Urbanistica INFORMAZIONI

Prossimità e rigenerazione urbana: l’esperienza torinese nella sfida posta dalle risorse PNRR

Il valore della prossimità funzionale e relazionale, sia in relazione alla capacità di costruire risposte efficienti ai problemi che emergono nelle fasi di crisi, sia per la costruzione di quelle alleanze di territorio fondamentali nel formare identità di persone e comunità assume forza progettuale per le politiche pubbliche territoriali costruite per ambiti locali in una dimensione per la quale il quartiere diventa l’unità di riferimento progettuale.

Le risorse previste dal PNRR per programmi di rigenerazione lanciano alle città una sfida davvero straordinaria. Le esperienze affrontate nel passato, sia nei primi anni del Duemila, sia più recentemente possono offrire un insieme di valutazioni fondamentali nell’affrontare questa sfida.
Nel giugno del 2016 la Presidenza del Consiglio dei ministri lanciava un bando rivolto alle città sul tema della riqualificazione e della sicurezza delle periferie urbane. Per molte città, tra le quali Torino, si è trattato di un momento molto particolare nell’immediatezza della scadenza dei mandati dei sindaci. Quindi i novanta giorni previsti per la preparazione delle proposte delle candidature hanno coperto un momento di ‘vuoto decisionale’ soprattutto nei casi in cui si è assistito ad una discontinuità amministrativa.
La ‘soluzione’ è stata quindi quella di cercare una forte coerenza tecnica in grado di sopperire alla naturale ‘assenza’ della visione del decisore politico. Nel caso di Torino questa coerenza era facilmente riconducibile alla continuità con le politiche pubbliche di rigenerazione urbana, venute a costruirsi fin dagli anni ‘90, attraverso i Contratti di quartiere e, soprattutto, i progetti URBAN.
Il filo rosso che ha legato questi programmi è stato quello di interpretarli non solo come interventi di riqualificazione materiale di ambiti urbani, ma piuttosto come interventi in grado di costruire una cornice che guardava alla città come a un sistema di relazioni verticali e orizzontali, attribuendo grande valore al concetto di quartiere, inteso non come una porzione di territorio amministrativamente delimitata, ma piuttosto come luogo nel quale si manifesta un forte addensamento di relazioni di comunità.
Nonostante tutti i programmi di finanziamento abbiano usualmente favorito la realizzazione di opere, dal Progetto Periferie (1997) in poi la Città di Torino ha sempre mirato ad intervenire anche sul tessuto relazionale dell’ambito urbano oggetto degli interventi, in un approccio che, nel contesto ampio delle politiche di rigenerazione, si è consolidato solo negli ultimi anni.
Il Bando per la riqualificazione e la sicurezza delle periferie, forse anche perché promosso direttamente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, piuttosto che da un ministero strettamente tecnico, ha fortunatamente lasciato spazio alla possibilità di costruire un set di interventi ad ampio spettro, capaci di finanziare sia interventi fisici sia materiali.
Il dibattito seguito all’approvazione di AxTO (acronimo del progetto presentato dalla Città di Torino) è stato centrato sull’opportunità o meno di prevedere interventi diffusi in alternativa ad una (o poche) opera rilevante. Va sottolineato che la scelta di prevedere più interventi, peraltro rispondenti a quelle teorie della rigenerazione urbana note in letteratura sotto il cappello dell’agopuntura urbana (Lerner 2003), è stata privilegiata anche in relazione alla necessità di rispondere, attraverso i fondi governativi, alle difficoltà finanziarie della Città, difficoltà che hanno determinato conseguenze non solo su nuovi investimenti, ma sulle stesse manutenzioni del patrimonio edilizio pubblico.
