Disastri ambientali e calamità naturali sono sempre più diffusi sul nostro territorio. Ogni volta che nel mondo avviene un fenomeno di questo tipo cresce sempre più - soprattutto sul piano mediatico - il livello di emergenza globale. E se a questo riguardo gli organismi internazionali hanno messo a punto diversi strumenti per il monitoraggio quantitativo e qualitativo di tali fenomeni, uno degli aspetti più dibattuti riguarda la previsione e prevedibilità dei disastri e le implicazioni che ciò comporta. Per affrontare il futuro sembra necessario ripartire dalla conoscenza, dai problemi e dai limiti delle acquisizioni scientifiche, ma anche dalle sue conquiste. Oggi, anche se con molte difficoltà, i saperi scientifici si raccordano con il sentire diffuso del Paese, che resta per lo più estraneo ai temi del rischio e quasi rassegnato al fatalismo. Tuttavia le scienze umane possono interagire con questi temi, non solo come volani culturali ma anche elaborando dati, ad esempio ricavando utili informazioni dai disastri del passato, favorendo riflessioni sul senso del rischio e del futuro della nostra società.
Come afferma Nicola Marotta (2017) [1] in realtà, la vera questione, “non riguarda affatto la previsione, il sapere come le cose andranno, come se andassero per conto loro. Bisogna invece pensare che le cose andranno così come noi riusciremo a farle andare e che, pertanto, il problema è un problema di decisione, non di previsione. L’atteggiamento che dobbiamo adottare è quindi differente; la previsione serve al più per valutare la maggiore o la minore probabilità che attribuiamo a certe circostanze di cui tenere conto e ai possibili effetti di risposte che potremmo dare e […] bisogna soprattutto porsi il problema di come affrontare le situazioni future, cercare le risposte migliori e dedicare tutte le energie per applicarle”.
Oggi le conoscenze scientifiche sono tali per cui calamità naturali come terremoti, eruzioni vulcaniche, alluvioni, etc., possono essere previste esprimendo un grado (basso, medio, alto) di probabilità del manifestarsi dell’evento e delle sue tragiche conseguenze: ciò che certamente non si può definire con precisione è il momento esatto in cui si verificheranno, pur essendo certi, però, che prima o poi si manifesteranno in un determinato luogo, senza dimenticare che le catastrofi si ripetono spesso negli stessi luoghi causando danni e lutti talvolta molto gravi.
In sintesi, rispetto ai fenomeni catastrofici, oggi disponiamo di una consolidata conoscenza dei luoghi nei quali potrebbero verificarsi, della probabilità, intensità, e dei contesti che potrebbero colpire (patrimonio culturale, componenti naturali e caratteristiche costruttive). Questo patrimonio di conoscenze implica, sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista del benessere umano, un’esortazione ad agire e a intraprendere iniziative tese alla valutazione del rischio disastri e alla promozione di misure di prevenzione e protezione.
E’ ormai posizione consolidata e condivisa presso la comunità scientifica che le calamità naturali rappresentino una tematica di tipo multidisciplinare. Attorno a tali problematiche si è discusso durante il Convegno Calamità naturali. Prevenire per ridurre il disagio dell’emergenza (Cogne, 23 giugno 2017) [2] un’occasione durante la quale si sono messi a confronto esperti in materia di Protezione civile e Soccorso alpino, di formazione della sicurezza sul lavoro e anche di pianificazione del territorio, provenienti da tutto il territorio nazionale.
Uno fra i temi principali trattati è stato il rapporto tra prevenzione del rischio di calamità naturali e pianificazione territoriale e urbanistica, evidenziandone la stretta relazione in termini di ricadute sul governo del territorio.
Infatti le attività di prevenzione di calamità naturali vanno di pari passo con le scelte e le azioni legate ai diversi ambiti della pianificazione generale e settoriale, sia alla scala territoriale (regionale e d’area vasta -provinciale o metropolitana) che a quella urbanistica (comunale o unionale); un’attività di prevenzione che in Valle d’Aosta avviene ai due livelli - regionale e comunale - diversamente da quanto previsto in Piemonte ed in molte altre Regioni dove si fa riferimento alla triplice scala regionale, provinciale/metropolitana e comunale.
Rispetto alla pianificazione territoriale di livello regionale, l’attività di prevenzione avviene attraverso una pianificazione di tipo strutturale ed anche con la pianificazione paesaggistica, in grado di interpretare, conoscere e configurare il territorio per le caratteristiche, le vulnerabilità, le vocazioni, i valori da tutelare che possiede e per gli obiettivi messi in gioco (sviluppo, crescita, valorizzazione, attenzione all’ambiente, contenimento di uso del suolo, tutela dei beni).
Alla scala della pianificazione provinciale e metropolitana, permane il carattere strutturale della pianificazione, con una scala più vicina al territorio, che ha anche il compito di coordinare la pianificazione urbanistica (di livello comunale o intercomunale).
