Il piano urbanistico della città contemporanea rappresenta un campo complesso che integra vari aspetti del governo del territorio. Spiegare e descrivere efficacemente questo dispositivo richiede di considerare molteplici dimensioni fra cui spiccano la sostenibilità ambientale, l’inclusione sociale, l’innovazione tecnologica, lo sviluppo, la mobilità sostenibile, la governance partecipativa e la resilienza urbana. Ogni dimensione contribuisce a creare una visione olistica e integrata della città contemporanea, dove un fondamentale obiettivo è migliorare la qualità della vita dei suoi abitanti.
Il piano urbanistico è dunque un processo dinamico e complesso, che richiede una visione integrata e multidisciplinare perché deve affrontare numerose sfide: gestire l’urbanizzazione, affrontare il cambiamento climatico, promuovere l’equità sociale e la collaborazione tra le parti interessate, tenendo conto delle esigenze delle diverse comunità in una prospettiva di sostenibile sviluppo. Tutte priorità fondamentali che aprono la strada a città resilienti, inclusive e vivibili.
Il dispositivo per organizzare e definire politiche, azioni e interventi nella città contemporanea non può quindi essere uno strumento che ha radici nella tradizione novecentesca, incardinato in una disciplina, come quella dettata dalla Legge 1150/1942, tutta protesa verso la regolazione della città nuova, espandendo quella esistente.
Allora corre l’obbligo domandarsi: quali sono le possibili modalità operative per un piano di rigenerazione della città contemporanea?
Per provare a dare risposta a tale quesito, si può ricorrere all’artificio retorico della descrizione per ’scomposizione e ricomposizione’ successiva. In tal senso si può immaginare che il piano della città contemporanea abbia diverse ‘facce sovrapposte’ di diverse colorature che, pertanto, restituiscono un’immagine completa ma policroma. Per quanto la città sia riconoscibile per il risultato finale di questa sovrapposizione di ‘colori’, è altresì possibile cimentarsi nella scomposizione dei diversi ‘strati’, da intendersi quali ambiti spaziali e d’azione del piano e progetto urbanistico.
Il primo ‘strato’ è costituito dalla ’città da non costruire’.
Interrompere il processo centrifugo di crescita continua, contenere e contrastare il consumo di suolo sono finalità irrinunciabili e largamente condivise. Richiedono di individuare quel bordo/limite verso un territorio caratterizzato prevalentemente dalle componenti dei sistemi agricoli e ecologico-ambientali. Significa praticare una consapevole scelta di sostenibilità: dopo decenni di crescita urbana espansiva, la condizione ambientale è divenuta una determinante ineludibile e gli sviluppi futuri, le eventuali ed eccezionali nuove crescite, dovranno confrontarsi con le esigenze di equilibrio ambientale. “Non si tratta più di dare forma ex-novo, di ‘colonizzare’ lo spazio agricolo o naturale componendo i materiali urbani secondo forme create dal nulla” (Gabellini 2024: 21). Il progetto urbanistico della ’città da non costruire’ comporta, allora, di identificare un margine e incernierare su di esso, anche a diverse scale, le trame dei parchi, dei fiumi, delle colline, del terreno agricolo, dell’ordinamento naturale del terreno, dei valori culturali e del paesaggio, senza assumere l’atteggiamento di antagonismo tra città e campagna, di prevalenza dell’una sull’altra. All’opposto, si tratta di annullare (o minimizzare) la dilatazione fisica, eliminando, per la ’città da non costruire’, la condizione di ‘attesa’ (spesso speculativa) attraverso strutturali elementi fisici che, di volta in volta e in base alle specificità di ogni città, potranno assumere, ad esempio, l’aspetto di parchi fluviali o collinari o agricoli, o nuovi parchi da recuperare per trasformazione di aree in disuso.
Il secondo strato (o ambito spaziale d’azione) è costituito dalla ’città da tutelare e conservare’.