Scegliere tra la concentrazione degli interventi o la loro diffusione può dipendere da situazioni contingenti. Si ritiene, tuttavia, che una politica efficace di rigenerazione urbana non possa prescindere da un approccio integrato. Per operare secondo questa modalità non è sufficiente costruire programmi di tipo multisettoriale (una somma di interventi monade), ma è necessario individuare contesti territoriali e relazionali pertinenti: agire sulla prossimità relazionale, attraverso l’accompagnamento agli interventi di riqualificazione fisica, ha permesso, nella nostra esperienza, di costruire reti comunitarie locali che sono diventate il necessario enzima per avviare meccanismi di rigenerazione urbana non effimeri, ma capaci di innescare veri processi di sviluppo urbano. L’idea di base è che la costruzione di un programma di rigenerazione per essere efficace debba rispondere a logiche di tipo generativo in un bilancio non solo finanziario, ma sociale. I programmi di rigenerazione attraversano le varie dimensioni, quella fisica e dello spazio pubblico, dell’abitare, dei contenitori di servizi (o delle cosiddette infrastrutture tecniche) e quelle della promozione del tessuto economico e culturale, del lavoro, del welfare in senso ampio (o delle cosiddette infrastrutture sociali).
Interessante è che questa conclusione sia un approdo comune, per chi parte da studi e esperienze di rigenerazione urbana, ma anche per chi ha punti di vista estremamente settoriali come, ad esempio, quello degli operatori sociali: “dobbiamo osare e pensare alle nostre reti di servizi e lavoro sociale non più solo come creatori di risposte ai bisogni derivati di esclusione e marginalità, ma come modelli ed esempi di città e territori nei quali la coesione crea produzioni, commerci, ricerca, lavoro, rigenerazione abitativa e ambientale, un nuovo tipo di trasporto, apprendimento diffuso oltre i muri delle scuole, diffusione di esperienze culturali in ogni campo, riscoperta del sapere […] In sintesi, occorre capire che l’impegno per il sociale è anche impegno per lo sviluppo locale, centrato su persone e luoghi da trasformare” (Luongo, Morniroli e Rossi Doria 2022).
In quest’ottica la scala di osservazione non può che essere quella locale, il quartiere dove, come si è detto si addensano le relazioni comunitarie, dove si possono più facilmente costruire processi di appartenenza. In un linguaggio tipico della teoria dei sistemi, il quartiere è l’ambito entro il quale si realizzano forme di chiusura operativa (Maturana e Varela 1980; Cavallaro 1998), cioè dove si manifestano, con una maggiore intensità, fenomeni di interazione tra i soggetti locali, interazione che può risultare collaborativa oppure di conflitto. Secondo questa visione la presenza di dinamiche conflittuali (ne sono un esempio lampante quelle legate alla presenza di differenti etnie) può essere letta come un potenziale positivo per l’innesco
di processi di rigenerazione urbana.
Non vi è dubbio che, nonostante le spinte globalizzanti e lo sviluppo della società cosiddetta liquida, il valore della prossimità nel definire i livelli di qualità della vita quotidiana, assume un ruolo decisivo. Dove con prossimità si fa riferimento alla definizione utilizzata da Manzini, che riconosce il doppio legame tra prossimità funzionale e prossimità relazionale (Manzini 2021). Il periodo pandemico ha certamente evidenziato questo aspetto. Il distanziamento fisico personale, che con orrida locuzione (a partire dalle norme speciali emanate nel periodo) è stato definito distanziamento sociale, ha permesso di realizzare con forza quanto per ognuno di noi sia importante vivere lo spazio pubblico, anche semplicemente per incrociare in strada altre persone. Il fenomeno dei cori collettivi sui balconi del primo lockdown ne è una fenomenizzazione evidente.
In termini di prossimità la pandemia ha anche evidenziato la difficoltà di reazione del sistema sanitario nazionale, la cui rete diffusa della medicina di base si è sempre più indebolita. È evidente come un efficiente presidio da parte di una struttura fondata sulla medicina di territorio avrebbe meglio fatto da argine all’impatto sui servizi emergenziali, con effetti postivi anche rispetto alla diffusione del contagio.
