Approfittando di un suo passaggio al Dipartimento di Studi Urbani dell’Università Roma Tre, abbiamo incontrato Michel Péraldi, ora al Centre Berque di Rabat, protagonista delle prime iniziative nei quartieri di Marsiglia, e gli abbiamo posto alcune domande.
Quale ruolo hai giocato nelle iniziative per i quartieri di Marsiglia?
Ho lavorato a Marsiglia dal 1975 al 1988; abbiamo diretto il programma di rinnovamento. Abbiamo lavorato su delle parti di città che chiamavamo perdute per due ragioni: perché erano lontane dal centro della città e perché completamente al di fuori del circuito urbano e politico tradizionale.
Eravamo un gruppo di sociologi piuttosto di sinistra che si è avvicinato a queste città con un punto di vista e una posizione contemporaneamente militante e intellettuale di scoperta di un altro modo di rapportarsi al proletariato, alla classe popolare e alla classe operaia che all’epoca stava ancora cercando di liberarsi dalla condizione operaia. Quindi cercavamo un nuovo tipo di rapporto militante politico con queste categorie sociali e, dal lato intellettuale, un altro modo di pensare la città che non fosse quello del centro e dei monumenti, che non fosse quello della pianificazione nel senso tecnocratico della parola.
Quali obiettivi e strumenti erano disponibili allora?
Abbiamo cominciato a lavorare su queste città, e senza nessuna vanità, possiamo dire che nel 1975, avevamo inventato le politiche urbane. Abbiamo inventato due cose molto semplici: per primo, abbiamo inventato la concertazione, la partecipazione degli abitanti al programma di rinnovamento. Questa idea, che all’epoca era fondativa, voleva rendere dignitosa la situazione delle popolazioni che vivevano in questi quartieri attraverso la ristrutturazione dello spazio. Era un’idea molto semplice, legata all’architettura, molto bella e nobile, su cui noi abbiamo basato il lavoro che abbiamo fatto su questa città. Negli anni 80 abbiamo dunque condotto queste politiche di sperimentazione abbiamo esplorato la città in maniera differente e abbiamo seguito il percorso di un certo numero di attori sociali. Come antropologo penso che gli attori siano sempre il punto di partenza, dal quale pensiamo le cose, gli attori, le azioni, le interazioni sono le cose da cui partiamo per pensare la città e le azioni e i rapporti sociali.
Che tipo di quartieri e situazione avete incontrato?
Per esempio quello che a oggi si chiama il Marché aux Puces di Marsiglia, che non è un mercatino delle pulci inteso all’italiana, ma è un luogo di commercio molto attivo e intenso. Vi trovammo tutta una serie di attività del commercio quotidiano (legumi, mobili, vestiti usati ecc.). Nel 1988, il direttore del mercato delle pulci, che è colui che organizza questo luogo, mi disse che era a conoscenza del fatto che c’erano delle politiche urbane nei quartieri attorno al mercato, nel 15mo arrondissement e che sarebbe stato felice di incontrare le persone che attuavano queste politiche per parlarne. Mi organizzai per parlare con il capo-progetto delle politiche urbane e lo condussi dal direttore del mercato. Ma il rapporto fu subito invertito: il direttore del mercato chiese al capo-progetto cosa poteva fare per lui, destabilizzando molto chi era abituato a fare richieste piuttosto che sentirsele rivolgere. In questa situazione ribaltata evidentemente il discorso era già concluso prima di iniziare, siamo andati a mangiare qualcosa e bere un caffè, a questo punto non ci fu più bisogno che il capo del progetto rincontrasse il direttore del mercato e il direttore del mercato non ebbe più a che fare con politiche.
Che insegna questa situazione?
Questo aneddoto spiega bene la schizofrenia della città, le logiche che lavorano in questi quartieri, che sono da un lato logiche di ricollocazione del dibattito sociale e del dibattito politico; e dall’altro qualche cosa che è il contrario, attraverso le pratiche commerciali e attraverso anche dei traffici, che sono spesso traffici illegali e pericolosi (come traffici di droga, armi ecc., ma anche legale: legumi vestiti usati ecc.). Si ha una delocalizzazione della città e qualche cosa che è insito nelle caratteristiche di questa popolazione, lo stesso gruppo sociale, migranti, algerini, marocchini, tunisini, africani, che li inscrive in uno spazio tanto globale che in qualche modo esaspera la città politica in Francia, tanto oggi quanto ieri.
In conclusione?
Perché si dimenticano le esperienze personali, da trent’anni rifacciamo esattamente le stesse cose. Ogni sei mesi nei quartieri difficili si ricomincia, senza alcuna misura coerente di istituzionalizzazione dei programmi già realizzati. Si vive sempre in una sensazione di deficit politico, e in un rapporto personale con i poveri, il proletariato, gli immigrati ecc. Prevale perciò una logica di ricollocazione di chi parla di cittadinanza e di correzione del deficit strutturale e sociale. Con un fondo di ironia, possiamo dire che -da allora- le politiche urbane in Francia poggiano in qualche modo sull’amnesia: reinventano ogni sei mesi le condizioni della sperimentazione sociale.