Laddove vi sia un sistema insediativo consolidato o prevalentemente edificato, entro cui si riconoscono e apprezzano anche parti urbane e/o singoli siti e manufatti con valore storico-artistico e culturale o semplicemente perché appartenenti alla memoria collettiva, al patrimonio o ad ambienti della storia civile dei luoghi, ciò richiede di articolare su tutto il territorio comunale (tanto sulle presenze antropiche che su quelle naturali) la nozione di tutela, conservazione, recupero, riqualificazione e riordino includendo, oltre agli spazi costruiti, anche le formazioni naturali o seminaturali.
Ne consegue che, insieme alle parti in cui l’intervento ammesso deve essere rivolto al mantenimento di testimonianze nella condizione di poter essere apprezzate a lungo nel tempo, si estendono le parti di città consolidata ove la testimonianza di storie passate viene fatta rivivere, laddove compatibile, in dialogo proattivo con la contemporaneità. Tali situazioni e casi sono incredibilmente mutevoli a seconda dei contesti: in Italia, in particolare, il paniere di tali situazioni si muove lungo una linea del tempo che va dalla città etrusca e romana fino alla città industriale novecentesca, spalancando una casistica così ampia nei secoli e così eterogenea nelle forme in grado di far intendere quanto sia necessario approfondire ancora la nozione di "tutela attiva" (Gambino 2003).
Un terzo ambito spaziale si potrebbe identificare come quello della ’città da migliorare’ o, meglio, ’da rigenerare’.
è certamente la parte prevalente dell’organismo urbano oggi esistente. Si è formata prevalentemente nel Novecento e si è estesa con la grande ed accelerata crescita economica e rappresenta quella parte di città su cui si accumulano i maggiori dissensi e tensioni. Qui vi è margine per intervenire e migliorare le zone di edificazione privata negli spazi dove ancora sono possibili interventi, finalizzandoli alla introduzione nei tessuti esistenti di elementi in grado di migliorare non solo la forma ma la performance socio-ambientale complessiva della città. In altri termini, “va pianificata e praticata una rigenerazione urbana che, anche se più ‘molecolare’ (rispetto alle trasformazioni urbanistiche delle grandi aree industriali dismesse nel decennio a cavallo del 2000), possa essere messa in rapporto a obbiettivi e qualità di progetti di ‘ambito’ che ne costituisca un contesto di riferimento identitario e intellegibile degli esiti” (Giaimo e Barbieri 2018: 121). Sensibili interventi e miglioramenti sono possibili nello spazio non costruito, entro gli isolati, nei giardini affacciati sullo spazio pubblico, nelle parti che più contribuiscono a definire lo spazio aperto della città: una condizione presente tanto nelle grandi città quanto in quelle piccole e di più recente edificazione. Molto lavoro è da compiere sui quartieri di edilizia pubblica, costruiti nel corso di anni in cui le leggi non supportavano e consentivano la concomitante realizzazione di una adeguata struttura di servizi o un’adeguata mixité di usi. In questa parte di città sono necessarie integrazioni di funzioni urbane per consolidare diritti di cittadinanze, diminuire le disuguaglianze e aumentare la coesione e l’appartenenza al corpo attivo della città.
Ma ancora più grande impegno va posto per migliorare la qualità dello spazio pubblico. Non va sottovalutato che, in questo settore, le amministrazioni pubbliche, redigendo il piano urbanistico, regolano se stesse, assumono orientamenti e impegni nei confronti della comunità, su un campo in cui possono esercitare una significativa autonomia (oltre che autorità) nel prendere decisioni. Ed i primi destinatari-agenti di queste iniziative sono contemporaneamente gli stessi uffici tecnici comunali ma anche le organizzazioni del terzo settore che sempre più coadiuvano-sussidiano il pubblico nella fornitura dei servizi. Anche su questi temi è necessario un rinnovamento di pensiero e soprattutto di regolazione e azione attraverso il piano, in coordinamento con altri dispositivi di gestione dei servizi pubblici.
