che poco è riuscita a produrre, per assumere l’ipotesi di riqualificazione urbana investendo i processi di dismissione, ma anche avviando nuovi processi di sostituzione nei confronti degli spazi e del patrimonio degradato dal punto di vista urbanistico, edilizio ed energetico.
Non si tratta di una nostalgia razionalista e della proposta di testo unico ma della necessità di armonizzare all’interno della revisione della 11/04 le questioni rilevanti emerse in questi 10 anni.
In modo sempre più esplicito si sta prefigurando un “nuovo” modello di governo del territorio con una forte guida regionale che tende a costituire un rapporto diretto con cittadini e imprese bypassando i comuni e sostituendo al piano urbanistico, lo strumento di riferimento di un disegno d’insieme capace di predefinire gli impatti delle trasformazioni e di indirizzarli verso una maggiore sostenibilità urbana, un sistema dirigistico di norme, leggi e deroghe che punta a riproporre l’impossibile stagione della valorizzazione immobiliare e della intensa e diffusa produzione edilizia.