A Matera è disponibile un lascito del Moderno, pronto per essere riletto criticamente fuori da una storiografia che non lo ha più pensato in termini progettuali. Un patrimonio che, fuori dalle retoriche passatiste, può aiutare a mettere a fuoco nuovi paradigmi di crescita e sostenibilità a partire dai materiali urbanistici del quartiere, dei borghi, dei nuclei decentrati, quali forme spaziali ancora presenti e da rielaborare.
Ben prima della recente attenzione ai ‘15 minuti’, nella seconda metà del secolo scorso, Matera è stata un caso paradigmatico di riformismo meridionale, un laboratorio urbano rilevante per la messa a punto del concetto di unità di vicinato e per il suo utilizzo quale strumento per immaginare nuovi assetti territoriali. Matera ha una storia importante che è ancora da raccontare. Essa può aiutarci a vedere come piani e progetti si siano rappresentati e abbiano preso consistenza dentro specifici materiali urbani (il quartiere, i borghi), tracce di un passato che ha bisogno di essere riletto per capire se può diventare un materiale potenziale da dove riposizionarsi. Nel secondo dopoguerra Matera cercherà la convergenza tra questione abitativa e politiche agricole, in un rinnovato rapporto tra città e campagna, dove è la città a muovere verso la campagna, legando la ricostruzione urbana, lo sfollamento dei Sassi e le questioni della riforma agraria alla revisione del rapporto tra uomini e terra.
Quanto e come questo lascito può costituire oggi un riferimento per la pianificazione locale, territoriale e paesaggistica? Quale è l’eredità di questa importante stagione del Moderno, in cui l’urbanistica voleva fare della città l’immagine dei nuovi bisogni dell’uomo nell’ambito di un complesso disegno economico e sociale? Come oggi questo lascito può aiutarci ad aggiornare al presente l’approccio strutturale che orientava le trasformazioni urbane in senso socio-spaziale, mettendolo in tensione con l’atteggiamento tattico (e per certi versi neo-funzionalista) della progettazione della città di ‘15 minuti’? Quanto la forma storicamente determinata dei modelli urbani ispirati alle metafore generative della città moderna può oggi trasformare il richiamo dell’urbanistica alle regole di uno standard temporale, facendone un dispositivo della prossimità per la città post sprawl? È con queste domande che le mie riflessioni cercheranno di confrontarsi.
La prossimità è una condizione che da sempre impegna il dibattito disciplinare, come ricerca dello spazio ottimale tra residenza e servizi, tra abitare e lavorare, ma anche come studio della “giusta distanza” (Corboz 2001: 36), ovvero come punto ottimale di osservazione delle forme e dei fenomeni, da cui cogliere domande di significati dello spazio e della sua trasformabilità. La condizione di ripristinare una giusta distanza (tra persone, ambienti insediativi, nature) è da qualche tempo sollecitata dall’appello alla sostenibilità richiamato dai protocolli dell’Agenda 2030, e oggi reso indifferibile per rispondere al distanziamento precauzionale che ci viene imposto dalle norme dell’emergenza pandemica, apprestandosi a entrare nel modo di pensarci nello spazio abitabile. Non ci si saluta più stringendosi le mani e abbiamo smesso di parlare con il nostro vicino perché siamo sempre diffidenti e poco rilassati tra la folla. In tal senso, la prossimità – implicata nelle diverse scale del progetto della città – sollecita un rescaling del concetto stesso di distanza come dispositivo di riconfigurazione dello spazio urbano (Mininni 2012).
La prossimità non misura solo la categoria del vicino o del lontano, ma è sempre stata considerata un carattere proprio della città, quella condizione costruttrice di interazione tra soggetti che in particolari situazioni spaziali possono entrare meglio in contatto e interagire facendo “piazza” (Mazza 2015: 34). Il principio che la città è il luogo in cui si incontrano estranei, richiamato da Richard Sennet (2018), oggi vacilla però di fronte alla necessità di qualificarci per essere sempre rintracciabili. E questo è tanto più vero nella definizione dello spazio pubblico, spazio di relazione per eccellenza. L’accresciuta mobilità e la perdita dei rapporti diretti con i contesti in cui avvenivano gli scambi già avevano cambiato le relazioni tra la società e lo spazio, secondo quel processo definito da Anthony Giddens (1990) come disembedding. Tuttavia, durante la pandemia, il lungo tempo trascorso tra le mura di casa, la riduzione al minimo dello spazio esterno e della scoperta dei dintorni, la perdita dei campi lunghi prerogativa del fuori e del lontano – nuove condizioni percepite a livello personale e condivise a livello globale – hanno rimesso in discussione tutte le categorie precedenti, riaprendo una riflessione su materialità e immaterialità dello spazio, su reale e virtuale. Tali questioni ci impegnano in prima persona come urbanisti, sollecitandoci a capire come gli spazi della città pensati per favorire l’incontro e l’interazione (Pasqui 2018) possano oggi rielaborare la giusta distanza, rimettendo in discussione la geografia critica della prossimità come dispositivo spazio-temporale del progetto di una città sostenibile.