Quest’ultimo miglio della pianificazione è significativo, utile e complicato allo stesso tempo poiché è proprio l’urbanistica quell’attività di pianificazione che ha l’efficacia giuridica di conformare la proprietà immobiliare. Qualunque immobile/terreno fabbricabile incluso nel perimetro amministrativo di un Comune è conformato nel suo uso, nella sua destinazione d’uso, nella fabbricabilità/non fabbricabilità, nell’essere città pubblica/privata. Tutti gli altri piani hanno esclusivamente un potere di indirizzo, di direttiva, di configurazione del territorio, di lettura dei caratteri strutturali. E’ dunque a questa scala che operativamente si edifica il sistema insediativo ed infrastrutturale che si espone, o meno, al rischio!
Affrontare il tema della prevenzione del rischio avvalendosi anche degli gli strumenti della pianificazione è certamente molto impegnativo a tutte le diverse scale [3]. Prevenire il rischio richiede da una parte una rigorosa attività scientifica di previsione, dall’altra la capacità sia di leggere a livello strutturale i nessi territoriali, sia di pianificare alla scala locale un’organizzazione territoriale (del sistema insediativo, infrastrutturale, ambientale e agricolo) che sia coerente con le previsioni del rischio. Ovvero l’organizzazione del territorio va interpretata e progettata in modo tale che, se esiste un possibile rischio, quella conformazione urbanistica sia in grado di essere (ove possibile e necessario anche resistente) resiliente o, meglio ancora, anti-fragile [4] rispetto ad esso.
In concreto, risulta pertanto fondamentale che un Piano di protezione civile comunale dialoghi e sia integrato come un elaborato facente parte del piano urbanistico comunale ; e che ciò possibilmente sia esito di un processo non gerarchico-verticale e non burocratico ma di una copianificazione transcalare. Tale modus operandi dovrebbe produrre virtuosamente Piani comunali di protezione civile fortemente integrati, coerenti e reciprocamente interattivi con il piano urbanistico. E va da se, che nella misura in cui il rischio è un tema fondamentale del/per il governo del territorio, queste due attività non possono essere lasciate a procedure separate ma necessitano di processi integrati.
Entro la prospettiva di tale discussione, non va comunque dimenticato che il tema del rischio quale cardine e responsabilità del governo del territorio è stato recepito dalla pianificazione urbanistica fin dagli anni ’70: la legge urbanistica regionale piemontese n. 56/1977 voluta da Giovanni Astengo prevedeva obbligatoriamente per la formazione e approvazione di un Piano regolatore, la presenza della Relazione geologico-tecnica e idrogeologica che, in un certo senso, rappresentava una sorta di “proto-VAS” o una “protoattenzione” alla consapevole presenza di fattori di rischio: una necessità irrinunciabile per una pianificazione conformativa del territorio, qual è quella urbanistica comunale.
Entro il quadro delle dinamiche ambientali contemporanee, appare sempre più necessario, oltre che opportuno, che i Piani di protezione civile comunali diventino obbligatori all’atto della formazione di un nuovo piano regolatore e che siano aggiornati costantemente in caso di eventuali varianti, assegnando in tal modo al piano una grande responsabilità oltre che una rinnovata capacità di produrre valore aggiunto per il proprio territorio.
In tale senso si può ritenere che entrino in gioco i concetti di resilienza e di anti-fragilità. Il primo può essere definito come la capacità di dotarsi di strumenti, di azioni, di pianificazioni, di progetti, di territorio, di sistema insediativo e di organizzazione infrastrutturale in grado di tornare allo stato co-ante una volta subito un certo evento calamitoso. Il secondo concetto, quello dell’anti-fragilità, rappresenta invece la capacità della pianificazione di produrre sistemi urbani e territoriali in grado non solo di fare fronte agli improvvisi cambiamenti di stato e di equilibrio tornando alla situazione co-ante ma raggiungendo in più una posizione evoluta ed incrementale.
In riferimento a quanto sopra brevemente esposto, piace concludere con una citazione - che si ritiene particolarmente incisiva - di Thomas Carlyle [5]: “L’esperienza è il miglior maestro. Peccato che il suo onorario sia così alto.”
[1] In tale senso si esprime Nicola Marotta, nel documento “Resilienza e resistenza ai disastri” da lui curato nel contesto del Master di secondo livello in Management in Sicurezza dei Luoghi di Lavoro e Valutazione dei Rischi, dell’Università di Pisa.
[2] Convegno Tecnico “Calamità Naturali. Prevenire per ridurre il disagio dell’emergenza. Dall’alluvione al sisma: esperienze a confronto e proposte operative”, Sala museale del Comune di Cogne (Ao), Villaggio dei Minatori, Organizzato dall’Associazione Italiana Formatori ed Operatori della Sicurezza sul Lavoro (AiFOS), AiFOS Protezione Civile, Scuola di Alta Formazione CINFAI e dallo Studio Antonella Grange Sicurezza & Ambiente.
[3] Su tali questioni è intervenuto, in qualità di Presidente della Sezione INU Piemonte e Valle d’Aosta, il Prof. Carlo Alberto Barbieri del Politecnico di Torino.
[4] Sul concetto di anti-fragilità si rimanda a Blecic I., Cecchini A. (2016), Verso una pianificazione antifragile. Come pensare al futuro senza prevederlo, Franco Angeli, Milano.
[5] Thomas Carlyle, storico, saggista e filosofo scozzese (1795 – 1881).