Il recupero della qualità insediativa urbana e il miglioramento della vivibilità sono in gran parte affidati alla ri-pianificazione e ri-urbanizzazione, ma soprattutto alla ri-progettazione dello spazio urbano esistente e a quello nuovo acquisibile grazie alle trasformazioni urbane. Attraverso le aree recuperabili con le trasformazioni si deve poter incrementare sensibilmente il patrimonio disponibile di spazi pubblici: la connessione tra interventi sull’esistente e interventi nuovi, tra città da migliorare-rigenerare e città da trasformare è fondamentale per misurare il senso delle modificazioni e il loro dialogare con il contesto. L’assenza di questo rapporto relegherebbe a ruolo episodico le singole operazioni, riconfermando il ruolo del piano quale fondamentale telaio (democraticamente condiviso) di riferimento per la messa in coerenza di politiche, azioni, interventi.
Infine vi è un quarto strato, relativo alla ’città da trasformare’.
è l’assetto più variabile e specifico di ogni città e la sua estensione, localizzazione, nonché la sua capacità di integrarsi con la città costruita derivano dall’eredità storica di ogni città. Nella città industriale del secondo Novecento, in quella particolare congiuntura storica, si sono resi disponibili per una riutilizzazione le grandi aree industriali non più attive, i grandi servizi urbani di inizio secolo, oltre che, in molti casi, il relativo sistema ferroviario di supporto.
Ampi spazi all’esterno della città allora esistente, quindi in posizione subcentrale successiva, hanno offerto grandi opportunità di modificazione ottimizzando il loro recupero e riuso alla scala urbana e territoriale, sfruttando gli effetti di sistema. Diviene allora di primaria importanza che alla regola della trasformazione, alla sostituzione radicale di ciò che esiste, si accompagni il principio della restituzione agli usi dei cittadini e degli utenti della città in generale, una parte consistente dell’area, avendone in cambio una città nuova, con caratteristiche completamente diverse da quella precedente: certamente vengono modificate le destinazioni d’uso e le attività urbane insediate e, di conseguenza, viene modificato il ruolo dell’area nella città.
Se, attraverso il coordinamento del piano, queste parti nuove sono rese complementari con l’esistente e se la parte di area resa alla città è progettualmente individuata per integrarsi con la struttura urbana esistente, ne possono discender importanti azioni di rigenerazione urbana complessa. E ciò apre un capitolo speciale e necessariamente innovativo nella definizione degli apparati normativi del piano.
In conclusione, la lettura per strati cromatici ha il senso strumentale di favorire la lettura sovrapposta dei quattro livelli laddove la sintesi della selezione dei colori mostra la ricchezza e la complessità del piano e del progetto urbanistico, i cui contenuti sono molto più ampi di quelli della tradizione novecentesca. Il piano scompone e riaggrega parti di città, propone trasformazioni radicali e rigenerazioni complesse, così come conservazione e valorizzazione di ambienti, luoghi e depositi di memorie, di edifici e manufatti. Non solo consolida parti di città proponendo un miglioramento qualitativo dell’abitare ma cambia persino la geografia delle città quando riesce ad aggregare più trasformazioni in dimensioni tali da modificare la struttura urbana.
Più che tutto, dispone della leva per proporre la riforma necessaria dello spazio pubblico e dei servizi pubblici, garantendone il raggiungimento di livelli essenziali minimi.
Gabellini P. (2024), Avvicinarsi all’urbanistica | Approaching Urbanism, Planum Publisher, Roma-Milano.
Gambino R. (2003), “Idee di paesaggio: elogio del pluralismo e tentativi di ricomposizione”, CRU - Critica della Razionalità Urbanistica, no. 13, p. 25-37.
Giaimo C., Barbieri C. A. (2018), “Paradigmi ecosistemici, piano urbanistico e città contemporanea. L’esperienza del progetto Life Sam4cp”, Urbanistica, no. 159, p. 114-124.