A differenza di altre città che sono state protagoniste della ristrutturazione economica, in cui l’emergere di nuovi settori trainanti (come ad esempio quello dei servizi, del terziario avanzato e dell’ICT) ha portato a sostituire nuove opportunità con quelle perse nell’apparato produttivo manifatturiero e che si apprestano a terminare grandi eventi e progetti di restyling urbano per opera di architetti di grido, la città di Detroit, scenario della più severa crisi urbana degli Stati Uniti d’America, riparte dalla “salute dei quartieri” rendendo pubblico e discutendo in merito al Detroit Work Project (DWP).
Se lo sguardo lungo ancora preoccupa policy maker e mondo accademico, sembrerebbe invece chiaro al nuovo sindaco di Detroit e a un nutrito gruppo di esperti quello che è necessario fare subito: lavorare sulla condizione di salute dei quartieri per stabilizzare il valore della proprietà privata come condizione ottimale per garantire uno sviluppo futuro. Priorità chiaramente espressa dal DWP che, liquidando obiettivi di largo respiro quali l’equità sociale e un tax-base sharing a livello regionale, circoscrive il problema al livello locale e stabilisce che la ‘buona salute dei quartieri’ dipende dalle loro prospettive di mercato. Per fare leva sul rent gap potenziale, differenza tra l’economicità delle aree e delle proprietà e il valore potenziale che potrebbero raggiungere in seguito a valorizzazioni immobiliari, la città mette in campo azioni specifiche differenziandole sulla base di un’analisi delle condizioni di mercato dei quartieri stessi. In altri termini l’unità minima della convivenza e i servizi a essa connessa fanno da parametro per l’innesto di una “strategia a breve termine” in grado di rendere più tempestivi i servizi ai cittadini e stabilizzare il mercato immobiliare urbano.
Il Detroit Work Project rappresenta qui una finestra attraverso la quale leggere criticamente il comportamento strategico della città nei confronti delle problematiche che affrontano, nella consapevolezza che ogni “tentativo di offrire una immagine esaustiva del declino (di Detroit) soffrirà del fatto che il declino è esso stesso una rappresentazione […] simbolo di ansia sociale” (Beauregard 2005). Protagonisti di questa vicenda sono soprattutto le organizzazioni no-profit, fondazioni private e investitori. Le parole chiave dei primi passi verso una strategia a lungo termine sono: vacancy, e private property.
Nell’agosto 2010 l’attuale sindaco della città Dave Bing decide di dare avvio al suo mandato con un segno di rinnovamento inaugurando i lavori per il disegno del “Detroit Strategic Framework Plan” un piano che dovrebbe definire le azioni strategiche da intraprendere per risollevare le sorti della città nei prossimi 20-30 anni. Il piano dovrebbe occuparsi di questioni quali: definire gli ambiti di sviluppo urbano; l’uso del suolo; le strategie di ripresa economica; razionalizzare l’erogazione di servizi pubblici; rafforzare il trasporto pubblico; e affiancare al programma neighborhood stabilization (NSP3) un insieme d’investimenti e di azioni di governo coordinati tra loro. Nei confronti di questo piano si nutrono grandi aspettative. Un brulicare di giornali locali specula sul fatto che organizzazioni no-profit e investitori stiano concentrando la loro attenzione all’epicentro della crisi urbana, motivati dalle possibilità offerte dal piano strategico (ad esempio il Time, e il Detroit Free Press News+Views). Argomentazione tutt’altro che infondata se si considera che le ricerche e le competenze utilizzate per informare il piano sono direttamente finanziate dalle fondazioni no-profit, ad esempio Kresge, Skillman e Eli Broad particolarmente attive e interessate al finanziamento di progetti per lo sviluppo della città.
Le dichiarazioni del sindaco hanno da subito sgombrato il campo dagli equivoci e da manie di grandezza: la strategia che sarà perseguita sarà quella del rimpicciolimento e della compattezza. La rightsize (giusta grandezza) è quella che la città è effettivamente in grado di governare con le risorse a sua disposizione. A questo fine vengono prese scelte strategiche che riguardano essenzialmente i suoli e gli immobili abbandonati e una loro possibile demolizione per fare spazio a nuovi progetti e ad attività emergenti come il riuso dei suoli urbani per la pratica dell’urban farming (Gallagher 2010; Coppola 2008).
