Le città del diverso presente devono recuperare il loro policentrismo naturale, la diversità dei quartieri che, non più fragili periferie, tornino a essere luoghi di produzione e servizi, non solo dell’abitare. Luoghi che, colmando le divisioni educative, lavorative, culturali e digitali, si dotino di manifatture creative e micropresìdi di comunità energetiche autosufficienti. Nelle ‘città della prossimità aumentata’ coesistono forme diverse di urbanità e i ‘15 minuti’ sono solo uno dei molti tempi possibili.
La pandemia da SARS-CoV-2, nella sua corsa attraverso il pianeta ha, finora, contagiato quasi trecento milioni di persone e ne ha uccise più di cinque milioni. Mettendo in quarantena metà della popolazione mondiale, ha messo in crisi i nostri comportamenti. Ma ha anche svelato l’illusione che nell’Olocene noi esseri umani siamo una specie dominante solo perché estrattiva e predatoria nei confronti della natura, desiderosi di emanciparci dalle dinamiche ecosistemiche. Ha, quindi, rivelato che siamo entrati nell’Antropocene come specie imperfetta e arrogante nel nascondere la fragilità dentro i nostri sistemi urbani ecologicamente insostenibili e generatori di diseguaglianze (Pievani 2019; Latour 2020). In questo tempo confuso, si sono moltiplicate le visioni e le proposte per la città post-pandemica, con la speranza di trovarci già in un ‘dopo’ (Sciascia 2020), ma le cronache sanitarie di questi giorni dimostrano il contrario. Io invece sono convinto – confortato da autorevoli studi – che siamo in una drammatica condizione sindemica (Singer 2009; Horton 2020), perché Covid-19 è una malattia di sistema che colpisce maggiormente le persone svantaggiate, con redditi bassi e socialmente escluse, oppure affette da malattie croniche, spesso prodotte dall’inquinamento e dovute, in gran parte, ad habitat urbani che richiedono nuove politiche pubbliche su ambiente, salute, istruzione, abitare e non solo risposte epidemiologiche. Siamo dentro una sindemia che ha colpito l’habitat prevalente della specie umana: la città. Una sindemia urbana prodotta dalla coazione della crisi climatica, delle diseguaglianze sociali, dell’ingiustizia spaziale e dell’emergenza sanitaria pandemica.
Da urbanista, anzi da futuredesigner comepreferisco definirmi (Carta 2019), che da anni lavora sulle metamorfosi urbane (Beck 2017) e sulla risposte dell’urbanistica in termini evoluzionisti, sono convinto che serva una riflessione competente e sistemica per imparare dalla crisi, per rivoluzionare i nostri comportamenti una volta superata la pandemia, e per evitare – o mitigare – la prossima crisi (Ceruti e Bellusci 2020). Non significa abbandonare le grandi città, come propongono alcuni con facile e consolatoria retorica, né di associare al distanziamento fisico necessario per ridurre il contagio il distanziamento urbano, producendo, come conseguenza, una dispersione insediativa che aggraverebbe l’impronta ecologica.
Le città devono sfuggire alla trappola dell’urbanistica post-pandemica che al distanziamento sociale vorrebbe associare un insostenibile distanziamento urbano, che spingerebbe ulteriormente la città a espandersi, a diffondersi atomizzata nel paesaggio, estendendo ancora la sua impronta antropocentrica. La mia proposta, invece, recupera il valore naturale della densità urbana, con un movimento duale di densificazione e redistribuzione che è un progetto di città e non una proposta superficiale, buona solo per il marketing. Nelle città a prova di sindemia dobbiamo cambiare gli spazi e i comportamenti dell’abitare attraverso alcune mosse: addensare, redistribuire, ibridare, adattare.