Per contro è emersa l’importanza della struttura diffusa di un servizio come quello della scuola, dove il venire meno della didattica quotidiana in presenza, attività tipicamente fondata sulla prossimità territoriale, ha generato una serie di impatti di breve, medio e lungo periodo, sui singoli e sulla collettività. E questo non tanto rispetto alla didattica (sostituita dalla Dad): la scuola, da ormai molti decenni, rappresenta non solo il luogo dell’apprendimento formale, ma anche dello scambio con i propri coetanei, dove si rafforza da un lato l’autonomia e dall’altro il confronto e la solidarietà dei compagni, dove si formano i gruppi di costruzione di relazioni tra coetanei, dove si ‘appianano’ conflitti e disuguaglianze.
I due esempi, le cui dinamiche e effetti sono emerse in modo più evidente durante la fase di emergenza sanitaria, dimostrano il valore della prossimità, sia in relazione alla capacità di costruire risposte efficienti ai problemi che emergono durante la straordinarietà della fase di crisi, sia per la costruzione di quelle alleanze di territorio fondamentali nel formare identità di persone e comunità.
In questo duplice quadro, trasversalità delle politiche di rigenerazione e importanza della prossimità funzionale e relazionale, assumono forza progettuale le politiche pubbliche territoriali costruite per ambiti locali, come ad esempio la ‘città dei 15 minuti’ di Carlos Moreno. Al di là della visione, quasi utopistica, che la ville du quart d’huere propone attraverso l’idea di una riorganizzazione degli spazi urbani affinché il cittadino possa trovare entro 15 minuti tutto quello di cui ha bisogno (lavoro, acquisti, sanità, scuola), e pur riconoscendo nel suo affermarsi una dinamica ciclica che alterna modelli di sviluppo urbano polarizzati a modelli multipolari, l’aspetto più interessante di questo approccio riguarda la possibilità di immaginare nuovi modelli per le politiche di rigenerazione: la ‘città dei 15 minuti’ evidenzia l’importanza di fondare i programmi a partire dalle alleanze territoriali, dalle reti locali di comunità, reti che utilizzano come interfacce di relazione i nodi strutturanti il territorio, le infrastrutture tecniche, in una dimensione per la quale il quartiere diventa l’unità di riferimento progettuale.
Proprio lungo questa direzione si costruisce nel tempo l’esperienza torinese, con un approccio che, almeno per i primi anni, oserei definire empirico. Le iniziative torinesi di rigenerazione degli anni ’90 iniziano a sperimentare, parallelamente agli interventi di riqualificazione fisica dei quartieri di edilizia residenziale pubblica, la presenza di un servizio specifico indirizzato, in prima battuta, a facilitare il cantiere, ad organizzare i ricoveri temporanei per gli abitanti, spesso in condizioni di fragilità (economica, relazionale, sanitaria), o le modalità di compresenza tra cantiere e funzione abitativa. Da subito l’‘ufficio dell’accompagnamento sociale’ diventa un punto di riferimento per gli abitanti e gli operatori, le persone a cui chiedere l’assistenza più varia, dalla lettura delle bollette alla possibilità di ricerca di un’occupazione, fino alla ricerca di aiuto per le prenotazioni presso le strutture sanitarie. In quelle situazioni, spesso, emergono ‘leader di quartiere’, persone che fanno da tramite tra chi abitava il quartiere, e le organizzazioni (associazioni, cooperative, ecc.) responsabili del servizio di accompagnamento, a loro volta cerniera con l’amministrazione pubblica. In queste organizzazioni vengono via via a formarsi persone con una specifica competenza, che ultimamente è stata definita quella dell’artigiano sociale: una figura professionale multicompetente e ibrida che, in modo trasversale, ma olistico, svolge il ruolo di rigeneratore urbano, educatore professionale, animatore sociale, progettista socio-culturale.
