Hebron, Al-Khalil in arabo, è la maggiore città della Cisgiordania, centro della Giudea biblica. Si trova a 35 chilometri a sud di Gerusalemme ma, il percorso accidentato tra posti blocchi e settori di strade riservate tra le due città, fa variare giorno per giorno il tempo di percorrenza del tragitto [2]. Questa incertezza scompensa, in un primo momento, i visitatori, nonostante si muovano al sicuro delle loro autovetture dalle “targhe gialle”, israeliane, che, di solito, non costringono a deviazioni improvvise o percorsi paralleli [3]. Da subito ci si inizia a chiedere come si possa vivere non potendo controllare il proprio tempo. Osservando lo snodarsi del Muro, imponente e stabile, invece, lungo la strada, presto appare chiaro che, da uno dei due versanti, non si controlla troppo neppure lo spazio. A meno che, con questa parola, non si vogliano intendere «i coriandoli della Cisgiordania tagliati dal muro, sminuzzati in 630 posti di blocco israeliani, pressati dalle colonie ebraiche in espansione” (liMes 2009, p.7).
Cuore economico e commerciale della Cisgiordania, Hebron è senz’altro una delle città più antiche e importanti della Palestina. Ha una estensione di 46 kmq e una popolazione di circa 230.000 abitanti, che arrivano a 650.000 nell’area del Governatorato.
In entrambi i casi, la maggioranza della popolazione è costituita da arabi palestinesi, cui si somma un gruppo di circa 400 coloni ebrei che vive nel centro storico della città. A questi si devono aggiungere circa 6.000 coloni che risiedono a Kiryat Arba, grosso insediamento, fondato nel 1970, che incombe sul lato orientale della città [4].
La disposizione spaziale degli insediamenti dei coloni [5] segue le stesse logiche in tutto il Paese: una cittadella bianca, sospesa sulle pendici di una altura, che ricorda costantemente le regole del gioco e del potere a queste latitudini. Scopi “difensivi”, senz’altro, tant’è che secondo la destra israeliana, non solo ortodossa, questi insiemi di case nuove e uguali, che spuntano come funghi, rappresentano “il giubbotto antiproiettile di Israele” (Baquis 2001, p.43).
Fin dall’inizio i laburisti guardarono alle colonie come «a un filtro per impedire le azioni dei fedayn ed evitare i blitz militari a sorpresa” ma tale paradigma si è evoluto nel tempo promuovendo programmi di insediamento come «sperimentazioni di vere e proprie soluzioni spaziali ai problemi di sovraffollamento delle aree urbane” (Codovini, 2004, p.44- 45). In questo modo è stata introdotta la logica dell’insediamento civile israeliano anche in zone densamente popolate dai Palestinesi.
È così che la città di Hebron è stata trasformata in una zona a “segregazione ebraica” e, quindi, smembrata dentro e circondata fuori.
Come sede della grande moschea “El- Haram el-Hibrahimi” ma anche della “Tomba dei Patriarchi” per gli ebrei, come spesso capita da queste parti, Hebron è “città santa”, al contempo, per gli Ebrei e per i Musulmani: un luogo di guerra, in poche parole. Un luogo che molti Palestinesi hanno cominciato ad abbandonare a causa dei conflitti quotidiani con i coloni.
All’interno di questa parte della città che è una sorta di recinto controllato in entrata e in uscita, i coloni passeggiano sfoggiando un mitra sul candore del vestito tradizionale. Il giovane ingegnere che mi guidava nel sopralluogo, armato di penna e taccuino, è stato costretto ad arretrare e a cambiare strada, in diversi punti del nostro breve tour, in ragione della sua pericolosità in quanto palestinese.
Senza di lui non mi sarei resa conto della segregazione all’interno dell’area segregata: un gioco di scatole cinesi che chiede costantemente conto di chi sei e da che parte stai.
Per molti anni l’amministrazione militare ha permesso ai Palestinesi, che hanno abbandonato il centro, di costruire case nei sobborghi della città, senza il pericolo della demolizione o di altre rappresaglie.
