Una realtà urbana concepita e strutturata per poter organizzare la vita dei cittadini realizzando le condizioni idonee affinché sia possibile usufruire in modo agevole ed agile di tutti i servizi primari quali la sanità, l’istruzione, la cultura, lo sport ed il commercio, rappresenta la precondizione per creare uno ‘spirito di comunità’ indispensabile ad innervare l’agire collettivo verso il raggiungimento di un ‘senso di comunità’.
Le periferie racchiudono, per l’effetto combinato di politiche di immigrazione ed immobiliari avvenute nei decenni a cavallo tra la fine del secolo scorso e l’inizio dell’attuale, le più accentuate diversità etniche, culturali e antropologiche. Tanto che le complessità che ne derivano secernono un concentrato umano e sociale sovente origine e fondamento di conflitti interculturali tali da renderle estranee ai sistemi e sottosistemi dell’organizzazione sociale generale.
Di conseguenza, per chi scrive [1] l’attuale concetto di realtà urbana è inteso come la compresenza di fenomeni condizionati dalle dinamiche determinate dai nuovi processi di globalizzazione, dalle relative complesse transizioni in corso tra vecchi e nuovi assetti ed equilibri istituzionali su scala globale e locale, dagli interessi collettivi ed i poteri economici transnazionali, dalle relazioni ed i conflitti tra poteri politici, dalla sempre più frequente discrasia tra l’autorità politica e la legittimazione, dalle difficoltà di ricambio ed autorevolezza delle élite, dai processi di socializzazione identitaria e dalla dimensione politica della vita sociale.
Sulla popolazione ne deriva un diffuso sentimento d’insicurezza dovuto alla crisi degli apparati dello Stato per effetto dei processi di globalizzazione, e, in particolare, dal modo in cui il fenomeno migratorio ha modificato radicalmente il concetto di relazione internazionale, rendendo il mercato e le persone che vivono la realtà della vita quotidiana i principali attori sociali.
Negli ultimi decenni questa spirale ha prodotto fenomeni di ghettizzazione che in alcune realtà del paese rappresentano una specie di ‘città nella città’, o, forse più realisticamente, di ‘non luoghi nel luogo’.
Osservandone i riflessi sulla qualità della vita è possibile osservare come nelle aree ove gli stranieri sono presenti in maniera rilevante il modo di vivere sia mutato per effetto dell’insediamento di immigrati divenuti affittuari di unità immobiliari possedute da famiglie che, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, grazie ai programmi di edilizia sociale varati a favore di operai e impiegati del settore industriale, avevano beneficiato della mobilità sociale di quel periodo, trasferendosi in altri quartieri.
Tale fenomeno, oltre a causare l’allontanamento dei nuclei familiari nel frattempo divenuti più abbienti, ha inoltre contribuito ad abbassare il livello medio di reddito delle aree interessate, poiché gli stranieri inseritisi all’interno di settori lavorativi quasi estinti, come la collaborazione domestica e l’assistenza agli anziani, hanno accettato condizioni di lavoro sovente prive delle minime garanzie e con standard retributivi inferiori, ricorrendo, per diretta conseguenza, a costante assistenza pubblica.
Pertanto, gli strati sociali più agiati, oltre a non avere avuto il problema di entrare in concorrenza con gli stranieri per il welfare, il lavoro, la sistemazione abitativa ecc., hanno anche tratto vantaggio dal poter utilizzare, a prezzi di mercato migliori, l’attività lavorativa da questi prestata. I ceti meno abbienti, invece, hanno visto livellarsi verso il basso le retribuzioni e la qualità della vita, osservando, per l’aumento della domanda associata a tagli in tema di spesa, significative riduzioni dell’intervento pubblico.
Situazione che sul piano sociale è caratterizzata da una elevata complessità, modificabile solo prendendo coscienza che oggi, ogni singolo Stato, considerata la disgregazione del mercato globale associata alla frammentazione dei mercati nazionali, è quasi del tutto impotente.