Se, da una parte, sembra si debbano rivoluzionare i concetti di città, mettere in dubbio la loro validità a favore di una abitabilità dispersa e decentrata (modalità che da sempre ha avvallato l’isolamento come maniera meno impegnativa di vivere in un condominio), dall’altra, la città (e non la fuga da essa) è risultata vincente. Le “città sono la risposta al problema e non il problema”, come dice bene Alessandro Balducci (2020), quando però sanno anche riprogettarsi, invertire un percorso e intraprenderne un altro, sperimentando in continuo la maniera di immaginare le forme dell’esperienza del vivere insieme.
Le città devono ripensarsi: insediamenti urbani compatti, vivibili e resilienti sono sempre vincenti su quelli diffusi, isolati e autosufficienti. Il riferimento è ad ambienti spazialmente continui, densi ma poli-nucleari, coerenti alle teorie della città costruita per municipi, con forme di prossimità calcolate entro i 15 o 20 minuti (Castellani 2021). Città non più rigidamente separate in centri e periferie, ma pensate con servizi e attrezzature distanti non più di 15 minuti fatti a piedi dalla propria casa. è giunto il momento di elaborare la fine dei principi della città moderna, di mettere definitivamente da parte le regole della Carta di Atene, la divisione in zone autonome e monofunzionali, per riflettere sull’aggiornamento al presente di quelle relazioni di contatto dello spazio urbano (Choay 2003) che hanno caratterizzato diversi momenti della costruzione della città storica, dalla casa mercantile medioevale, ai richiami alla neighborhood unit delle ipotesi della Garden City e delle sue molte declinazioni nel XX secolo. Ipotesi, queste, di decentramento che ribadivano l’importanza delle relazioni di vicinato come maniera per ricostruire il senso della comunità locale, cercando un rimedio alla spersonalizzazione delle metropoli che si andava delineando.
Le relazioni di vicinato stabiliscono ancora oggi regole preposte a garantire, al tempo stesso, l’interazione e la distanza, la comunicazione e la riservatezza. Si tratta di regole in genere non scritte, che diventano patrimonio comune di un gruppo di persone che le adotta come tali senza doverle richiamare; alludono a una forma di abitare lo spazio fondata su principi che consentono di stabilire un modo pratico di stare insieme senza doverlo continuamente attestare, senza che questo crei necessariamente comunità. Il vicinato è dunque un dispositivo antropogeografico (Mininni 2017), che ci aiuta a meglio trasferire l’indagine della prossimità nelle relazioni spaziali che la città ha prodotto nella sua lunga storia, configurando in forme urbane le relazioni sociali, le pratiche e gli usi dello spazio.
Per molto tempo abbiamo pensato che il quartiere, il borgo, il villaggio fossero i materiali urbani che facilitavano la produzione del locale e della comunità, mentre le conurbazioni, le metropoli generassero isolamento e anonimato. In realtà, alcuni studi hanno mostrato che esistono forme tradizionali e moderne di vicinato: in contesti stabili, isolati, omogenei, economicamente incerti, tendono a manifestarsi rapporti intensi e solidaristici; mentre, se esistono politiche di assistenza pubblica a basso costo e maggiori possibilità di movimento, le relazioni sociali si stabiliscono anche in ambiti più dispersi. Avvallando la logica che il vicino è ben predisposto all’incontro, i grandi condomini possono essere considerati i principali contesti di vicinato. Nella ingenua affiliazione degli uomini allo spazio, spesso si è pensato che, aumentando la distanza delle residenze, gradatamente il rapporto di vicinato si trasformasse in rapporti di quartiere, più superficiali, fino alle spazialità della mobilità dove la relazione sarebbe stata del tutto anonima e casuale. Le generalizzazioni e la semplificazione della realtà hanno così portato a false convinzioni – dall’aderenza dei significati patrimoniali ai luoghi, alla deterministica coerenza di assetti sociali e spaziali. Di frequente ne è risultata una demonizzazione dello spazio stesso, anche quando erano altre le ragioni che producevano emarginazione e marginalità di luoghi e individui, o che al contrario creavano inaspettatamente spazi della solidarietà e della condivisione.