Ritengo che dobbiamo aggiornare al tempo sindemico quelle che definisco città aumentate (Carta 2021a), sistemi urbani capaci di amplificare la vita comunitaria senza divorare risorse: città più senzienti per capire prima e meglio i problemi, più creative per trovare risposte nuove, più intelligenti per ridurre i costi, più resilienti per adattarsi ai cambiamenti, più produttive per tornare a generare benessere, più collaborative per coinvolgere tutti, e più circolari per ridurre gli sprechi ed eliminare gli scarti. Città a prova della prossima crisi, potremmo definirle. Voglio proporre qui un modello di “città della prossimità aumentata” (Carta 2020), ad intensità differenziata, policentriche e resilienti, con un più adeguato metabolismo circolare di tutte le funzioni, con una maggiore vicinanza delle persone ai luoghi della produzione e ai servizi, con una nuova domesticità/urbanità dello spazio pubblico. Dobbiamo usare la creatività del progetto, imparando dalla natura che si evolve per innovazioni, per metamorfosi creative e per inedite cooptazioni (Gould e Vrba 2018), per adattamento e adattamenti. Nel concreto, dobbiamo progettare la rigenerazione delle nostre città perché siano antifragili, capaci di usare le crisi per innovare; come luoghi mutaforma, capaci di adattarsi alle diverse esigenze delle città anti-sindemiche. Non più il tradizionale elenco di funzioni separate (figlio dell’urbanistica del Movimento Moderno, della città-macchina), ma, imparando dall’intelligenza e dalla creatività della natura, un fertile bricolage di luoghi che siano insieme case, scuole, uffici, piazze, parchi, teatri, librerie, musei, luoghi di cura, interpretando ruoli differenziati. Una città che si adatta a mutazioni e che adatta le proprie funzioni per percorrere le transizioni.
La sfida per le città aumentate, quindi, sarà quella di recuperare il loro naturale policentrismo reticolare, la diversità dei loro quartieri affinché, cessando di essere fragili periferie, possano tornare a essere luoghi di vita aperti e connessi, e non solo insiemi di spazi domestici chiusi, facendo da ponte tra i divari educativi, lavorativi, culturali, naturali e digitali, producendo micro-luoghi di salute pubblica e comunità energetiche autosufficienti, localizzando strutture e servizi per bambini e giovani, riportando la natura nelle nostre vite (Molinari 2020). Dobbiamo saper frequentare e progettare quello che Ezio Manzini (2004) definisce un “localismo cosmopolita”: una città che connetta il luogo delle reti brevi della vita quotidiana sia con quello delle reti delle medie distanze a piedi o in bicicletta, sia con quello delle reti lunghe, lavorative, culturali o di studio.
Immagino città con una rinnovata e più ricca prossemica urbana (Hall 1968), composta da un arcipelago di comunità che riducano la loro frenetica mobilità centripeta e che facilitino una mobilità più misurata garantendo la risposta a numerose esigenze (ma non tutte), rimanendo connesse anche alle relazioni medie e lunghe. Significa pensare – e progettare – la città in termini ecosistemici, rimettendo insieme; il ruolo dei quartieri della ‘città dei 15 minuti’ (Moreno 2021) che Parigi, Barcellona, Copenhagen e Milano, tra le altre, stanno già implementando con successo, e della One-minute city che stanno sperimentando in Svezia per rispondere alla necessità di riqualificare e arricchire innanzitutto lo spazio immediatamente oltre la domesticità; la ‘città dei 100 minuti’ delle relazioni policentriche urbane; la ‘città dei 1.000 minuti’ (come la chiama il city quitter Giacomo Biraghi per indicare le città distanti più di 50 km dai più grandi centri urbani), dove le persone abitano e lavorano nei centri medio-piccoli di cintura, nelle pianure agricole o nelle montagne boscate, senza voler perdere la relazione, anche digitale, con le città metropolitane (non necessariamente le più vicine) e i loro servizi di rango più elevato (Rosenkranz 2018).
La città della prossimità aumentata, quindi, è una iper-città composta di diverse forme di urbanità, di cui si iniziano a vedere le prime configurazioni consapevoli; richiede un’adeguata urbanistica che sappia progettarne assetti fisici e relazioni, garantendo il rispetto del diritto alla città di una cittadinanza nomade, che non è solo garanzia di servizi essenziali, ma è anche diritto al lavoro, alla partecipazione, alla sicurezza, all’accoglienza, alla felicità, alla coesione, al benessere e alla creatività. è diritto al futuro (Appadurai 2014).