Infatti, le scelte strategiche sembrano essere prese da poteri incontrollati che si muovono agevolmente negli spazi transnazionali dei flussi finanziari e dell’informazione, proprio mentre sempre più popolazione, precipitando nel baratro economico e sociale degli stati nazionali, chiede agli stessi di operare contro le paure derivanti dalla disoccupazione, dalla criminalità, dal terrorismo di matrice religiosa e dall’immigrazione.
L’aspetto più inquietante è che sono proprio coloro che vivono nelle periferie a subirne gli effetti più rilevanti, perché in esse risiedono le fasce più deboli e fragili della popolazione, ove, nel parco del sempre più degradato quartiere, vedono le conseguenze di un’epoca dominata da un capitalismo totalmente imperante nel quale la ‘merce’, attraverso la globalizzazione e la capacità della stessa di intensificare il processo di scambio e consumo, disciplina e media tutte le interazioni umane creando sistematiche fratture sociali capaci di trasformare, lentamente ma inesorabilmente, l’uomo da animale politico, socievole e comunitario, in individuo egoista, orientato al raggiungimento del proprio interesse personale.
Oggi, siamo in presenza di una totale mancanza di visione e previsione che condiziona pesantemente il quadro attuale, impedendo di realizzare un welfare state calibrato sulle forze sociali e produttive che vivono quasi senza nessuna idea di futuro. Infatti, la mancanza di un processo di riassetto economico-istituzionale in grado di garantire un’implementazione dei diritti, alimentato dalla consapevolezza che essendo ogni periodo storico figlio delle condizioni sociali, tecnologiche, economiche e culturali che lo determinano, necessita di una progettualità in linea con le nuove condizioni che lo caratterizzano.
Quindi, è evidente che un progetto di rinascita delle periferie – perché di questo c’è reale e concreto bisogno – quale ‘la città della prossimità’ è visto con favore, fiducia e speranza.
Una realtà urbana concepita e strutturata per poter organizzare la vita dei cittadini realizzando le condizioni idonee affinché sia possibile usufruire in modo agevole ed agile di tutti i servizi primari quali la sanità, l’istruzione, la cultura, lo sport ed il commercio, rappresenta la precondizione per creare uno ‘spirito di comunità’ indispensabile ad innervare l’agire collettivo verso il raggiungimento di un ‘senso di comunità’.
Il concetto cardine, infatti, intorno al quale può svilupparsi la migliore forma di socialità idonea a realizzare le pratiche di vicinato e mutualismo sociale, è la possibilità, per ogni cittadino, di riscontrare il funzionamento pratico di cose pratiche. E ciò è attuabile esclusivamente tramite un moderno e razionale sistema di welfare state in grado di trasformarsi nell’architrave di un progetto di rigenerazione urbana.
Pertanto, un futuro che non può prescindere da un welfare innovativo ed imprenditoriale concepito in un’ottica efficientista traguardante il raggiungimento di una dimensione produttiva capace di sostituire l’idea di un welfare state assistenzialista, con la percezione, invece, di un welfare integrato in processi di co-produzione dei servizi che, vivendo delle esperienze locali e delle reazioni tipiche delle imprese sociali, per peculiari caratteristiche intrinseche, riesca a determinare cambiamento nelle comunità di riferimento.
Al riguardo, è importantissima l’esperienza dei quartieri come la Learning Community del Comune di Reggio Emilia, verso la quale noto significative convergenze con un progetto che nel 2016, rivisitando in chiave sociologica le esperienze investigative vissute sul campo, in un saggio socio-criminologico ho denominato “quartiere impresa” (Sabatino 2016).
