Si dice spesso che Delhi sia una città sorta dal nulla, una grande metropoli senza passato e con un futuro incerto, senza una sua precisa identità storica ed unitaria che la caratterizzi. Territorio antichissimo, abitato fin dai tempi medioevali del sultanato, già luogo di sette antiche città moghul, crocevia di commercianti e flussi di migranti, Delhi ha acquistato il ruolo di capitale soltanto all’inizio del XX secolo quando, per motivazioni politiche, la capitale indiana è stata spostata da Calcutta.
In effetti, Delhi non ha uno sviluppo stratificato che possa essere raccontato nel modo in cui di solito si raccontano le città italiane dal medioevo ad oggi: non è cresciuta omogeneamente ma è il risultato di addizioni non prevedibili e disorganiche. Anche se recentemente, la capitale ha cominciato a sfoggiare un carattere sfaccettato e al tempo stesso determinato, sia in termini architettonico -urbanistici che antropologico-culturali. Un aspetto importante dei piani, ma disatteso come vedremo, è la capacità di comprendere le specificità delle diverse aree e tradurle in chiave progettuale.
Delhi ha cominciato a formare la sua identità urbana nel 1911 quando un gruppo di pianificatori, guidati dall’architetto inglese Edward Lutyens, fu incaricato di prepararne il piano. Il progetto doveva garantire i luoghi di rappresentanza e i luoghi del loisir del rango di una capitale.
L’intenzione era poi quella di sottolineare, da un punto di vista territoriale, la maestosità delle architetture monumentali degli imperi precedenti, lasciando intorno isole di verde protette da recinti, creando così dei punti di attenzione intorno ai vari siti archeologici.
Ancora oggi, spostandosi lungo i viali di Delhi, è possibile veder emergere parti della città storica dietro le esili cancellate di protezione dell’Asi (Archeological Survey of India). Tali recinti, discutibili dal punto di vista estetico, sono stati posti in seguito all’arrivo delle prime due massicce ondate di rifugiati: la prima in seguito alla liberazione dell’India dalla colonizzazione inglese; la seconda, nel periodo di tensione sotto il governo di Indira Ghandi negli scorsi anni Settanta.
Molti fuggiaschi dal Pakistan e dal Punjab si sono inizialmente accampati tra le mura delle moschee e dei mausolei moghul e hanno poi occupato lotti e aree non costruite.
Alla fine degli anni Cinquanta, proprio in seguito all’enorme crescita demografica post-partizione, è stata creata la Delhi Development Authorithy (Dda), un’entità governativa di controllo con il compito di gestire l’organizzazione degli spazi pubblici nonché la progettazione delle abitazioni popolari.
Dopo qualche anno, nel 1962, è stato stilato il primo Master Plan, progettato da Albert Mayer e da uno staff di esperti, per lo più americani, invitati dalla Ford Foundation, ma in dialogo diretto con il Governo indiano
Questo primo piano è stato vigente sino agli anni Ottanta, quando qualcosa è cambiato a causa del secondo movimento migratorio del periodo dell’Emergenza; degli importanti cambiamenti dovuti ai progetti per i Giochi Asiatici del 1982; dello sviluppo industriale di alcune zone periferiche. Gli immigrati giunti in città per motivi politici o in cerca di lavoro hanno sviluppato dei processi urbanizzativi paralleli a quelli istituzionali che hanno portato all’occupazione di vaste aree abbandonate o di territori interstiziali. Hanno costruito abitazioni di fortuna con sistemi informali, addensandole le une accanto alle altre e generando colonie collettive e intere sub-aree urbane. Interi brani di città sono nati dalla necessità della gente comune di ritagliarsi uno spazio abitativo più che dalle previsioni o dalle prescrizioni settoriali dei piani.
Le dinamiche geo-politiche si sono poi strettamente interconnesse con gli eventi socio-economici che si sono riverberati sull’attualità: nello specifico la liberalizzazione dell’economia indiana, e l’attuazione del 74th Amendment Act.
La liberalizzazione economica, in India, all’inizio degli anni Novanta non ha beneficiato dell’esperienza e degli errori accumulati dai paesi occidentali e la decentralizzazione politica a seguito del 74th Amendment Act ha aperto la collettività all’ipotesi di una più ampia democrazia partecipativa.
Nel caso di Delhi, questo ha comportato la ri-edizione di un secondo Master Plan nel 2001, e la successiva approvazione di un terzo nuovo e molto discusso, Master Plan 2021.
Nella normativa vigente ogni piano ha una durata effettiva ventennale allo scadere del quale periodo il piano in corso viene ri-editato, ovvero corretto e modificato secondo gli errori e le necessità emerse nell’arco di tempo di validità del piano precedente. La seconda versione del primo piano (Mp2001) è entrata in vigore soltanto negli anni Novanta. La versione denominata Delhi Master Plan 2021, è invece entrata in vigore nel 2001 ed è tuttora in atto e potenzialmente valida sino al 2021. I precedenti Master Plan del 1962 e del 2001 si basavano su un modello fluido e organico, dove la semplicità dei movimenti e la facilità dei trasporti avrebbero dovuto essere gli elementi più significativi.
