Urbanistica INFORMAZIONI

Modernità della città di prossimità. Clarence Perry e Lewis Mumford

Per Mumford la città è intesa come prodotto culturale, come spazio della democrazia e dello sviluppo del senso civico e comunitario, dove la conformazione dello spazio e la sua individualità contribuiscono ad accrescere il senso di appartenenza al luogo e al riconoscersi nella comunità locale. Per Perry il fattore principale per il dimensionamento dell’unità di vicinato è la scuola, che da allora diventa il parametro ricorrente per definire lo spazio necessario alla vita del quartiere.

L’interesse per la città di prossimità (la ‘città dei 15 minuti’), non è nuovo, ma attraversa tutta la cultura dell’urbanistica moderna, trovando forse in Lewis Mumford un osservatore e un interprete importante, che ha orientato a lungo il dibattito e l’azione progettuale, non solo negli Stati Uniti, ma in Europa e in Italia.
Il riferimento a Mumford non è casuale, quando oggi parliamo di città della prossimità, alludiamo anche a una nozione di città fortemente legata alle comunità locali, al contesto, al paesaggio, alla qualità ambientale. Pensiamo ad una città ecologica, democratica, in equilibrio con la dimensione regionale: tutti termini che Mumford riassumeva nella sua visione ‘organica’ dell’architettura e del regional planning. È anche noto come Mumford fosse interessato alle teorie della prossemica di Edward. T. Hall (“The hidden dimension”, 1966), e alle ricerche di Ian L. McHarg sul ruolo dell’ecologia nel progetto (“Design with Nature”, 1969) (Fanfani e Saragosa 2014: 418).
La città della prossimità si realizza attraverso le dimensioni del quartiere e dell’unità di vicinato. Mumford le coglie in viaggio in Europa, visitando numerose città storiche, ma anche i nuovi interventi di edilizia residenziale pubblica in particolare in Germania, in Olanda, in Inghilterra. In quella occasione ebbe modo di conoscere personalmente Ernst May e J.J.P. Oud (Rosso e Scrivano 2007: XXV)

Fig. 1. Una veduta a volo d'uccello del progetto di Clarence Perry del 1928 per una unità di vicinato (fonte: Perry 1929: 20, foto di Arqpalazz, Wikimedia Commons, United States public domain).
Fig. 1. Una veduta a volo d’uccello del progetto di Clarence Perry del 1928 per una unità di vicinato (fonte: Perry 1929: 20, foto di Arqpalazz, Wikimedia Commons, United States public domain).

La ricerca di una localizzazione e una dimensione ottimale per i quartieri residenziali è un tema ricorrente negli anni ’20-’30, in Europa come negli Stati Uniti, dove le ricerche di Clarence Perry e le esperienze progettuali di Clarence Stein e di Henry Wright erano ben note a Mumford.