Un’idea finalizzata ad esplicitare un concetto organico di sicurezza basato su una prospettiva socio economica all’insegna dell’equità sociale e sostenibilità ambientale, sintetizzabile nell’attuazione di politiche di sicurezza complementari ed interagenti con politiche economico-sociali integrate da altre di rigenerazione urbana, programmate, pianificate e realizzate ad hoc su specifiche realtà avvalendosi di due variabili derivanti direttamente dall’esperienza investigativa: la razionalità dei devianti (variabile indipendente .- causa del fenomeno) e le opportunità criminali che le situazioni forniscono (variabile dipendente - effetto del fenomeno), ed avendo quale postulato il convincimento che devianti e criminali siano persone assolutamente ‘normali’, senza alcuna peculiare predisposizione biologica e/o psicologica.
Ciò conferisce specifica densità semantica alla genesi sociale di alcuni comportamenti criminali maturati nel perimetro concettuale di ‘quartiere difficile’ inteso quale ‘sistema chiuso esito del mercato aperto’, e di conseguente comportamento criminale socialmente appreso.
Chiunque, infatti, in un ambiente criminoge-
no, può maturare una mentalità criminale, considerando che gli attori sociali reagiscono sempre al proprio ambiente di riferimento, costituito da attori che a loro volta agiscono sulla scorta di reazioni altrui.
Il “quartiere impresa” ha l’ambizione di evidenziare nuovi e possibili futuri scenari introducendo un cambio di paradigma teso ad individuare il ‘valore’ autentico della ‘sicurezza’ osservando le dinamiche criminali strumentali all’acquisizione di un risultato economico mediante un approccio in controtendenza rispetto all’opinione corrente.
Infatti, mentre quest’ultima considera la sicurezza un fine, il “quartiere impresa”, ribaltando la prospettiva, la ritiene, invece, un mezzo per raggiungere un fine.
Quindi, uno strumento in grado di contribuire al benessere dei cittadini e alla pace sociale. In altre parole: sicurezza come risposta al sempre crescente senso d’insicurezza mediante un sistema idoneo a modificare le ‘infrastrutture della vita quotidiana’ promuovendo negli individui processi decisionali fondati sull’inclusione, l’occupazione ed il senso di appartenenza.
Un intervento di stampo hobbesiano su una comunità che paura e insicurezza hanno deformato in modo rilevante, facendo prevalere l’individualismo come cellula elementare della stessa.
Pertanto, un processo graduale fondato in un tentativo di ricostruzione di una società sempre più decostruita, partendo (o ripartendo) dall’uomo calcolante per ricreare un concetto di comunità basato su un contratto tra individui.
E ciò è possibile realizzando una sorta di ‘individualismo aristotelico’ capace di insinuarsi – partendo dal concepire i quartieri delle città come imprese – tra le pieghe della totalizzante spinta capitalistica liberando le energie costrette in un pregiudizio ideologico tipico di chi ritiene impraticabile instillare, canalizzandolo nelle giuste direzioni, massicce dosi di spirito mercatistico nella società.
Un processo graduale capace di trasformare le attuali periferie in parte integrata del resto del territorio diminuendo le diseguaglianze, e, soprattutto, limitando la moltitudine di disperati esclusi dai circuiti economico-lavorativi costituenti ‘l’esercito industriale di riserva’ della criminalità organizzata.
Innovazione e trasformazione di un welfare state indispensabile, considerando che l’attuale configurazione ha quale conseguenza il fatto che in molte città del nostro paese le periferie sono dei collettivi umani territorialmente e socialmente delimitati da invisibili linee di demarcazione all’interno delle quali la criminalità, spesso, assume l’improprio ruolo di principale fonte di reddito delle persone che ci vivono, creando la sequenza periferia-reato-incarcerazione-scarcerazione e di nuovo periferia. Un circuito che si autoalimenta con devianza e criminalità che divengono una risposta ‘sostanzialmente razionale’ alla struttura sociale nella quale gli attori sociali si muovono.
Un fenomeno, quindi, espressione di una condotta esito di molteplici cause che il pensiero dominante cela dietro un velo ideologico capace di accreditarlo come un’emergenza affrontabile su un piano prettamente securitario. Senza considerarlo, invece, una produzione sociale effetto di reti sociali criminali innervate da capitale sociale criminale, che proprio in quel tipo di realtà urbana trae la forza per investire su sé stesso.
