La ricerca di possibili radici dell’idea della ‘città dei 15 minuti’ suggerisce la ripresa di temi e ricostruzioni già esplorati in passato. La restituzione di alcuni argomenti che oggi sembrano venire di nuovo alla luce è sviluppata con l’auspicio di mostrare come, ancora una volta, la riflessione storica possa fornire spunti utili per un pensiero critico sull’organizzazione degli insediamenti urbani, presenti e futuri.
La proposta di esaminare le radici di un’idea si è rivelata più intrigante di quanto non mi fosse parsa al momento della mia precipitosa accettazione. La ragione sta nel fatto che, anche se tutto mi sembrava (forse per via dell’età) già infinite volte trattato, la ricerca di una possibile via maestra che portasse alla definizione di quell’idea mi ha condotto a riprendere temi e ricostruzioni forse non indegne di essere recuperate (Piccinato 1974, 1979).
Nelle riflessioni e nelle esperienze più recenti compaiono infatti argomenti che sembrano venire di nuovo alla luce: il rapporto fra città e natura, città e agricoltura (di prossimità), città e architettura, città e tempo, città e istruzione. Non vi è chi non veda quanto, sia pure in termini diversi (e più articolati), siano proprio questi i temi che oggi sembrano riprendere attualità e vigore all’interno delle elaborazioni concettuali (e di alcune pratiche) intorno alla ‘città dei 15 minuti’.
Alle origini di ogni proposta utopica, o comunque di contestazione, del presente è l’avversione per la città moderna. Non solo perché luogo di dissipazione di ciò che si produce altrove, come in epoca preindustriale, ma soprattutto perché luogo dove l’individuo si smarrisce in una massa indistinta, perdendo la propria capacità di discernimento e di controllo del proprio agire e dei suoi valori. Della città moderna si critica la dimensione, e soprattutto la continuità inarrestabile della crescita. Il fatto che questa critica venga avanzata in tempi che a noi sembrano oggi poco più che inattaccabili sta solo a dimostrare quanto l’obiezione sia più che mai di tipo ideologico: “I view great cities as pestilential to the morals, the health and the liberties of man” dichiara nel 1800 Thomas Jefferson (White and White 1962: 28). L’utopia urbana è parte integrante della tradizione e, soprattutto, della mitologia urbanistica e della sua storia. Non nasce certo con l’urbanistica moderna, percorre anzi tutta la storia della città, dai primi insediamenti alle teorizzazioni medievali e rinascimentali. Ciò che caratterizza l’epoca moderna, intendendo quella che si sviluppa insieme all’industrializzazione e all’esplosione urbana ottocentesca, è il riferimento costante a una dimensione demografica prima che spaziale, come se al di là di tale misura non fosse pensabile un modello ottimale. Peter Hall, con la sua scrittura brillante (e un po’ supponente) arriva a sostenere che la maggior parte delle ipotesi di rinnovamento urbano del XIX secolo abbiano radici anarchiche (Hall 1988: 11). Ciò naturalmente stride con le intenzioni dei nuovi urbanisti, che si propongono invece di affermare in primo luogo nuove istituzioni; trova però sostegno nelle relazioni anche dirette di molti dei cosiddetti ‘pionieri’ con i movimenti anarchici ufficiali, e nella virulenza delle critiche da loro espresse nei confronti della società borghese e delle sue istituzioni.
Il primo necessario esempio di apparato teorico, che avrà un peso non indifferente, è quello dei fisiocratici (Sauvy 1958). L’analisi del meccanismo di produzione e circolazione della ricchezza fatta da François Quesnay (1694-1774) nel suo Tableau économique (1758), in polemica con le teorie mercantiliste, non solo privilegiava l’agricoltura, ma conteneva suggerimenti e spunti di carattere istituzionale e amministrativo che potevano facilmente risolversi in idee di organizzazione spaziale. La connessione tra teoria del lusso e teoria della città – come luogo dove si esprime il lusso originato dal ‘prodotto netto’ di origine agricola – pone le basi per una riconsiderazione del ruolo della città stessa nel quadro sociale d’insieme.