Mentre la strategia a lungo termine è in via di definizione, il Sindaco promuove il DWP con il l’intento di consolidare il consenso e le reti di fiducia locali e al contempo risolvere i bisogni immediati dei quartieri. Sulla base di un’analisi dello stato di “salute dei quartieri” propone di rendere più efficiente l’erogazione di servizi e di lavorare sulla stabilità (di mercato) degli stessi, come già auspicato dal programma di stabilizzazione dei quartieri (NSP3) promosso a livello federale per fronteggiare il foreclosure e l’abbandono della proprietà aumentati in seguito alla crisi del 2007.
La proposta al cuore del Detroit Work Project si traduce in un insieme d’interventi a base di quartiere (Neighborhood Intervention Strategy), definiti a partire da una mappa integrata che a sua volta risulta dall’incrocio di due studi: analisi di mercato e analisi delle condizioni fisiche degli edifici. Queste analisi sono descritte nei documenti di divulgazione come studi complementari che rappresentano la base di partenza per la definizione delle azioni strategiche che la città intende intraprendere nel breve periodo. Quest’ultima è una valutazione a partire dalle condizioni delle abitazioni misurate sulla base di una serie di indicatori. Tale studio fornisce evidenza empirica delle condizioni in cui vertono le aree residenziali di Detroit.
La prima è finalizzata ad aiutare il governo locale nell’identificazione e comprensione dell’andamento e delle geografie del mercato immobiliare locale. Sulla base della valutazione di mercato il governo locale potrà mettere in atto strategie d’intervento mirate essenzialmente alla tutela dei valori di proprietà.
Il risultato dell’integrazione delle due analisi è sintetizzato in un’Integrated Map che divide i quartieri di cui è composta la città in tre “tipi di mercato” ai quali corrispondono diverse azioni di governo:
aree Distressed, caratterizzate cioè da degrado fisico di lungo periodo; dall’assenza di attività non-residenziali (uffici, commercio, servizi); e da un’alta percentuale di vacancy. In questa tipologia di aree l’azione di governo si risolverebbe in interventi sulla popolazione (formazione); nella demolizione di strutture fatiscenti e in abbandono; e in un programma di acquisizione di aree abbandonate e delle abitazioni REO.
aree Transitional, caratterizzati da un lento miglioramento nelle dinamiche del mercato immobiliare; una buona presenza di abitazioni in proprietà e in affitto ma anche un’alta presenza di proprietà REO. Il ruolo del governo in queste aree si risolverebbe in una risposta tempestiva ai segnali di degrado fisico ed economico, per arginare ulteriori blight influences; nell’introduzione di una serie di normative di tutela; nell’acquisizione di proprietà REO; nel consolidare partnership locali con ancoraggio nei quartieri in grado di farsi promotori dello spirito di rinascita degli stessi.
aree Steady, caratterizzate dai prezzi della compravendita e dai valori della proprietà tra i più alti della città; da abitazioni in buone condizioni occupate in prevalenza da proprietari. Il ruolo del governo si risolverebbe nell’imposizione di norme e codici; in una risposta tempestiva alle condizioni di degrado; nell’investimento in corridoi commerciali e infrastrutture.
Queste azioni saranno implementate in tre aree dimostrative, dove i leader cittadini auspicano “la massima collaborazione con i residenti per conoscere meglio le esigenze e le priorità della collettività”. Dopo sei mesi d’interventi la loro efficacia sarà oggetto di valutazione al fine di migliorare ulteriormente il servizio.
Emerge con chiarezza quanto le analisi siano finalizzate a produrre una visione complessiva delle condizioni oggettive e delle opportunità sulle quali puntare per rilanciare il mercato urbano. Un diverso programma d’interventi e la razionalizzazione della spesa pubblica serviranno soprattutto a migliorare le condizioni di alcuni quartieri al fine di incoraggiare gli investimenti privati e filantropici, condizione irrinunciabile e impellente per un cambiamento favorevole del mercato immobiliare. Infatti, nel progetto saranno investiti 89 milioni di dollari, ma i soldi “veri” dovrebbero arrivare dalle organizzazioni no-profit che hanno già messo le mani sulla città spartendosi la torta .
E’ questo il bisogno “immediato al quale dare risposta tempestiva”. Se la visione di lungo termine è mantenere la popolazione residente e attirarne di nuova, tutelare e, laddove possibile, innalzare il valore della proprietà, stabilizzare il prezzo delle case, riconquistare la fiducia degli investitori esterni e dei residenti stessi diventa obiettivo prioritario. Come scrive Coppola, in merito all’evoluzione del ruolo del settore no-profit nello sviluppo delle città di Detroit: “a cambiare così – e in modo fondamentale – è la stessa concezione della cittadinanza: l’“integrazione” è ora vista soprattutto come l’esito dell’estensione dei benefici del mercato a quei soggetti che ne risultano esclusi” (2010).