Questo aspetto non è affatto banale se si considera quanto avviene, ad esempio, alle porte di Gerusalemme (e non solo), nonostante l’enorme e spesso vano lavoro di soggetti come l’ICAHD, Israeli Committee Against House Demolition (cfr.http://www.icahd.org) [6] o le azioni non solo dimostrative dell’ISM, International Solidarity Movement.
Dopo l’accordo del 15 gennaio 1997 sul ri-dispiegamento delle truppe israeliane, il centro della città, è stato diviso in due settori: H1 (80%) sotto il potere dell’Autonomia Nazionale Palestinese, e H2 (20%) sotto controllo israeliano. Il 20% di questa città, così importante e vitale per l’economia palestinese, è occupata dall’esercito israeliano dove vivono i circa 400 coloni integralisti protetti da 2000 militari [8].
Hebron è la maggiore città industriale palestinese, con una significativa produzione nella lavorazione del marmo [9], delle ceramiche e del vetro, e una ancora significativa produzione legata alla coltivazione viticola che caratterizza fortemente il paesaggio attorno alla città. Ad ogni modo processi produttivi e merci possono essere fermati in qualsiasi momento da un controllo per ragioni di sicurezza, anche sulla base di una progressiva definizione di una “realtà cantonizzata, un susseguirsi di enclave che tra loro comunicano poco e a singhiozzo” (liMes, 2007, p.154).
Le numerose misure di sicurezza prese dall’esercito per proteggere i coloni che attraversavano l’area centrale della città – chiusura degli ingressi laterali, impedimenti all’accesso di automobili, perquisizione quotidiana dei residenti – hanno causato l’evacuazione di molti stabili nell’area, fatto che ha influito negativamente anche sul degrado fisico di questi edifici storici e sullo stato generale di conservazione dell’inimitabile insediamento tradizionale arabo.
Alcune vie del centro storico sono sovrastate da reti di acciaio a protezione dei coloni che occupano i piani superiori degli edifici, mentre nei piani inferiori permangono le abitazioni e i negozi dei palestinesi. I primi usano gettare di tutto sopra le reti di acciaio, lungo le vie, definendo così un paesaggio urbano di avvilente degrado. Molte proteste, presentate dai residenti palestinesi alla polizia israeliana contro le aggressioni dei coloni sono state documentate, nel tempo, all’ufficio dell’Hebron Rehabilitation Committee (http://www.hebronrc.org/english/Ocity/plans.aspx) che, dal 1998, si occupa dell’intervento di recupero e riqualificazione di tre aree interne al centro storico.
Dal gennaio del 2010 il centro storico della città di Hebron è nella lista dei patrimoni mondiali dell’Unesco.
Passaggio importante per molti luoghi della terra, soprattutto dal punto di vista delle risorse disponibili per garantire, nel tempo, la conservazione di un’area di pregio. Risultato anche fortemente simbolico in una terra come questa.
Non solo per il prestigioso riconoscimento internazionale attribuito a uno sforzo di promozione innegabilmente palestinese e la conseguente attenzione alla valorizzazione di un bene ritenuto, per l’appunto, patrimonio condiviso a livello mondiale, pur in un contesto di conflitti e soprusi. Ma anche perché esito della profusione di un grande impegno nazionale e internazionale durato, complessivamente, oltre vent’anni.
Il progetto di riqualificazione della Città vecchia di Hebron è iniziato nel 1988. Prima dell’arrivo degli israeliani nel 1967, la popolazione era di 10,000 abitanti, ma, a seguito delle diverse fasi di inasprimento del conflitto circa l’85% delle hosh [10], le ampie abitazioni tradizionali, sono state abbandonate.
Tra il 1988 e il 1991, l’Università di Hebron (UGU-University Graduate Union) ha condotto una survey attraverso la quale ha stabilito che la maggior parte delle abitazioni potevano essere recuperate. Allo stesso tempo l’UGU ha promosso la creazione dell’Hebron Rehabilitation Committee, un gruppo costituito da una trentina di soggetti tra membri del governo, rappresentanze di diverse ONG e, naturalmente, l’Università.