L’Unità di vicinato di Clarence Perry

Clarence Perry conosceva a fondo le teorie di Ebenezer Howard e l’esperienza delle Garden cities, ne coglieva la strategia regionalista e il progetto di decentramento urbano, tutti elementi che gli sembravano particolarmente congeniali allo sviluppo della città americana fortemente condizionato dall’automobile. Mentre Howard puntava sulla rete ferroviaria e sul traporto pubblico, Perry accetta la pervasività delle reti autostradali, ma tenta di limitarne gli effetti sulla sfera residenziale e la comunità locale di cui riconosce il valore fondativo. Il territorio comprende infatti tre livelli di comunità: la regione come ‘famiglia di comunità’, la città o villaggio. Il vicinato.
Per la cultura americana di quel periodo la riconoscibilità, l’individualità, il confine sono temi importanti. “Un villaggio o città ha confini evidenti. Dove l’edificato finisce, e l’aperta campagna comincia, lì è il bordo, o superficie esterna, della municipalità. Il vicinato, d’altra parte, di solito non ha confini visibili. Il suo tessuto è continuo con quello delle adiacenti sezioni residenziali, commerciali o industriali. A causa della sua assenza di forma non ha una chiara identità nella consapevolezza della gente” (Bottini 2017).
Perry interviene proprio su questa assenza di identità. Il suo libro “The Neighborhood Unit”, una sorta di manuale predisposto per il Regional Plan of New York and Its Eenvirons, approfondisce la misura e il ruolo della unità di vicinato vista come cellula urbana di base. La città è intesa come un sistema di cellule autonome, interrelate e servite da una rete stradale da cui, però, ci si ritrae. Le unità di vicinato in America nascono con questa impronta, si distaccano dalla rete automobilistica principale, che garantisce la connessione regionale e urbana, per realizzare un’enclave in cui ci si muove a piedi. L’unità di vicinato viene indagata su diversi fronti: la dimensione (che ruota intorno alla scuola e a una popolazione variabile tra i 5.000-10.000 residenti); i confini definiti dalle arterie di comunicazione principali, ma anche da reti naturali; gli spazi aperti, i parchi e le aree ricreative; le aree per i servizi; i negozi di quartiere; il sistema stradale interno. Ragionamenti di buon senso portano a proporre distanze, limiti di percorso: “il limite comunemente fissato per un viaggio al mercato di quartiere o all’emporio è di un miglio e mezzo. Dal punto di vista del residente urbano medio, una certa comodità richiederebbe una distanza inferiore, e certamente nessuno si sposterebbe di più per raggiungere il droghiere o il chiosco di giornali. Apparentemente un raggio di mezzo miglio dovrebbe essere una dimensione di controllo in qualunque sistemazione di campi da gioco scolastici e negozi”.
Il fattore principale per il dimensionamento dell’unità di vicinato è la scuola, che da allora diventa il parametro ricorrente per definire lo spazio necessario alla vita del quartiere (non è difficile ricostruire l’influenza delle norme di progettazione americane non solo nella vicenda delle new towns inglesi, ma anche nei quartieri INA casa).
La sicurezza stradale, evitando i pericoli dell’attraversamento delle arterie principali diventa un requisito fondamentale “se una scuola non deve essere localizzata su una strada di attraversamento allora è ugualmente vero che anche la sfera di servizio non deve mai essere attraversata da una strada principale”. L’unità di vicinato è all’interno di un sistema stradale minore ed è protetta da tutto il traffico di attraversamento. Timore del traffico e subordinazione al dominio dell’auto, ne consegue un sistema di distretti residenziali separati dalle arterie maggiori: “le pareti delle nostre cellule protette saranno le autostrade urbane”. Probabilmente nessuno allora poteva prevedere il dissolvimento dell’unità di vicinato nella solitudine dei suburbia.
L’unità di vicinato indagata da Perry era costituita fondamentalmente da abitazioni unifamiliari, un modello insediativo a bassa densità per il quale erano necessarie superfici consistenti, fino a 160 acri (circa 64 ha), in alcuni casi, tuttavia, il vicinato poteva prevedere edifici pluripiano per appartamenti. In un passaggio del suo manuale Perry esprime un forte apprezzamento per il complesso residenziale in stile Tudor, che all’epoca era in costruzione a New York tra la 40esima e la 44esima strada e la Prima e Seconda Avenue, qui “gli edifici sono sia ad appartamenti che a casa-albergo. Sono disposti a fronteggiare una vasta area centrale a parco. Essendo localizzato su un’altura che rende le strade trasversali a fondo cieco in questo punto, il quartiere gode di insolita libertà dai rumori del traffico. Oltre al parco e al campo da golf, si stanno realizzando uno spazio giochi, garage, negozi, caffetteria, ristorante, lavanderia e altri vari servizi. Attraverso l’uso di questi privilegi in comune, i legami sociali e l’associazionismo fra residenti sono destinati a svilupparsi. Quindi, Tudor City è un eccellente esempio dei guadagni in termini di carattere residenziale resi possibili dal trattamento unitario di un vicinato ad appartamenti, e preannuncia chiaramente un importante futuro per questo tipo di progetti.” Oggi il quartiere conta oltre 5000 residenti e 2800 appartamenti.
Nella progettazione dell’unità di vicinato molta importanza è dedicata alla caratterizzazione dei confini, alla definizione dei margini: “limiti chiari consentono al pubblico di vedere una comunità in quanto tale, di riconoscerla come entità distinta. Quando i confini scompaiono, perde la propria identità e scivola fuori dalla consapevolezza collettiva”.
I principi di Perry furono alla base della realizzazione della new town di Radburn New Jersey, progettata da Henry Wright e Clarence Stein nel 1927. Qui venne messo a punto un sistema gerarchico della viabilità, dalle grandi autostrade, alla viabilità secondaria, al sistema di accesso alla residenza (per la quasi totalità abitazioni unifamiliari) mediante penetrazioni stradali a cul de sac. Queste derivazioni servivano gli spazi posteriori delle unità abitative che avevano il fronte principale, con la zona notte, il soggiorno e il giardino, sul lato opposto, aperto sul parco e la rete di percorsi pedonali che consentivano di raggiungere le varie parti del quartiere e della città. La soluzione a cul de sac fu una innovazione di successo che presto divenne il palinsesto di infiniti quartieri novecenteschi e che, ripetuta ossessivamente, contribuì alla frammentazione delle future periferie urbane. Radburn venne proposta come un modello insediativo ideale per una città di 5.000-10.000 abitanti. I suoi principi erano chiari e comprensibili: separazione del traffico automobilistico da quello pedonale, una struttura urbana ben definita nel suo contorno, articolata in grandi isolati contenenti un numero equilibrato di unità di vicinato dotati dei servizi essenziali, il complesso scolastico e il distretto commerciale come centralità urbane per l’intera comunità. L’attenzione all’immagine della città, all’importanza percettiva dei margini fisici, degli spazi di confine, dei manufatti riconoscibili che costruiscono l’identità dei quartieri e dei vicinati nasce ora, Kevin Lynch la svilupperà alcuni decenni dopo, riportandola nei contesti urbani complessi di Boston, Los Angeles, Jersey City (Lynch 1969).
L’esperienza di Radburn è riconosciuta da Lewis Mumford come un modello esemplare per il futuro della città: “l’importante lezione di Radburn deve essere ora applicata in progetti più ampi di sviluppo regionale” (Mumford 1938: 345), quando ne scrisse non poteva ancora prevedere che la città sarebbe stata inglobata nella diffusione urbana di New York.