Sarà quindi necessario aumentare lo spazio domestico ampliando quegli spazi intermedi che possano consentire una vita di relazioni sicure: allargando i marciapiedi e prevedendo una pedonalizzazione temporanea per ampliare gli spazi per il gioco dei bambini e le attività sportive degli adulti; creando nuovi interventi di urbanistica tattica anche per il posizionamento di sedute per bar e ristoranti che dovranno garantire il distanziamento; rinaturalizzando gli spazi minerali non necessari; distribuendo teatri e cinema nello spazio pubblico, riutilizzando edifici abbandonati per accogliere nuove funzioni condivise con l’intero arcipelago.
Questa è la mia proposta per la città della prossimità aumentata, in grado di rafforzare la prossimità alle funzioni urbane e anche di espandere l’attrattività generata dalla diversità dei quartieri, dalle loro identità e offerta di servizi. Dobbiamo reinventare teatri, cinema, musei e scuole, distribuendoli nella città e nello spazio pubblico, e riutilizzare gli edifici e le infrastrutture dismessi per accogliere sia le nuove funzioni condivise con l’intera città imposte dello smart working, sia le funzioni distanziate necessarie per la segmentazione cautelativa. Dobbiamo tornare ad una alleanza con la natura non come cosmesi, ma come vera e propria rinnovata ecologia urbana per una città come habitat multi-specie (Coccia 2020).
Propongo una sorta di fascia osmotica che arricchisca gli spazi domestici diventando un progetto urbano, riempiendo i quartieri di orti, attività produttive, luoghi per l’attività motoria e spazi per una vita relazionale sicura e distribuita. Anche i luoghi del lavoro cambiano dimensioni e caratteristiche, perdendo la configurazione dei tradizionali centri direzionali e distribuendosi in conformazioni più piccole richieste dallo smart working, dentro altri edifici (aziende municipalizzate, associazioni datoriali, persino alberghi) che fungano da sedi di vicinato, come nel progetto Nearworking del Comune di Milano (o in altre esperienze analoghe a Londra e New York), o in capsule super accessoriate on demand (come a Tallinn). Una domesticità aumentata dallo spazio urbano e definita da un perimetro di prossimità che consenta di usufruire di attività non solo individuali ma anche collettive, entro un limite di sicurezza e autosufficienza in caso di pericolo. Un habitat aperto, adattabile e personalizzabile, generato dalle persone che lo abitano, che si muovono dentro e attraverso di esso in una correlazione urbana permanente, e che mettono in gioco attivamente le proprie differenze creando un’interazione virtuosa con le forme urbane delle città che tornano aperte (Sennett 2018). Non dimentichiamo, infine, che offrire una gamma di attività e servizi entro un raggio che, in andata e in ritorno, può essere percorso in 30 minuti a piedi contribuisce a offrire quel tempo di attività motoria che l’Oms individua come necessario per la qualità della vita e la salute delle persone.
Non propongo, certo, un modello di iper-prossimità, una “città contrada” (Agazzi et al. 2020) composta di tribù recintate in quartierini, ma una città-arcipelago di prossimità differenziate che in maniera fluida addensino e distribuiscano funzioni urbane, amplificando il raggio breve della prossimità, estendendo e arricchendo le funzioni dell’abitare secondo uno schema policentrico: la città dei 15 minuti e dei 100 minuti da vivere nel nuovo multi-tempo urbano che diventa multi-spazio. E, infine, per rafforzare questa correlazione tra spazi domestici/urbani aumentati, dobbiamo progettare una rete di infrastrutture, anche vegetali e acquatiche, ampia ed efficace, vere e proprie arterie per la mobilità umana e animale. Un percorso per la mobilità sostenibile delle persone che colleghi le diverse centralità, sottraendo spazio alla mobilità individuale e al parcheggio parassitario, garantendo sicurezza, consentendo ai pedoni di attraversare parchi e giardini o cortili e vicoli di una città più porosa, facilitando il riutilizzo delle infrastrutture dismesse per i ciclisti; ma anche progettando corridoi ecologici per gli animali, per gli impollinatori che consentano alla natura – vera e non cosmetica – di tornare nelle città, dopo averla cacciata con antropocentrica arroganza.