L’HRC, incaricato di preservare e di rivitalizzare la Città Vecchia, ha lavorato al rinnovamento delle abitazioni e al loro ripopolamento, assumendosi l’impegno di una vera e propria “General Policy of Restoration”. Un documento che prevede non solo la definizione di minuziose linee guida per gli interventi di recupero edilizio (per non stravolgere le strutture esistenti, nonostante le inevitabili migliorie indispensabili per rendere le abitazioni utilizzabili), ma, anche, la restituzione delle abitazioni ai vecchi proprietari. Ai vecchi proprietari è concesso di determinare l’uso della propria abitazione con un rapporto di 2 a 1 tra proprietario e affittuario. Gli affittuari, selezionati sulla base di una consultazione, sono impiegati e operai a basso reddito che non dovranno pagare l’affitto per i primi 5 anni di locazione.
L’intervento coltivava espliciti obiettivi di difesa e valorizzazione del patrimonio culturale della città vecchia al fine di trasmetterlo alle generazioni future. Inoltre, esso mirava anche a circondare e contenere gli insediamenti per contrastarne l’espansione attraverso una più ampia ricostruzione delle infrastrutture, il ridisegno delle aree pubbliche e dei parchi negli spazi aperti dell’area. Allo scopo di preservare al massimo il valore storico del tessuto urbano, tutte le alterazioni relative alla rifunzionalizzazione delle abitazioni sono state limitate agli interni. I 127 appartamenti e 25 negozi che dovevano essere completati entro il 2012 sono oramai pronti e, lentamente, si procede verso una quasi incredibile normalità.
Ovviamente, il processo di riqualificazione ha avuto effetti positivi sull’economia della città: sono stati creati centinaia di posti di lavoro, direttamente o indirettamente collegati al programma, e sono state (ri)aperte importanti attività commerciali.
L’iniziativa è stata finanziata da fondi pubblici e finanziamenti internazionali tra i quali è stato particolarmente significativo il ruolo della Svezia. La gestione del progetto è stata affidata a una struttura ad hoc, esterna alla Municipalità che, all’epoca del lavoro per il Master plan, pareva presentare qualche conflittualità di poteri e competenze in merito, soprattutto, alla gestione dei servizi pubblici. Oggi, i responsabili della Municipalità celebrano, come ovvio, l’evento dell’inserimento nella lista dell’Unesco, anche se l’operazione non corrisponde, purtroppo, all’attivazione concreta della attesa capacità di programmazione e governo della città in forma realmente autonoma e indipendente. E questo anche rispetto all’azione, non sempre coordinata e coerente, dei donatori stranieri.
Nelle condizioni delle quali si è detto, non sorprende, infatti, la difficoltà di assumere lo svolgimento di funzioni ordinarie di governo del territorio, nonostante vi siano risorse umane e infrastrutture tecniche anche di buon livello [11] e, certamente, più evolute dell’intero territorio palestinese.
In un luogo in cui sono costantemente negati l’accesso alle risorse, i diritti di proprietà e la libertà di movimento, una qualche azione di pianificazione ordinaria appare ancora più difficile del recupero, per quanto complesso, dell’intera area storica. Ovviamente, non sfugge che questo intervento sia stato favorito dall’attenzione e dai finanziamenti internazionali ma, anche, dalla deliberata opera di sottrazione, dell’area, dalla sfera dei conflitti quotidiani per tutto il tempo dell’intervento, anche perché era per lo più disabitata quando è iniziato il programma. In questo modo, gran parte delle forme e degli effetti di penetrazione sionista (gli insediamenti, le sottrazioni della terra, le strade di attraversamento riservate) sono stati sospesi e, quindi, è stato possibile intervenire.
In questo senso, purtroppo, l’aura di eccezionalità che comunque aleggia attorno alla parte antica della città di Hebron non sembra restituire la necessaria quota di fiducia nelle possibilità di pianificazione e governo del territorio da parte dei poteri locali.
Ciò conferma come la politica d’Israele abbia effetti rilevanti anche su un più sofisticato piano di capability del popolo Palestinese di percepirsi e, dunque, agire come entità nazionale e urbana.
Specchio di gran parte della complessa situazione di sopraffazione e delegittimazione del potere politico nazionale e municipale è, come spesso accade, la stessa forma fisica della città. In questo senso non c’è nessuna meraviglia sul fatto che si tratti di una città cresciuta sostanzialmente su se stessa [13], senza guida né progetto, né, tanto meno, visioni di futuro.
