Per capire la portata delle strategie e delle azioni urgenti di Detroit, è opportuno ricostruire brevemente le cause che hanno portato più di un milione di persone ad abbandonare la città.
Storici ed esperti di Detroit sembrano concordi nel sostenere che le condizioni in cui verte la città, un tempo descritta come la Parigi del Midwest e “un grande arsenale della democrazia” (Davis, 2007) siano il prodotto di diversi fattori. Il progresso tecnologico e il progressivo spostamento delle geografie economiche globali che hanno portato la produzione a delocalizzarsi; la migrazione verso i sobborghi della classe media a svantaggio delle categorie più deboli; e, infine, il fallimento delle politiche sono le principali corresponsabili della condizione in cui verte oggi la città.
La città fu leader indiscusso nel settore della produzione dell’automobile. La crescita economica che ne derivò si accompagnò al consolidamento dell’anima culturale della città e della sua black working class (Ferrarotti 2009 [1951]). La dipendenza nei confronti di un unico settore produttivo segnò il successo di Detroit e in seguito anche il suo declino, che culminò nella crisi urbana degli anni ‘70.
Si assume erroneamente che il conflitto esploso negli anni sessanta nel cuore della Detroit nera abbia sancito l’inizio della crisi urbana più severa degli Stati Uniti d’America. Questa tesi confonde un sintomo del malessere sociale con le sue cause reali e ignora il ventennio di political economy che gettò le premesse per l’esplosione del conflitto.
Negli anni del dopoguerra il progresso tecnologico e l’automazione comportarono un cambiamento enorme nell’industria manifatturiera dell’automobile, riducendo il numero di lavoratori non specializzati e comportando la decentralizzazione dell’industria automotrice. Molte attività produttive si spostarono alla volta delle aree metropolitane che si attrezzavano ad ospitare le gradi cifre dell’industria dell’automazione fordista. Ma non era solo l’industria a delocalizzarsi. Contemporaneamente, le politiche federali per la casa e la costruzione di strade ad alto scorrimento crearono il cortocircuito della sub urbanizzazione (Beauregard 2003). Sull’onda degli stereotipi razziali, i ceti medi bianchi si sono spostati nei sobborghi, mentre la popolazione afroamericana con minor mobilità, rimase in città. L’introduzione del Federal Housing Act nel 1949 contribuì alla segregazione di fatto non consentendo mutui per la casa a determinate categorie sociali e in determinate aree che cominciarono a registrare un aumento delle categorie più svantaggiate (Manning 1988). Secondo l’attenta ricostruzione di Sugrue la popolazione afroamericana, più economicamente debole, rimase “intrappolata in ghetti che crescevano a dismisura” (2005). Dismissione e white flight prepararono il terreno per le rivolte sociali che riguardarono soprattutto i lavoratori più sfruttati, notoriamente afroamericani, e che segnarono le stigmate della crisi urbana di Detroit (ibidem).
I governi locali, i leader cittadini e statali non seppero riconoscere da subito il cambiamento e non si organizzarono per costruire un’alternativa. Il maccartismo del dopoguerra prima, che silenziò ogni opposizione; e un credo sconfinato nella crescita economica poi, impedirono di leggere criticamente i costi di uno sviluppo quantitativo senza precedenti. Affinché questo avvenga dovranno passare decenni. E il declino di Detroit dovrà raggiungere proporzioni di cui è difficile dare un’immagine esaustiva.
Sulla base di queste premesse, la città di Detroit è in crisi dagli anni ‘50, e a più livelli: in crisi è l’apparato produttivo, in crisi è la capacità della città di trattenere abitanti ed è entrato in crisi il suo stesso “potenziale narrativo” (Beauregard 1993; 2005), ossia la capacità da parte di diversi soggetti di raccontare storie che qualcuno ha voglia di sentire. Il declino ha comportato una vera e propria “diminuzione dell’urbanità [e di conseguenza] il paesaggio delle possibilità narrative della città ne esce riconfigurato” (ibidem).
Negli anni recenti la città ha cominciato a raccontarsi di nuovo. Inizialmente mediante una rappresentazione del declino ad opera di diverse inchieste che, correndo il rischio di un facile ‘voyeurismo della decadenza’, hanno messo in evidenza come si manifestasse fisicamente e socialmente, nonché il dramma che la città stesse vivendo (Time 2009; Moore e Philip 2010; Marchand 2011). Contemporaneamente, diverse ricerche hanno cercato tramite dati e indicatori le cause e le cifre del declino demografico nella tradizionale convinzione che, una volte note le cause, sarebbe stato possibile occuparsi di un progetto per invertire questa tendenza (Metzger 2010). Tra le cifre del declino è importante ricordare che Detroit ha registrato una perdita di popolazione pari al 62% dal 1950 (da 1,85 milioni di abitanti nel 1950 a poco più di 700 mila nell’ultimo censimento), significativa soprattutto se confrontata con la crescita dei sobborghi limitrofi che, dal 1950, hanno triplicato la popolazione fino a superare i tre milioni nel 2010. Questa inversione segna un trend che non sembra destinato a fermarsi. Alcuni quartieri della città hanno perso in proporzione molti più abitanti di altri (-85%) fino a raggiungere situazioni in cui poche famiglie resistono perdute in aree abbandonate. Il reddito medio è inferiore alla media nazionale e il 33% della popolazione vive sotto la linea della povertà. Si stima che più del 68% degli abitanti nelle aree centrali non abbiano un mezzo proprio per spostarsi, e facciano fatica ad accedere alla grande distribuzione alimentare che, nel frattempo, si è spostata a sua volta nei sobborghi. Questi godono anche di più posti di lavoro (quasi l’87% del totale). Il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 24% nella città di Detroit nel 2010, maggiore di quello dell’area metropolitana che è del 14%. La disoccupazione riguarda essenzialmente la popolazione afroamericana che rappresenta l’82% del totale (ibidem). Nessun’altra città degli stati uniti si è polarizzata così tanto sull’asse razziale come Detroit.
Nonostante le cifre dipingano un quadro apocalittico, si può sostenere che nel cuore del declino qualcosa sta accadendo, merito in primo luogo della società civile, delle organizzazioni presenti sul territorio e del ruolo assunto dei soggetti no-profit nella promozione di progetti di sviluppo (Coppola 2010). La rappresentazione del declino della Città, vista come uno dei costi ineludibili del progresso, non sembra soddisfare i detroiters che stanno contribuendo a cambiare la città. Cittadini, comitati e organizzazioni no-profit hanno cominciato a raccontare come Detroit rappresenti una “riserva di possibilità dalle quali ripartire”, tra le quali ottime occasioni di investimento dovute al basso valore delle aree abbandonate.
Se si assume che per i contesti in cambiamento la rappresentazione non solo descrive una realtà sociale ma la costituisce (Beauregard 1993; 2005), questo piano configura un momento di svolta per Detroit.