Questo tipo di figura, che ha imparato fa-
cendo, è riconoscibile nelle fila delle organizzazioni esterne alla macchina amministrativa, ma anche tra le persone dipendenti della Città impegnate nella gestione e cura di quelle nuove forme organizzative di reti territoriali che, nelle diverse esperienze dei programmi di rigenerazione, venivano a costituirsi. I prima anni del Duemila sono, infatti, caratterizzati dalla nascita di tavoli sociali, agenzie per lo sviluppo, comitati di quartiere: soggetti collettivi partecipati che hanno avuto il fondamentale ruolo di assumere la forma di veri laboratori di quartiere, punti di riferimento per la definizione e, soprattutto, per l’attuazione delle politiche pubbliche di trasformazione urbana, anche con caratteristiche più strettamente settoriali (esempio quelle socio-educative e culturali). Questa relazione tra cittadini e cittadine, corpi intermedi locali, pubblica amministrazione, in alcuni casi è evoluta da forme embrionali, e quasi spontanee, a strutture più organizzate.
Le Case del quartiere sono lo sviluppo strutturato ed organizzato dei modelli partecipativi prima descritti e costituiscono un modello, ormai consolidato, in cui viene a formarsi, nel secondo decennio del Duemila, un approccio innovativo all’idea di welfare urbano.
Le otto Case del quartiere occupano edifici di proprietà pubblica (con un’unica eccezione), riqualificati per lo più con programmi e azioni di rigenerazione urbana, individuate a seguito di iniziative promosse da soggetti diversi (istituzioni pubbliche, fondazioni di origine bancaria e d’impresa, imprese sociali, associazioni, cittadini). Le modalità di gestione sono differenti proprio perché ogni Casa ha una storia diversa e agisce in un peculiare ambito urbano, in un quartiere con un substrato sociale ed economico specifico. Negli organismi di governance la Città di Torino ha sempre un ruolo di indirizzo.
Gli elementi comuni, il filo rosso che lega le Case è il “Manifesto delle Case del quartiere”, documento attorno cui si è costituita la Rete delle Case del quartiere. La Rete ha poi sottoscritto un protocollo con la Città che identifica obiettivi comuni e modalità di relazione tra Rete ed ente pubblico, nell’idea che agire nelle politiche di rigenerazione non possa essere attuato che attraverso alleanze territoriali.
Il Manifesto chiarisce come le Case siano luoghi aperti, “organizzati per accogliere, attraverso attività interculturali, tutti i cittadini dai più piccoli agli anziani, senza discriminazione di genere, nazionalità, estrazione sociale e appartenenza religiosa […] con un’attenzione specifica ai diversi livelli sociali e culturali delle persone” e in cui si “promuovono iniziative popolari curando la qualità delle proposte e coniugando cultura con socialità”. Luoghi dove “si ricercano e si sperimentano nuovi modi di fare welfare, sviluppando le reti di prossimità, la ricerca di soluzioni collettive a bisogni comuni”.

Fig. 1. Casa del quartiere di San Salvario, vista dall'esterno (foto di Valeria Vitulano).
Fig. 1. Casa del quartiere di San Salvario, vista dall’esterno (foto di Valeria Vitulano).

Senza andare oltre (si rimanda qui al manifesto pubblicato sul sito della Rete) è chiaro che questi luoghi terzi possono essere identificati come una delle infrastrutture sociali su cui basare azioni di rigenerazione urbana, azioni nelle quali le Case sono un prodotto (ora in una prospettiva di tipo evolutivo [1] e autogenerativo), ma anche un agente proattivo delle azioni stesse. Esse, infatti, sono strutture intermedie fra pubblico e privato, in un contesto di amministrazione condivisa, frutto della collaborazione tra Amministrazione comunale e cittadinanza attiva. In questo senso svolgono un’importante funzione pubblica, essendo luoghi privilegiati di sviluppo di cittadinanza e di costruzione di reti sociali e diventano strumenti di costruzione di un nuovo welfare urbano.