Situazione che evidenzia non solo l’incapacità di elaborare una teoria innovativa in grado di unire l’analisi nazionale con quella internazionale, ma anche, o forse soprattutto, di valutare l’importanza di un modello economico-politico sostenibile quale condizione indispensabile per realizzare un welfare state idoneo a contenere la produzione sociale del crimine.
Ciò ha sinora impedito di accompagnare le profonde modificazioni che hanno destrutturato socialmente le periferie – spesso trasformandole in ‘fabbriche di devianza’ – perché ha reso impossibile comprendere come il nuovo modello di organizzazione del lavoro, con la contestuale modificazione al suo interno del rapporto di subordinazione, ha implicato la mutazione dei sistemi attraverso cui realizzare l’assistenza, e, soprattutto, il confronto con le logiche del mercato.
Quindi, è evidente che i cambiamenti sociali influiscono anche su alcuni specifici strumenti di controllo della devianza.
Infatti, le politiche varate in materia di welfare state nel secondo dopoguerra avevano come riferimento una ben individuata quota di popolazione alla quale erano elargiti servizi e benefici sociali mediante una più equa distribuzione dei redditi.
Oggi, invece, il welfare state si trova di fronte ad un indeterminato universo di persone portatrici di bisogni a cui è oggettivamente difficile conferire cittadinanza sociale. E la complicazione più grande risiede nel fatto che l’ingente migrazione post-industriale, dovuta sia al processo di globalizzazione, sia alle difficoltà di redistribuire equamente le risorse, produce un coacervo sociale capace di incentivare nuove forme di devianza, spesso favorite dall’impossibilità di usufruire di ammortizzatori in grado di contenere le spinte destabilizzanti dettate dall’accumulazione di disagio.
Questa sembra essere la principale causa di quella economia informale rappresentata dal crimine nei ‘quartieri difficili’: sintetizzabile in un fenomeno socio-economico capace di fornire energie e risorse alle organizzazioni criminali straniere che, in concorso con quelle autoctone, hanno ampliato il perimetro delle loro attività rendendo, attraverso la complementarietà interetnica, più dinamiche specificità quali il traffico di sostanze stupefacenti, oppure assumendo il monopolio esclusivo di altre, come lo sfruttamento della prostituzione.
Le periferie, dunque, le dimensioni molecolari delle città, come bacino d’incubazione del crimine organizzato, a sua volta causa ed effetto della cosiddetta criminalità comune. Così impropriamente definita perché vicina al comune sentire delle persone e considerata distinta e distante dalla criminalità organizzata.
Errore interpretativo che induce a ritenere la mafia e le grandi organizzazioni criminali lontane dalla vita sociale quotidiana, meno pericolosa del pusher che spaccia nella piazza del quartiere. Omettendo però realisticamente di considerare che quel piccolo delinquente, senza il crimine associativo, non avrebbe la dose da spacciare a chi per comprarla ruba anche negli appartamenti e nei negozi del centro.
È evidente che il “quartiere impresa” non rappresenta una soluzione immediata e di facile realizzazione, ma è certamente vero che se l’uomo ha costruito le città, oggi sono queste che fanno gli uomini. Pertanto, cambiando le città si potrebbero cambiare gli uomini.
Sabatino G. (2016), L’intelligence del marciapiede. La socio-criminologia della strada, Primiceri Editore, Padova.
[1] Ufficiale dell’Arma dei Carabinieri e sociologo da anni orientato alla comprensione delle dinamiche psicosociali che presiedono ai comportamenti devianti tramite un’attività di ricerca impostata sul proprio statuto scientifico e culturale, fondato nell’interazione tra il background professionale e accademico, e in grado, pertanto, di rivisitare in chiave sociologica le esperienze vissute ‘sul campo’.