La cultura della città

Il libro di Lewis Mumford, “The culture of cities” uscì nel 1938, si impose immediatamente all’attenzione, non solo degli urbanisti e degli amministratori, ma per il suo carattere sociologico, storico e critico fu accolto da una platea molto vasta di lettori. In pochi anni divenne un punto di riferimento per l’urbanistica moderna. La città era intesa come prodotto culturale, come spazio della democrazia e dello sviluppo del senso civico e comunitario. Per questo Mumford guardava con interesse alle città storiche europee dove la conformazione dello spazio e la sua individualità contribuivano ad accrescere il senso di appartenenza al luogo fisico e nello stesso tempo e al riconoscersi nella comunità locale.
È noto il legame di Mumford con Patrick Geddes da cui eredita la visione geografica e organica del territorio, la nozione di spazio regionale come fondamento conoscitivo dell’evoluzione della città. Una visione naturalistica, organica, biologica da cui deriva il convincimento che la città futura sarà biotecnica. “Nell’ordine biotecnico le discipline biologiche e sociali diventano dominanti: l’agricoltura, la medicina e l’educazione prenderanno il passo sull’ingegneria” (Mumford: 496).
È questa visione che lo porta a intrecciare materia e cultura, a guardare alla natura come risorsa e conoscenza. Anche la città è un prodotto naturale e culturale insieme, per questo il suo principio evolutivo è la cellula che si moltiplica con equilibrio secondo uno schema dato. La città è un organismo complesso, destinato a implodere come una metastasi, se non ci si prende cura delle sue cellule. La cellula coincide con l’unità di vicinato. Nella cellula come nella città nel suo complesso, sono le reti verdi a delineare il sistema connettivo che separa e nello stesso tempo definisce i contorni, da quelli del vicinato, a quelli delle zone produttive, commerciali, ricreative, fino a divenire le cinture verdi che separano la città dal territorio vasto.
Non può meravigliare l’interesse di Mumford per le Garden cities e il Piano di Patrick Abercrombie per la Grande Londra. Al fondo di queste esperienze troviamo sempre la cellula, il quartiere.
Mumford sapeva perfettamente la tendenza della città americana ad evolversi in settori separati, in unità segregate per razza, fascia sociale, reddito e che questo avrebbe portato alla affermazione di una città conflittuale, divisiva, a una città di cellule morte, bloccate dalla miseria e dalla sopraffazione. L’unità di vicinato, il quartiere equilibrato è il principio che può portare ad una redistribuzione di servizi, di qualità, di opportunità. Passare da una cellula all’altra senza le fratture delle arterie stradali, spostarsi a piedi lungo percorsi alberati e raggiungere in sicurezza le diverse parti della città è per Mumford un avanzamento di civiltà che contribuisce alla democrazia e all’integrazione sociale. Il quartiere sembra essere un fenomeno naturale, presente nella città storica, ma che si contrae progressivamente in seguito al dominio delle grandi arterie di trasporto “nel diciannovesimo secolo lo sviluppo dei trasporti fa diventare la grande arteria stradale la componente dominante della progettazione urbana, da struttura per l’insediamento a infrastruttura per il movimento [...] la città diventa forse più unita tra le varie parti, ma al costo di distruggere o quantomeno indebolire la vitalità dei quartieri” (Mumford 1954).
Mumford per primo denuncia il dominio nella pianificazione urbanistica della rete stradale automobilistica; il dato ancora oggi di impressionante attualità.