Le retoriche non hanno comunque impedito che si potesse fare buona architettura. Si pensi alle spazialità urbane del secondodopoguerra, quando si sperimentavano le forme della città moderna tingendole del realismo di matrice populista, per certi versi anticipando – nella realizzazione di nuovi borghi e quartieri – quel modello di una città dei 15 minuti oggi tornato prepotentemente in voga. La vicenda di Matera appare esemplare per spiegare questa affermazione: una città del Sud che, a ridosso della metà del secolo scorso e durante il processo di modernizzazione del paese, è diventata un vero laboratorio per ricostruire relazioni tra città e campagna in rapporto a modelli di produzione in tensione tra industrializzazione e riforma agraria.
“Un vincolo sociale molto importante nasceva dalla vicinanza delle abitazioni: ‘vicinato’ è chiamato nei Sassi quel gruppo di famiglie le cui case sono disposte in modo da affacciare su una delimitata area comune” (De Rita 1955: 16). La funzione del vicinato era quella dell’associazione, del mutuo soccorso: la vita familiare era in stretta relazione con quella del vicinato stesso, essenziale soprattutto per la donna, che rimaneva tutto il tempo in casa. Lo spazio del ‘vicinato’ nei Sassi di Matera era visto come una ‘piazza’ a scala inter-familiare, una camera urbana come luogo di interazione e scambio. Vicinato si delinea in sostanza come un termine ambiguo, con il quale si indica una specifica fisionomia di tipo antropogeografico, mettendo in relazione la particolare disposizione delle case con un atteggiamento psicologico. Il vicino viene investito da una forte tonalità affettiva (negativa o positiva), nell’ambito di una relazione che è perciò difficilmente di indifferenza e che, anzi, contribuisce a connotare e a distinguere il gruppo dagli altri vicinati.
Molti urbanisti e sociologi hanno cercato la pietra filosofale dell’unità di vicinato, tentando di ricostruire nei nuovi nuclei urbani quel senso di comunità che le città hanno cominciato a perdere con la rottura dello spazio di contatto determinata dalla modernizzazione (Choay 2003), e riconoscendo nella città dei Sassi un ordine diverso da quello noto (Fig. 1). Un ordine profondamente civile (Gorio 1954). Marcello Fabbri, a cui fu affidata la progettazione urbanistica e architettonica del nuovo quartiere Lanera (1955-1959), dirà che “nell’individuazione di questo ‘vicinato’ vi era però una forzatura di astrattezza e schematizzazione che metteva in crisi la reale comprensione del funzionamento della struttura sociale e urbanistica dei Sassi”, i quali costituivano un insieme irriducibile, non riconducibile alle singole parti come elementi suscettibili di smontaggio e rimontaggio (Fabbri 1977: 139). L’errore compiuto dall’urbanistica è stato quello di pensare al vicinato come a un valore riproducibile ed esportabile. Un valore che era tuttavia impossibile da trasferire nei nuovi quartieri, perché inesistente già negli anni ’50. Già allora le tensioni e le esasperazioni per le precarie condizioni di vita, le malattie e l’alta densità abitativa avevano infatti creato “insofferenza per il vicino e reciproca indifferenza […] è raro il caso di [una famiglia] che, pensando all’eventualità di traslocare, mostri il desiderio di avere ancora i vicini che ha attualmente” (De Rita 1955: 17).
Eppure nel discorso di Quaroni presentato durante una conferenza alla Camera di commercio a Matera nel 1953, e in particolare nei riferimenti al nuovo quartiere La Martella costruito negli anni ’50, si percepiscono le speranze depositate nel progetto, il ruolo attribuito alla spazialità quale aiuto alla costruzione dell’ideale della comunità olivettiana (Fig. 2). “Dove è finita la chiara ed elementare visione dei significati spaziali che, abbinando usi e forme, pretendevano di costruire lo spazio per ‘fare comunità’? Due ingressi abbinati danno ai vicini più possibilità di incontrarsi, l’orto retrostante alla casa permette a tutta la famiglia di sentirsi utile anche se non si lavora nei campi, il forno è un elemento di socializzazione per la vita di strada al pari della chiesa e della scuola. Un forno collettivo è stato previsto in fondo ad ognuna delle strade che si dipartono dal centro: e così come nei Sassi, alla Martella il forno costituirebbe un nodo sociale di ritrovo e di scambio tra le donne del vicinato. I forni saranno costruiti collo stesso sistema di quelli tradizionali e sarà possibile ancora l’uso dei legni profumati per cuocere […] il distanziamento delle case dal filo stradale e il loro non allineamento hanno permesso la costruzione di spazi aperti privati verso la strada per la vita all’aperto d’estate e per l’articolazione del sistema, aiutati dai colori sempre diversi delle pareti e degli infissi” (Quaroni 1981: 57-64).