Aspetto assai interessante, emerso con forza durante il periodo pandemico, durante il quale le Case sono state nodi della rete “Torino solidale”, è quello per cui le case del quartiere rappresentano un modo davvero diverso di concepire servizi di prossimità. Mettendo a confronto questo modello con le indicazioni fornite dal PNRR per le Case di comunità (l’assonanza è evidente), ci si accorge immediatamente di una differenza sostanziale: nonostante la prevista presenza di spazi per la comunità, dal modello gestionale proposto per le Case di comunità emerge la dominanza di un’ottica orientata fortemente alla questione sanitaria. È chiaro che un modello innovativo deve, invece, superare la logica in cui la scala della prossimità è pensata in un’ottica di tipo settoriale. Le Case non sono un contenitore che offre servizi che soddisfano bisogni, ma diventano luoghi accoglienti a disposizione della vita quotidiana del quartiere, dove costruire, proprio intorno alla risposta del bisogno, reti di comunità: in Barriera di Milano la Casa del quartiere è anche bagno pubblico, utilizzato da persone in precarie condizioni abitative.
L’elemento peculiare di questi luoghi è l’informalità resa possibile da una gestione aperta, informalità che parte dall’allestimento e dall’arredo e arriva ad attività che mescolano quotidianamente popolazioni, gusti, attività, situazioni. Importanza rilevante, nelle Case, ha la presenza di un bar o un ristorante che costituisce, oltre che una fonte di autofinanziamento, una opportunità di socializzazione e convivialità. Le case del quartiere sono luoghi dove più che offrire servizi per le persone si agisce con le persone (Luongo, Morniroli e Rossi Doria 2022). L’azione di presidio territoriale che esse svolgono va interpretata anche come un modo per favorire l’attivazione delle comunità. In questo senso le case sono una delle possibili declinazioni del concetto di laboratorio di quartiere che in altre città ha preso nomi diversi, ma le cui esperienze possono essere ricondotte allo stesso alveo. Una partecipazione della cittadinanza non finalizzata alla costruzione di una decisione (problem solving), ma piuttosto ad una azione di sviluppo locale di lungo periodo, capace di aprire canali di comunicazione e di prossimità relazionale, di gestione dei conflitti e di lavoro comune tra amministrazione pubblica, terzo settore, cittadini, territorio. Attraverso questa dinamica si esce dalla ‘straordinarietà’ del programma di rigenerazione urbana, per entrare in una dimensione temporale di continuità dell’agire collettivo, che si esplica a livello locale. Si incontrano le azioni di riqualificazione di parti del tessuto fisico urbano con le azioni classificate come innovazione sociale.
Un effetto particolarmente interessante è rappresentato dai casi in cui soggetti-luoghi ibridi nascono e funzionano in forma privata o da una natura monosettoriale evolvono. Fondazioni di comunità (Mirafiori, Porta Palazzo), community-hub (via Baltea, BeeOzanam), centri di innovazione aperta e di servizi per la collettività (Ex-Incet), sono soggetti privati che si muovono in questo ambito di governance complessa.
Questa linea di azione ha contribuito a definire la strategia che la Città ha adottato nella costruzione del Piano integrato a valere sui fondi PNRR: 15 minuti intorno alle biblioteche.
L’ossatura del piano integrato parte dall’assunto che la biblioteca sta sempre più diventando un luogo di incontro e socializzazione, dove si pratica, in modo del tutto informale e quotidianamente anche l’accoglienza a bassa soglia per persone vulnerabili, fragili, senza dimora. Come si può leggere dal dossier di candidatura “la biblioteca è un facilitatore di welfare culturale, che genera inclusione e integrazione sociale, dialogo interculturale e parità di genere. La mixité sociale e culturale è una chiave importante per comprendere la biblioteca di quartiere come infrastruttura urbana, e la diffusione capillare nella città del sistema bibliotecario cerca di porre rimedio anche ai divari territoriali tra quartieri diversi. Alla partecipazione sono legate l’esperienza e l’interazione. La biblioteca è un tipico terzo luogo: non casa, non lavoro, luogo dell’esperienza collettiva. Si tratta quindi di guardare alla biblioteca non come semplice interazione tra utente e servizio, ma come luogo della fruizione/produzione di contenuti socio-culturali. Sia la gestione del servizio sia la configurazione degli spazi devono tenerne conto. La biblioteca di quartiere diventa un elemento fondamentale dell’infrastruttura sociale urbana, uno dei luoghi della prossimità, un centro culturale accessibile, aperto, inclusivo, e quindi punto di raccordo e di promozione di azioni diffuse sul territorio, in collaborazione con il terzo settore e la cittadinanza attiva: azioni capaci di offrire servizi, anche digitali, e attività orientate alla produzione di un neo-welfare culturale e sociale, che mettono al centro la partecipazione dei cittadini.”