Per Mumford la rivalutazione dello spazio comunitario di quartiere è legata da un lato all’affermazione del suburbio, dall’altra alla riscoperta della dimensione di vicinato propria delle città del passato: “dal suburbio, così come dai quartieri storici della città tradizionale discende l’idea secondo cui il vicinato debba possedere una certa coerenza architettonica, sia nelle forme spaziali generali che nel progetto dei singoli edifici” (Mumford 1954: 9). Legato a questo discorso si colloca l’interesse di Mumford per la qualità del centro comunitario, indispensabile per caratterizzare l’individualità del quartiere, sia nelle operazioni di nuova edificazione, quando la proprietà fondiaria è maggiormente accorpata, sia in quelle di recupero e riqualificazione dell’esistente, dove la proprietà è in genere parcellizzata. Questa apertura della pianificazione dell’unità di vicinato all’interno della città esistente è un aspetto importante, su cui solo recentemente si è iniziato a ragionare (Alberti e Radicchi 2022).
“The Culture of Cities” fu pubblicato in Italia nel 1953, ma l’attenzione per Mumford era già presente fin dall’immediato dopoguerra per opera di Bruno Zevi animatore dell’Associazione per l’architettura organica (Apao), della rivista Metron che nel 1945 pubblicò di Mumford il saggio “Un’introduzione americana alle Garden Cities of tomorrow”, e dell’Inu che accolse nel 1949, sulla rivista Urbanistica, nel primo numero, dopo la sospensione del periodo bellico, un articolo di Mumford dal titolo “Pianificazione per tutte le fasi della vita”. Il pensiero di Mumford era fortemente presente nel Movimento Comunità, nell’azione di Adriano Olivetti, nella sua rivista, nelle pubblicazioni della sua casa editrice. Era presente non solo sul piano culturale, ma anche operativo, influenzando i programmi Unrra-Casas (dove per la prima volta sociologi e antropologi lavorano con architetti e urbanisti) e il Piano INA-Casa.
I temi dell’unità di vicinato, del quartiere autonomo erano ricorrenti in quegli anni nel dibattito urbanistico (i numerosi convegni dell’Inu di Adriano Olivetti), sia nella realizzazione dei programmi edilizi, dove per la prima volta urbanisti ed architetti si trovarono a lavorare insieme a sociologi e antropologi.
Il pensiero comunitario di Mumford è rintracciabile, in una pluralità di soluzioni spaziali ed architettoniche diverse dal ruralismo del villaggio La Martella, al realismo del quartiere Tiburtino, al contestualismo paesaggista di Falchera. Nel 1967, grazie a Bruno Zevi, la facoltà di Architettura di Roma conferisce a Mumford la laurea honoris causa. È l’apice di un consenso culturale, che presto si ridimensionerà. L’espansione della periferia attraverso i piani di zona Peep promossi dalla L 167/62, con le dotazioni urbanistiche previste dal Di 1444/68 sugli standard, terranno poco conto dell’insegnamento di Mumford.
Il suo discorso, ancora per molti versi attuale, va ora ripreso.

Riferimenti

Alberti F., Radicchi A. (2022), “La prossimità nei progetti urbani: una analisi comparativa fra Parigi, Barcellona, Milano”, Techne, no. 23, p. 69-77.
Bottini F. (a cura di) (2017), “L’Unità di vicinato”, La città conquistatrice, 31 gennaio.
Bottini F. (a cura di) (2018), “Il quartiere spontaneo e l’unità di vicinato”, La città conquistatrice, 6 febbraio.
Fanfani D., Saragosa C. (a cura di) (2014), “In cerca di una modernità perduta dell’Urban Planning: attraverso l’eredità di Lewis Mumford”, Scienza del territorio, p. 418.
Lynch K. (1969), L’immagine della città, Marsilio Editori, Padova.
Mumford L. (1938), La cultura della città, Einaudi, Torino.
Mumford L. (1954), “The Neighborhood and the Neighborhood Unit”, The Town Panning Reeview, p. 9.
Perry C. A. (1929), “Regional Survey of New York and its Environs”, Neighborhood and Community Planning, New York, Vol. VII.
Rosso M., Scrivano P. (2007), “Introduzione”, La cultura della città, Einaudi, Torino, p. XXV.

Data di pubblicazione: 16 aprile 2023