In particolare, la prima riedizione del 2001, non ha preso in considerazione le adeguate trasformazioni relative allo sviluppo economico che hanno avuto luogo in varie zone della città , principalmente a Sud dove piccole industrie manifatturiere si sono sviluppate ad Okhla e a Noida a partire dagli anni Settanta. Questi nuovi spazi di lavoro industriale hanno attratto considerevoli flussi migratori e hanno fatto sì che la demografia della città crescesse a ritmi esponenziali: secondo il Census of India, gli abitanti erano circa quattro milioni nel 1971 e oggi risultano più di diciassette.
Gli errori nella pianificazione, l’incapacità di interpretare in modo realistico le tendenze di sviluppo, alcune mancanze nella progettazione si sono aggiunte alle complicazioni dovute alla composizione mista degli abitanti, le diverse tendenze socio-culturali, il crescente divario tra ricchi e poveri, nonché al conflitto tra visioni di sviluppo divergenti. Distanze ampliate dallo scontro tra gli interessi delle multinazionali nella gestione di nuovi spazi per l’economia, da una parte e la difesa della terra e delle tradizioni da parte di chi pensa invece che l’India abbia ancora da imparare dai suoi villaggi.
L’ultimo piano è stato molto discusso a causa dei pesanti impatti sulla città e sui suoi abitanti in aree differenziate, in ambito infrastrutturale nonché nelle aree pensate per l’accoglienza di atleti e turisti ai Giochi del Commonwealth del 2010.
La manifestazione sportiva poteva essere un’ottima scusa per migliorare strade, spazi pubblici, quartieri, infrastrutture e trasporti, permettendo così di innalzare il livello generale di qualità della vita. Le azioni svolte sono però risultate essere più un’operazione mediatica che una vera occasione per miglioramenti sostenibili e, per giunta, con conseguenze negative sotto molti aspetti .
Anche la stampa italiana ha dato eco a queste tesi . Oltre alla descrizione degli innumerevoli problemi collegati alla corruzione sviluppata nei setti anni di lavori che hanno preceduto i Giochi, sono segnalate le disastrose situazioni delle abitazioni progettate per gli sportivi che, insieme, alla caduta di alcune strutture in costruzione, hanno messo a repentaglio l’inaugurazione sino alla settimana precedente l’avvio dei giochi.
Gli smembramenti per la realizzazione di nuove aree abitative, hanno causato traumi collettivi da rimozioni forzate e perpetrazioni di violenze sociali non tollerabili nei confronti degli abitanti degli slum. Le demolizioni hanno annientato le relazioni pre-esistenti di prossimità e i rapporti umani nei vecchi quartieri informali, mentre i nuovi sviluppi architettonici ed urbani hanno prodotto ulteriore frammentazione e proliferazione di isole abitative in mezzo a tessuti privi di organicità compositiva. Episodi di speculazione edilizia hanno depauperato le potenzialità e le ricchezze locali sostituendo architetture vernacolari con gated communities e nella maggior parte dei casi con edificazioni non sostenibili energeticamente e progettate senza nessun criterio estetico.
Le strade suggerite dalle forme spontanee di resistenza e lotta contro la globalizzazione culturale sono tuttora valide proposte alternative, supportate dall’intellighenzia e dall’accademia locale, che contrastano le proposte architettoniche di imprenditori, lontani dal riconoscere il peso e la responsabilità che l’architettura può avere nella città contemporanea.
Le colonie di ricollocazione nelle parti marginali dell’attuale corpo urbano, in pessime condizioni igienico-sanitarie, sono state il luogo prestabilito per il reinsediamento veicolato di interi gruppi di persone povere, ammesse ad accedere al programma compensativo in base ad una selezione che media e attivisti locali hanno tacciato di incostituzionalità a causa dei non oggettivi criteri scelti per l’assegnazione del suolo.
L’attuale stato di indeterminatezza e non-finito che continua ad aleggiare tra le macerie delle nuove strade di collegamento e la realizzazione di nuovi quartieri cablati all-inclusive ha dato impulso ad uno sforzo di ridefinizione del piano. La calma che ha seguito i post-giochi ha reso possibile la riconsiderazione dell’intero progetto.
Il risultato sembra infatti che sia stato quello di ricominciare un dialogo tra istituzioni, cittadini e politiche in un’ottica trasformativa e di indirizzare auspicabilmente la formazione di una nuova Delhi inclusiva e unitaria.
Su questo si registra un ampio dibattito, come testimoniano le due interviste che seguono, dagli accenti diversi e talvolta discordanti. Dibattito che concorda sul fatto che Delhi resiste agli attacchi della globalizzazione grazie alla forza dei suoi abitanti: sembra cioè che la capacità di resistere alle trasformazioni globali sia una delle carte vincenti per il suo futuro.