Forse non sono la persona più idonea per ricordare Mario. L’ho frequentato assai poco, anche se ne ho seguito nel tempo il percorso. Ho quindi resistito inizialmente all’invito, ma poi mi venne ricordata la stesura della carta di Gubbio, e quindi ho accettato, perché lo avevo invitato al Congresso dell’ANCSA in cui si celebravano i 50 anni dell’Associazione, e gli avevo assegnato, in apertura, una prolusione dal titolo “Ho scritto la Carta con Antonio Cederna”.
Pensavamo di farci raccontare come era avvenuta l’operazione, quali stimoli erano allora presenti, quali altri interlocutori vi erano stati. Mario ci spiazzò tutti impostando una dotta riflessione di grande attualità il cui centro era in questa frase: “La difesa e valorizzazione del senso – cioè il progetto – infatti, non è mai nella “conservazione assoluta” dell’esistente: un senso che non si modifica continuamente perde ogni tensione comunicativa, riduce tutto ad un reciproco mutismo”.
Ho conosciuto Mario nella seconda metà degli anni ’60 allo IUAV. Ecco, ricordare l’eleganza intellettuale che trasmetteva anche la sua persona, e l’eleganza del concetto che ho citato, è un tutt’uno. Il dibattito che è in corso sul tema conservazione/innovazione non poteva essere meglio rappresentato.
Mario ha attraversato il periodo che va dal primo dopoguerra ad oggi. Un periodo fecondo, producendo lavori “professionali” e numerose opere critiche, con interessi molto vari di storia dell’architettura (dal barocco leccese alle architetture in USA). Un testo su “William Morris e l’ideologia della architettura moderna (1976)” fu occasione, come ha ricordato Renato Nicolini, di uno scontro con Tafuri. La questione riguardava una idea assai diffusa allora che legava la nascita del moderno al socialismo utopico degli inizi del XIX secolo. Una questione già affrontata da Benevolo in modo indiretto (negando agli utopisti d’aver posto in campo una posizione capace di incidere sui supporti capitale/lavoro) e che Tafuri tacciò di romanticismo acritico. Ancor oggi si tratta di una idea che dovrebbe ancora essere indagata sul versante degli esiti o, meglio, del patrimonio di idee che hanno nutrito i protagonisti del moderno.
Di questo rapporto di Manieri con Tafuri occorre dire ciò che sottolinea lo stesso Nicolini: Mario gli riservò, nell’ultimo dei suoi scritti (“I vissuti dell’architettura”, 2011) un omaggio tale da riproporne la figura critica. Ecco l’eleganza colta e raffinata di un critico i cui strumenti di valutazione sono rimasti indenni da rancore o invidia.
Credo che per ricordare Mario, insieme alla grande lezione di rigore scientifico che le sue opere rappresentano, sia necessario rammentare il suo stile.
Mario era nemico di ogni arroganza e detestava ogni manifestazione di assolutismo intellettuale. È per questo che è rimasto autonomo, estraneo ad ogni fazione, pronto a cogliere ogni apertura concettuale, ed al tempo stesso eticamente intransigente.
La Carta di Gubbio è testimone di un periodo di grandi speranze e di ottimismo per il futuro. Un documento di riferimento che, in qualche modo, aveva la funzione di spogliare quelli che, fino ad allora, sul tema dei Centri Storici erano stati gli “addetti ai lavori”, e cioè i critici dell’architettura, del tema stesso, per consegnarlo interamente agli urbanisti.
Mario è sempre stato pessimista nell’analisi, ottimista nel progetto. Un grande militante, portatore di una lezione colta, sensibile, rigorosa, come dimostrò nella posizione assunta nella polemica sui Fori Imperiali, spostando l’attenzione sul significato complesso dell’archeologia romana, facendone comprendere anche il livello territoriale.
Mario era così, un maestro puntale, capace con brevi tratti a fornire la sua lezione. Ineccepibile.