Il Piano ha quattro parole chiave: #culture, #accessibilità, #inclusione, #partecipazione che ne sintetizzano gli obiettivi. Obiettivi che vanno dal migliorare la qualità del servizio bibliotecario, fino all’aumentare i livelli di accessibilità fisica e culturale in un rapporto interno /esterno di fondamentale importanza (la pelle dell’edificio non diventa confine tra dentro e fuori, ma elemento di interazione). Come? Realizzando e riqualificando infrastrutture per l’inclusione sociale, costruendo presidi territoriali, attraverso forme di produzione e di fruizione socio-culturali, educative, sportive, promuovendo il coinvolgimento e il protagonismo, anche economico, delle persone.
La biblioteca diventa il luogo occasione-pretesto per favorire forme di apprendimento informale, decisive nel rispondere ai nuovi bisogni (si pensi ad esempio ai cambiamenti del mondo del lavoro), in una prospettiva di neo-welfare che si muove in una direzione completamente diversa, orientata alla flessibilità, multisettorialità e alla prossimità.
L’occasione che il PNRR, ma anche la programmazione europea 2021-2027, offre è assolutamente straordinaria, ma è importante utilizzare le risorse costruendo delle strategie che mettano al centro iniziative che legano territori e comunità, soggetti attivi e protagonisti di relazioni, quasi quotidiane, a livello microurbano. Per dare un’anima al PNRR (Luongo, Morniroli e Rossi Doria 2022), per affrontare la sfida che la disponibilità straordinaria di risorse pone, è importante uscire degli stretti tecnicismi per sostenere le dinamiche generative che supportano processi di sviluppo locale. E partire dalla prossimità dei quartieri può esser un modo.

Fig. 2. Casa del quartiere di San Salvario, vista dall'interno del cortile (fonte: <a href="http://www.italiachecambia.org" class='spip_url spip_out auto' rel='nofollow external'>www.italiachecambia.org</a> [<a href="https://www.italiachecambia.org/" class='spip_url spip_out auto' rel='nofollow external'>https://www.italiachecambia.org/</a>]).
Fig. 2. Casa del quartiere di San Salvario, vista dall’interno del cortile (fonte: www.italiachecambia.org [https://www.italiachecambia.org/]).

Riferimenti

Cavallaro V. (1998), “Strange Loops, Tangled Hierarchies and Urban Self-Regulation”, in C.S. Bertuglia, G. Bianchi, A. Mela (eds.), The City and Its Sciences, Springer-Verlag, Heidelberg, p. 243-266.
Ferrero G. (2012), “Welfare urbano e uso sociale dello spazio pubblico a Torino”, Urbanistica Informazioni, no. 242, p. 14-15.
Lerner, J. (2003), Acupuntura Urbana, Editora Record, Rio De Janeiro.
Luongo P., Morniroli A., Rossi Doria M. (2022), Rammendare. Il lavoro sociale ed educativo come leva per lo svliuppo, Donzelli Editore, Roma.
Manzini E. (2021), Abitare la prossimità, Egea, Milano.
Maturana H. R., Varela F. J. (1980), Autopoiesis and Cognition. The Realization of the Living, D. Reidel Publishing Company, Dordrecht.

[1Su cosa erano e ora sono le Case del quartiere è assai interessante confrontare l’attuale con quanto descritto, dieci anni fa, nel contributo di Giovanni Ferrero nel 2012 pubblicato su questa stessa rivista (Urbanistica Informazioni, no. 242).

Data di pubblicazione: 16 aprile 2023