Dal punto di vista urbanistico, questo si traduce in una assoluta mancanza di disegno urbano, di una città senza spazi o attrezzature pubbliche progettate sulla base di previsioni demografiche e bisogni collettivi.
Inoltre, non esiste una rete di trasporto pubblico né, tanto meno, alcuna attenzione per l’inquinamento o per il loro pur necessario contenimento, a fronte di un crescente e disordinato traffico automobilistico, cui non giova la mancanza di aree di sosta e parcheggio. E non esistono neppure norme di difesa del paesaggio, pure esposto a fortissimi impatti derivanti, ad esempio, dalle estrazioni del marmo (del quale, la città di Hebron, risulta il 12° produttore a livello mondiale). Queste condizioni hanno contribuito a definire gli obiettivi della proposta progettuale per il Master plan assieme alla consapevolezza che occorresse intervenire anche sul più complesso piano della governante locale.
La forte frammentazione della leadership e la conflittualità intrapalestinese sono anche il risultato del deliberato tentativo di impedire (ieri come oggi) l’unificazione del demos palestinese.
Coerentemente, debolezza e incertezza del quadro politico ed evidente mancanza di esercizio della gestione ordinaria della città da parte della Municipalità, aggravano la situazione di non diritto entro la quale prevalgono le regolazioni “per la sicurezza” continuamente emanate dagli israeliani.
Se storicamente i palestinesi non hanno potuto legare la legittimità del proprio potere politico al territorio è chiaro però che una azione di pianificazione deve prevedere un implicito cambiamento di consapevolezza rispetto alla rilevanza e al senso delle norme.
Anche per questo, ci è sembrato opportuno che la proposta progettuale per il Master plan, in linea con le coordinate del progetto di cooperazione internazionale, prevedesse l’attivazione di mirati interventi di écapacity building, che sapessero contribuire alla ricostruzione del demos [14].
La definizione e il riconoscimento di regole e istituzioni sono pratiche che richiedono esercizio e non si improvvisano. Per tanto sembrava indispensabile che la ripresa delle funzioni di governo del territorio, da parte dell’Istituzione, passasse per un processo estremamente trasparente e condiviso, in grado di contribuire a restituire fiducia nelle istituzioni e nelle proprie capacità di intervento, orientando, in qualche modo, attitudini e comportamenti della popolazione. Nella situazione attuale, infatti, il governo cittadino e la popolazione tendono, inesorabilmente, a riprodurre meccanismi che favoriscono i poteri forti (quando non la corruzione vera e propria) in una comprensibile quanto diffusa logica del “tirare a campare”.
Inoltre, all’interno di una società piuttosto tradizionalista, siamo di fronte a un tessuto fortemente polarizzato, con alcune grandi famiglie ricche e potenti e una grossa percentuale di popolazione che vive in condizioni disagiate. La presenza dei clan familiari resta certamente un elemento distintivo della struttura societaria: essi, di fatto, si occupano dell’amministrazione informale della giustizia, dell’occupazione dei ruoli politici dell’Autorità palestinese, della gestione della sicurezza all’interno delle forze di polizia, evidenziando, anche in questo caso la sottile linea di demarcazione tra lo svolgimento di funzioni pure utili (sia pure a livello di sussistenza) e il potenziale di conflitti interni e litigiosità che possono continuamente esplodere. Se è vero che ai familiari del clan un individuo chiede aiuto nei momenti di difficoltà, come la perdita della casa o del salario, è vero anche che, tali processi, creano le condizioni per una gestione del potere e dell’autorità (extraistituzionale) di tipo squisitamente individualistico, impedendo la produzione di capitale sociale sistemico e favorendo anche possibili forme di corruzione.
Negli ultimi anni, è stata anche denunciata una condizione per la quale, all’abbandono delle più rigide cornici dei codici sociali e familiari, si stiano sostituendo, in una condizione di quotidiana efferatezza di violenze e soprusi, comportamenti pervasi da potenza e impunità. In questo quadro sarebbero significativamente aumentati i furti, gli omicidi, i prestiti non restituiti, etc., spingendo così, in tempi recenti, proprio i clan di Hebron a lavorare a una sorta di documento delle “brave persone” allo scopo di riportare “la legge e l’ordine” nella città, e salvare la società hebronita da una complessa deriva di instabilità e insicurezza anche interna.