Fin nelle prime indagini condotte dal 1951 dalla Commissione voluta da Adriano Olivetti per avviare il recupero dei Sassi – definiti ‘vergogna nazionale’ all’indomani della scoperta, a metà del secolo scorso, di questa anomala realtà urbana – era però risultato evidente quanto il vicinato esprimesse solo una forma storica separata dalla realtà, mentre la forzata ed eccessiva densità della popolazione aveva fatto emergere reciproca diffidenza tra i vicini. Si trattava dunque di un’idea gravata dal condizionamento ideologico e dal «determinismo della speranza», proprio di un’urbanistica che immaginava di indurre comportamenti mediante la prefigurazione degli spazi (Mirizzi 2014: 114).
I condizionamenti politici non hanno impedito a Matera di provare a esprimere la virtù educatrice della buona architettura, che è anche il piacere del vivere civile, né all’urbanistica di diventare terreno obbligato per ogni presa diretta sul sociale, come dirà Musatti (1972) ricordando la morte prematura dell’architetto materano Ettore Stella. L’esito di questo progetto riformistico è noto a tutti. A ridosso degli eventi, De Carlo attribuiva, con lucidità, la responsabilità dell’insuccesso del progetto riformistico materano e del modo in cui si erano affrontati i problemi del Sud, in egual misura, alle manchevolezze e alla fretta dei politici, e alla scarsa preparazione degli urbanisti. Le questioni non erano solo di natura spaziale, non attenevano soltanto al progettare il decentramento urbano; il tema era come pensare alla saldatura della città alla campagna, affrontando al contempo la trasformazione dei rapporti sociali, non solo quelli propri di un trasferimento da una casa all’altra. Si trattava dunque di trasformare un contadino in cittadino, con uguali diritti e uguali possibilità (De Carlo 1954). Eppure La Martella, dirà sempre De Carlo, rappresenta ancora oggi un organismo vivo, e non somiglia affatto a uno dei tanti borghi che ci forniscono i piani regolatori. È anzi un avvenimento esemplare da indicare come primo segno di una nuova concezione urbanistica.
L’esperienza del Piano Piccinato (1953-1954), a cui fanno riferimento i numerosi quartieri realizzati a Matera nell’immediato secondo dopoguerra (Figg. 3, 4), è esplorazione di un modello policentrico: nel panorama italiano, una risposta originale alle poetiche del verde del garden movement, ma lontana dalle loro istanze antiurbane. Il piano non individuava nei quartieri e nei borghi rurali isole o unità socio-spaziali senza servizi, come avverrà altrove. Quartieri e borghi erano intesi come parti integranti di un modello urbano nucleare, che all’esterno della città moltiplicava nuove centralità, distribuendo attrezzature tra le nuove case, definendo, attraverso i paramenti della distanza, le condizioni di periurbano, suburbano ed extraurbano. Condizioni che davano forma a una nuova campagna diventata abitabile. Il piano ampliava la scala della città e al contempo immetteva urbanità nel territorio agricolo, laddove la campagna – grazie alla riforma agraria – cessava di restare uno spazio indifferenziato, per trasformarsi in una grande lottizzazione misurabile e quotabile, infrastrutturata da strade e reti idriche, come un nuovo ambito urbano in cui agricoltura e contadini erano coinvolti in uno stesso progetto. Le funzioni rappresentative della città, mantenute fino ad allora a ridosso dei Sassi, si dovevano così estendere e ‘modernizzare’, distribuendosi ai margini del centro, ai fini di un riequilibrio e di un decongestionamento.