La coincidenza fra le prime formulazioni del liberismo economico (anche se pre-industriale) e le ipotesi di decentramento decisionale e quindi spaziale verrà colto con ricchezza di argomenti da Thomas Jefferson (1743-1826). La sua polemica contro la grande città europea è rivolta soprattutto agli aspetti di massa della società urbana, dove la proprietà e l’iniziativa individuale – così tipiche della società agraria dell’America del settecento – perdono gran parte del loro potere. Ma alla fine del secolo, la dipendenza dall’industria britannica non sarà più accettabile, e Jefferson è costretto ad ammetterlo (White and White 1962: 29). Così egli accetta e appoggia una politica di limitata urbanizzazione: città di piccole dimensioni, il cui disegno a scacchiera rieccheggia il segno che, attraverso la Land Ordinance del 1785, sarà imposto a tutti i territori di nuova urbanizzazione. L’idea di ‘dimensione conforme’ della città – non abbandonata cioè a un processo di crescita indefinita che ne sancirebbe l’egemonia sul territorio – trova qui la sua prima formulazione. La agrarian democracy di Thomas Jefferson ha le sue basi nella proprietà privata, nella libera iniziativa e nel decentramento del potere. Governo accentrato e grande città sono i nemici degli ideali di semplicità ed eguaglianza che solo i piccoli proprietari e produttori agricoli esprimono compiutamente. Se questo atteggiamento anti-urbano ha le sue radici nella cultura dell’illuminismo francese (che è già cosciente della rivoluzione industriale), esso rimarrà tuttavia una delle costanti dell’anti-urbanesimo americano come traduzione laica e ‘repubblicana’ di un rifiuto della grande città che era fino allora marcato da un’origine religiosa.
Se il liberismo illuminista è, un po’ paradossalmente, all’origine dell’idea di crescita urbana controllata, non c’è dubbio che il nucleo fondamentale delle ipotesi anti-urbane nasca dal diffondersi e dall’approfondirsi della critica ‘politica’ ai diversi aspetti della società capitalistico-industriale. Si tratta di proposte che vengono a costituire una vera e propria tradizione dell’utopia e che – gonfiate e strumentalizzate nella letteratura urbanistica – finiscono per assumere una rilevanza assolutamente sproporzionata al loro effettivo impatto sulla realtà. XVIII e XIX secolo sono particolarmente ricchi di utopie urbane o tali, comunque, da indicare nell’organizzazione spaziale dell’insediamento umano uno dei momenti qualificanti del progetto utopico. Molte di queste proposte sono anzi spiccatamente anti-urbane (è questo generalmente il caso delle comunità religiose del Nord America), altre invece, toccando più da vicino la storia disciplinare,
accettano il fenomeno urbano ma lo vogliono inserire in un nuovo ordine.
È Charles Fourier (1772-1837), agli albori della trasformazione delle città, a spiegarcene, con enciclopedica precisione, le ragioni. Fourier propone una complessa utopia politico-urbanistica per la realizzazione di una società armonica, che punta soprattutto sulla forza dell’immaginazione e del progetto anti-repressivo. Dopo un serie di passaggi intermedi, la Grande Armonia si realizza attraverso la costituzione di gruppi di circa 1.500 persone, detti Falangi, in proporzioni definite di uomini, donne, vecchi, bambini, persone abili e inabili, con redditi variabili. La Falange vive nel Falansterio, un compatto edificio comunitario in cui, oltre agli appartamenti individuali, si trovano un gran numero di ambienti comuni; conta quattro piani ed è circondato da strade-ballatoio vetrate, è ventilato d’estate e riscaldato d’inverno, definito nella forma, nella disposizione degli ambienti e nelle dimensioni (Fourier 1971).
È vero che l’affascinante costruzione di Fourier di un sistema interpretativo e previsivo della storia del ‘movimento sociale’ è in realtà tutta interna a una settecentesca ricerca della felicità. Ciò non toglie che le sue proposte anti-urbane trovino un gran numero di seguaci e diano origine a una straordinaria fioritura di nuove comunità.