Il riferimento è a una prossimità amplificata, che coinvolga tutto lo spazio urbano nell’abitare, definendo una fascia pneumatica di funzioni (che si estenda e si restringa a seconda delle necessità epidemiche, e non solo), e che consenta di usufruire di attività non solo individuali ma anche collettive, entro un limite di sicurezza e autosufficienza.
La rigenerazione degli habitat umani dopo la policrisi climatica, sanitaria ed economica (Morin 2020) richiede il cambiamento delle forme e dei modi di vivere negli spazi domestici, collettivi e lavorativi, imparando anche dalle nuove pratiche che stiamo vivendo nel tempo del distanziamento (nuove e mature relazioni digitali, modalità di mobilità sostenibile, solidarietà cooperativa, ecc.). La città della prossimità aumentata, pertanto, deve estendere le funzioni, rimodellare le forme e aggiornare le norme per perseguire:
l’amplificazione del raggio breve della prossimità attraverso un arcipelago di ecosistemi urbani, arricchendo le funzioni dell’abitare secondo uno schema policentrico;
il rafforzamento della giustizia spaziale delle attività e dei flussi, verificandone gli effetti concreti sulla dimensione urbana e sulla domanda sociale;
il ripensamento della densità/intensità delle funzioni urbane in forme più flessibili e collaborative e meno rigidamente frammentate;
l’inserimento della natura nello spazio pubblico e negli interstizi comuni di quello domestico per ricollegare l’habitat umano al mondo vegetale e animale.
Le città aumentate sono come le mangrovie, piante bellissime e uniche al mondo, che vivono in acqua salmastra, nel punto esatto in cui i fiumi si uniscono al mare. Crescono solo in una fertile intersezione di condizioni: sono aeree e subacquee (come le città della convivenza tra comunità e specie) e vivono in un ambiente incomprensibile se lo si studia solo come ambiente di acqua dolce o solo di acqua salata, ma che diventa limpidamente chiaro se ne comprendiamo l’identità ibrida, il ruolo di area di transizione (come le città policentriche che ripensano costantemente centri e margini) e che, quindi, risulta l’ambiente ideale – per la sua polisemia – per le mangrovie. Le ‘città mangrovia’ ci offrono un’immagine guida della ibridazione, flessibilità, contaminazione, apertura, connessione e pluralità delle città della prossimità aumentata, producendo diverse specie di spazio urbano che, attraversando diverse scale (dal paesaggio al quartiere), configurazioni (materiali e immateriali, minerali e vegetali) e identità (antropiche e naturali, domestiche e relazionali), creano nuovi dispositivi di un abitare sempre più complesso e plurale.
Non è la pandemia che ci impone di ripensare le città e re-immaginare l’urbanistica, essa è solo un acceleratore. Sono l’insostenibilità, la fragilità e l’ingiustizia del nostro modello di sviluppo predatorio che, da tempo, ci richiamavano alla responsabilità di progettare per rigenerare e non per consumare.
Non è più il tempo di manutenzioni e piccoli adattamenti, ma è venuta l’ora del salto dalla città rigida del ’900, regolativa e gerarchica, alla città aumentata, evoluzionista e flessibile, del XXI secolo; dalla città predatoria dell’Antropocene, alla città generativa del Neoantropocene: la città della prossimità aumentata, della salute pubblica come progetto dello spazio e non solo come presidio o controllo.
Anche noi umani urbanizzati dobbiamo fare un salto evolutivo, diventando più sensibili e adattivi alle metamorfosi, più accurati e tempestivi nella soluzione dei problemi, e, soprattutto, più intelligenti perché più responsabili e collaborativi nei confronti del nostro abitare la Terra.
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