Questione aperta, a questo punto, sarà capire quali energie imprenditoriali possono essere attratte e sviluppate, come potranno essere impiegati i fondi provenienti dalla filantropia privata e come raggiungere uno “shared agreement” che tenga conto, anche se in seconda battuta, di obiettivi di uguaglianza e giustizia sociale.
Il Detroit Work Project solleva delle questioni inerenti il comportamento strategico della città nei confronti del suolo e delle proprietà abbandonate, tra le quali interi quartieri.
Che un’analisi dettagliata del territorio informi un processo decisionale e un programma differenziato di azioni è di per sé un fatto positivo. Così come lo è la trasparenza della documentazione che incrocia land use e property regimes, vacancy e investimenti privati. Detto questo, è però evidente come l’iniziativa sia orientata più ad un rilancio del mercato immobiliare dei quartieri che ad una soluzione delle problematiche sociali degli stessi. Il “quartiere sano” è misurato sulla base della vivacità del mercato immobiliare al quale potrà aspirare.
E’ però importante sottolineare che un tale pacchetto di azioni come il DWP non esisterebbe senza una premessa che rimane tra le righe, ossia senza un pensiero strategico nei confronti delle risorse di cui la città dispone, nel caso specifico suolo e immobili. In una prospettiva strategica, il valore di un suolo o immobile in abbandono non dipende solo dal gioco tra domanda e offerta, ma dagli obiettivi che un suo utilizzo (o non utilizzo) consentiranno di raggiungere. Secondo Bowman e Pagano (2004) le scelte strategiche e di policy di una città nei confronti delle aree abbandonate e inutilizzate sono più o meno influenzate dall’interazione e dalla compresenza di tre imperativi del suolo urbano: quello fiscale legato al bisogno di generare risorse per alimentare la fiscalità locale e la capacità di fare fronte alla spesa corrente; quello sociale legato al mantenimento della stabilità nei quartieri, realizzata tutelando soprattutto i valori della proprietà privata e creando, se necessario, delle barriere tra classi sociali e gruppi etnici; e quello di sviluppo che, per quanto concerne il suolo urbano, dipende dai diritti edificatori e dal programma di funzioni che la nuova costruzione apporterà (tra i quali, auspicabilmente, servizi e beni collettivi).
Se da un lato la tangibilità di aree e edifici abbandonati, esplicitata nella mappa delle particelle vacanti a livello urbano può essere utilizzata come catalizzatore per creare scenari condivisi per il futuro della città, è altrettanto vero che questo non è l’uso che qui viene fatto di questa conoscenza. Emerge dal DWP che la scelta di riutilizzare o demolire, piuttosto che la preferenza nei confronti dello status quo, risponda in primo luogo all’imperativo di tutela dei valori della proprietà privata, alla quale una maggior efficacia dei servizi erogati è funzionale; e non a meccanismo redistributivo legato alla fiscalità locale, né al miglioramento delle condizioni di vita di tutti i cittadini.
Resta da chiedersi quale sia il costo sociale di quest’operazione. Quello che il progetto non dice è che per tutelare i valori della proprietà di alcuni quartieri se ne priveranno altri di risorse, nella fattispecie quelli più degradati e in difficoltà. In un contesto in cui il mercato regna sovrano qualcuno ci guadagnerà, mentre il piano non fa menzione delle condizioni abitative e di vita della popolazione più svantaggiata, i veterani delle aree “steady”. La loro sorte è affidata ai benefici tratti dalla partecipazione al mercato immobiliare.
Così facendo la città corre il rischio di perdere di vista la reale opportunità, ossia un’occasione di riposizionamento del soggetto pubblico nella gestione urbana, dovuta al fatto che la municipalità si ritrova proprietaria di un ampio patrimonio da sfruttare. La subalternità nei confronti dei detentori dei capitali per l’innesto di una strategia a base di quartiere fa pensare che la città abbia deciso di affrontare gli effetti di un lungo declino e di rimettersi in piedi senza però avere bene chiaro quale sia il nuovo paradigma di riferimento in grado di lasciarsi alle spalle un credo sconfinato nella crescita. Non resta che aspettare i contenuti e le priorità del nuovo piano strategico 2020 per capire quanto il soggetto pubblico abbia realmente ripreso in mano le redini del futuro della città.