Il ruolo delle famiglie, dei clan, per tanto, rappresenta un elemento insopprimibile nell’attuale geografia della società palestinese e, allo stesso tempo, anche un potenziale elemento di attrito al cambiamento, non solo nella comprensibile difesa dei principi più tradizionali della società, ma, anche, a tutela degli enormi privilegi acquisiti nel contesto di un potere costantemente delegittimato e instabile.
Il ben riuscito programma di riqualificazione urbana del centro storico di Hebron e la proposta per il Master plan lasciata a invecchiare, confermano la rilevanza del potere politico (nazionale e internazionale) sulle possibilità reali di intervento e azione alla scala urbana.
Il complesso programma di riqualificazione del centro storico era partito, non a caso, in una fase di relativo benessere e stabilità dell’Autorità Nazionale Palestinese: l’ANP aveva riconosciuto (e quindi investito) sulla difesa del patrimonio culturale proprio come elemento chiave della costruzione di una nuova identità politica; oltre che come risposta alla particolare fragilità della situazione determinatasi con l’occupazione dei coloni, la conseguente militarizzazione del territorio circostante e le urgenti esigenze di tutela venutesi a determinare.
Per la nostra proposta di Master plan la situazione è apparsa da subito più complessa e incerta. Quindi, comprensibilmente, senza troppe speranze di prendere realmente corpo.
Promossa sotto le insegne del ministro D’Alema, dopo il ritiro da Gaza e la vittoria di Hamas, e prima di Frattini e “Piombo fuso”, non era destinata ad avere vita facile.
Sorprende, però, come sia lineare la corrispondenza tra gli orientamenti del governo israeliano e l’adozione a livello internazionale del “dispositivo del congelamento dei processi” (non solo di pace), effetto della logica dei piani di disimpegno.
La proposta, con le sue intuizioni e le sue sfide, è stata, di fatto, congelata, rimandando a data da definirsi l’apertura di uno spazio per la pianificazione. Tale situazione, per quello che si è provato a dire, è particolarmente grave: essa amplifica la condizione di incertezza e le difficoltà di immaginare e determinare il proprio futuro nel ‘proprio spazio’.
Inoltre, complessivamente, essa conferma un altro insidioso orientamento internazionale verso le aree di conflitto strutturale, ossia il maggior agio nella fornitura di sostegno in forma di aiuti (umanitari e non) piuttosto che di strumenti di regolazione e di rafforzamento delle istituzioni. Cosa che, come è stato ampiamente osservato contribuisce a depoliticizzare le questioni, derubricando i soggetti (al più) al ruolo di vittime. E riducendo così, ulteriormente, l’indispensabile spazio della pianificazione nel conflitto.
Siti e pagine web:
http://www.icahd.org
http://www.hebronrc.org/english/Ocity/plans.aspx
www.hebronheritage.com
www.peacenow.org.il/site/en/peace.asp?pi=61&fld=191&docid=2024
[1] «Ciò che potrei spingermi a dire è che, una volta ammessa la logica dell’idea sionista, quando siete venuti avreste almeno dovuto comprendere che stavate arrivando in una terra abitata” , Said 2007, p.19.
[2] «B’Tselem stima che in Cisgiordania vi siano diciassette strade il cui accesso è totalmente proibito ai veicoli palestinesi (circa 124 km, dieci il cui accesso è parzialmente proibito (244 km) e quattordici il cui accesso è limitato (364 km). Tali distanze vanno rapportate a un territorio largo in media 50 km e lungo 300; proibire l’accesso a una strada anche solo per pochi km può significare disconnettere intere aree.” , Petti in AA.VV. 2008, p.
158.
[3] Emblema di quello che Sharon chiamò “la contiguità di trasporto” era il progetto della doppia autostrada separata per Israeliani e Palestinesi in Cisgiordania, dove forse appare meno ideologico il richiamo a una specie di nuova apartheid molto simile a quella sudafricana. Per questo tipo di interpretazione si veda Said 2007 ma anche, più di recente, Yiftachel 2009.