Nel nuovo piano, il sistema del verde assumeva un valore strutturale, concorrendo alla definizione di un impianto complesso. Il disegno dei parchi, dei capisaldi naturali delle colline, dei giardini e delle aree verdi lungo i nuovi assi di espansione della città contribuivano a definire il passaggio dal rurale all’urbano. Entro tale trama articolata, ognuna delle diverse famiglie di quartieri affrontava un proprio tema di ricerca rispetto alle relazioni con la città e alla morfologia del suolo assegnato: la razionalizzazione, su una superficie pianeggiante, degli ‘etimi populisti’ a Spine Bianche; il confronto con il disegno del margine collinare a Serra Venerdì; a Lanera, la riproposizione in chiave moderna dell’impianto urbano ‘a cannocchiale’ e dell’idealtipo urbano di piazza Ridola. I quartieri risultano così tipizzabili rispetto ai differenziali di distanza, densità e intensità delle trasformazioni sopravvenute nello sviluppo complessivo della città (Mininni 2015).
Questa forma urbana risulta ancora riconoscibile nella variante del 1979, in cui lo stesso Piccinato sperimentava il suo modello di ‘città aperta’, che finalmente si dotava dei servizi e delle attrezzature propri di una città moderna. Progetto che invece, a partire dagli anni ’70 fino a oggi, si declinerà nella rinuncia alla proposta di una nuova forma urbana, nella perdita di controllo dei rapporti tra città esistente e città nuova, limitandosi a riempire di case i vuoti interstiziali della prima e a saturare gli spazi aperti del Piano Piccinato.
Si è persa così l’opportunità di aggiornare il progetto urbano guardando ai nuovi bisogni sopravvenuti, di fatto annullando la complessità di un confronto tra la città contemporanea e la città laboratorio del Moderno. Ma quanto, di questo progetto, è ancora rintracciabile nella forma della città? I quartieri sono ancora “un paese nel paese?” (Tafuri 1974: 46). Rappresentano ancora quei cristalli di urbanità, capaci di ospitare pratiche di comunità oggi diventate più opportunistiche nel passaggio dalla collettività alla individualità?
La ‘nuova’ Matera si è integrata poco e male alla città che l’ha preceduta, in un processo di costruzione avvenuto per aggiunta di parti che sono andate a saturare gli spazi verdi che circondavano i quartieri della città moderna, travisando il modello di crescita per nuclearità autonome. Il risultato è che oggi Matera è una città difficile da leggere, in cui non è facile orientarsi, dove gli spostamenti per raggiungere a piedi la scuola, la chiesa, il mercato avvengono su suoli incerti, insicuri; una città che mette a dura prova l’incolumità dell’abitante. Il suolo urbano non riesce a farsi interprete dei differenti ritmi di vita; troppe sono le parti irrisolte, dove il suolo pubblico non ha la qualifica di spazio pubblico. Nuove espansioni, in cui passano strade troppo larghe e pericolose, tagliano in due interi settori urbani, separandoli definitivamente. Ma, soprattutto, la qualità degli spazi pubblici della Matera contemporanea non è all’altezza della cultura dei suoi abitanti e del proprio tempo. Questi spazi non facilitano le occasioni di incontro, né propongono nuove modalità dello stare in pubblico.
Negli anni ’50, “maturava la coscienza che la gestione dei fatti territoriali non era l’attuazione di un progetto chiuso, ma era invece un processo attraverso il quale la città e il territorio si materializzavano, sulla base di una chiara volontà politica, in ordine allo sviluppo economico e sociale della collettività, di cui certamente lo strumento del piano costituiva il momento privilegiato di sintesi e di ipotesi attuativa” (Pontrandolfi 2002: 65). Oggi, a quale strumento possiamo rivolgerci per mantenere alto il valore del fatto urbano come sintesi di un processo culturale e politico che ha alla base la bellezza, la vivibilità e la sostenibilità della città, secondo i principi del New European Bauhaus?
Forse, a Matera, i quartieri dello sfollamento, rompendo il loro isolamento, possono diventare nuovi luoghi in cerca di città; elementi rappresentativi di una storia urbana che si rende di nuovo disponibile a ricostruire lo spazio frammentato della città contemporanea, ad entrare nel ridisegno della trama dello spazio pubblico per costruire nuove dimensioni di vicinato. Dimensioni in cui la prossimità facilitata dalla morfologia e dalla dimensione dei luoghi disegnati a metà del secolo scorso richiede riflessioni capaci di andare al di là di parametri spazio-temporali semplificati, per interrogarsi sui modi in cui oggi si produce piazza per comunità senza origini in comune, all’interno di un pensiero sulla città “come nesso tra spazio e società in condizioni di pluralismo radicale” (Pasqui 2018: 15).
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