[4] Altri insediamenti di coloni nella città o nei suoi dintorni comprendono Such Rumelda, Beit Hadassah, Avraham Avino, Beit Romano, Givat Ha’avot e Givat Hakharsina.
[5] La straordinaria ricchezza della terminologia ebraica per indicare le diverse tipologie di insediamenti costringerebbe ad assumere maggiore varietà nelle denominazioni; qui si assume che insediamenti e/o colonie solo i nuclei abitativi costituiti all’esterno del confine delimitato dalla Linea Verde del 1949.
[6] Si tratta di una importante ONG Israeliana di azione diretta contro le demolizioni delle case dei Palestinesi per mano dei coloni e supportata da una larga coalizione internazionale.
[7] Said 2000; «Cosa vuol dire? Hai sempre la sensazione di non appartenere. E di fatto non appartieni. Perché non sei veramente di qui e qualcuno dice che il luogo da cui provieni non è tuo, ma suo. Così persino il posto da dove vieni è sempre messo alla prova” , Said 2007.
[8] A questo dispositivo si affianca la TIPH (Temporary International Presence in Hebron, composta da 6 paesi graditi a ANP e Israele: Norvegia, Italia, Danimarca, Svezia, Svizzera e Turchia) nata a seguito degli accordi di Oslo e del massacro della moschea di Ibrahim, sospesa dopo un paio di anni e, poi, ripresa come TIPH2 (dal 1997, dopo Oslo2), che controlla e sorveglia tutta la città e, soprattutto, il confine tra le due aree centrali.
11. Uno specifico progetto di cooperazione internazionale con il nostro Paese prevedeva, non a caso, lo scambio e la collaborazione con il sistema di distretti del Veneto.
[9] Uno specifico progetto di cooperazione internazionale con il nostro Paese prevedeva, non a caso, lo scambio e la collaborazione con il sistema di distretti del Veneto.
[10] Strutture in pietra generalmente di 2 o 3 piani, disposte irregolarmente attorno alla corte interna.
[11] Lascito di un progetto di cooperazione internazionale con l’Università di Pisa è l’ottimo sistema di georeferenziazione dell’intero territorio hebronita custodito all’interno degli uffici della Municipalità del quale però, i pur bravi e collaborativi tecnici non sapevano bene cosa farsene.
[12] Weizman, 2009, p.12: «L’organizzazione spaziale dei Territori Occupati è il risultato non solamente di un ordinato processo di pianificazione e attuazione ma anche, e sempre di più, di un “caos strutturato” nel quale la selettiva – e spesso deliberata – assenza di intervento statale favorisce un processo deregolamentato di espropriazione violenta” .
[13] Non essendoci un piano di riferimento, l’attuale procedura di attribuzione delle licenze per nuova edificazione, ad esempio, si limita all’approvazione del progetto con la sola verifica del regime proprietario e delle caratteristiche edilizie, previa una vaga approvazione da parte dell’autorità archeologica, detentrice del potere di veto secondo l’unica legge esistente in materia di conservazione dei beni monumentali (Legge Giordana del 1966).
[14] Con demos intendiamo “un gruppo di persone unite da un senso di identità comune che perciò riconoscono la legittimità di certe regole e istituzioni e sono disposte a partecipare alle decisioni collettive e a rispettarle”, cfr. http://biennaledemocrazia.acmos.net/doc/biennale09/cittadinanza.pdf.
[15] Yiftachel 2005: They will continue to feed the illusion of possible peace, while buttressing a “politics of suspension,” placing the status of Palestinians in a perpetual state of uncertainty (see Azoulay and Ophir 2005). This state of suspension is actively shaped by Israeli policies, as clearly spelled out by Sharon’s senior advisor, Dov Weisglass: The signi?cance of the disengagement plan is the freezing of the peace process … [we] prevent a discussion on the refugees, the borders and Jerusalem. Effectively, this whole package called the Palestinian state, with all that it entails, has been removed inde?nitely from our agenda. And all this with authority and permission. All with a [US] presidential blessing and the rati?cation of both houses of Congress. (qtd. in Shavit, Benn, and Ettinger 2004).