L’avvento della macchina, la dimensione non più controllabile dell’impresa di produzione, la sistematica alienazione del lavoro – elementi caratteristici della società industriale – non sembrano dissociabili dall’idea di città. Le nuove proposte non riguardano però città ideali, o letteralmente utopiche al modo dei secoli precedenti: ora, anche per coloro che sono più ampiamente e aspramente critici dei tempi moderni, tutto è possibile. I nuovi insediamenti – e le nuove organizzazioni sociali – non restano sulla carta: nella grande maggioranza dei casi danno origine a esperimenti più o meno duraturi. Gli utopisti partecipano in pieno della fiducia ottocentesca della scienza. Del resto essi “non furono degli utopisti: essi operarono per le cosiddette utopie, ebbero giornali, diressero associazioni operaie rivoluzionarie e di riforma, parteciparono a movimenti intellettuali e politici, furono maestri con molti allievi e diedero vita, in numerosi casi, a vere e proprie scuole; svolsero insomma una gran mole di attività, che rappresentò nel complesso uno dei più importanti filoni teorici del movimento operaio e socialista alle sue origini” (Bravo 1966: 35). Vi si accomuna la decisa condanna del mondo borghese con la ricerca di forme di democrazia diretta e di partecipazione generale ai processi decisionali: la questione condivisa è come garantire all’uomo la ‘libertà di vivere’.
Con Robert Owen (1771-1858), si afferma un nuovo metodo di organizzazione spaziale, destinato ad avere molta fortuna nelle teorizzazioni urbanistiche degli anni a venire. L’ipotesi che Owen elabora, anche in risposta alla grave crisi economica che segue la fine delle guerre napoleoniche, prevede un sistema articolato di insediamenti nel territorio, ossia la costruzione di villaggi di cooperazione autosufficienti e impegnati nello scambio reciproco delle eccedenze. La proposta viene inizialmente avanzata a una commissione parlamentare di indagine, come un programma per migliorare le condizioni dei lavoratori attraverso la riorganizzazione spaziale e funzionale del territorio. Matrice di tale rinnovamento, sperimentato in Scozia a New Lanark, è un insediamento di circa 1.200 persone organizzate in modo da collettivizzare molti aspetti della vita familiare quotidiana. Sono previste scuole, sale di lettura e di preghiera, spazi per la ricreazione e alloggi per il sovrintendente, il sacerdote, il medico e il maestro. L’insediamento deve essere autosufficiente: intorno alle case sono i giardini e, più oltre, i fabbricati rurali, le officine, i campi coltivati. “Poiché la ricchezza di ogni genere sarà prodotta in modo piacevole in quantità superiore a quella richiesta, non si conosceranno prezzi in moneta, e si potrà acquistare la felicità soltanto con una reciprocità di buone azioni e sentimenti gentili” (Owen 1836, ora in Bravo 1966: 210-212).
Moralista rigoroso – e, a New Lanark, opprimente – Owen è però pacifista e libertario: “Nessuno sarà allevato e messo in disparte per attaccare depredare o uccidere i suoi compagni” (ibidem). “Saranno conosciute tutte le imperfezioni del presente sistema generate dalle leggi umane contrastanti con le leggi della natura. La grande degradazione del carattere e le sofferenze che spezzano il cuore provate dai due sessi, ma specialmente dalle donne, saranno eliminate” (Owen 1927: 27). Col passare del tempo, Owen (cui si attribuisce fra l’altro la fondazione delle Trade Unions) precisa implacabilmente le sue idee: contro la proprietà, contro la famiglia, contro tutte le chiese, inimicandosi in questo modo quella buona società che, dall’arcivescovo di Canterbury all’economista Ricardo, l’aveva inizialmente sostenuto.
Le utopie urbane dell’’800, socialiste o religiose, ma sempre a sfondo comunitario e profondamente critiche della realtà industriale, sono numerosissime. Molte hanno trovato temporanea realizzazione, altre, rimaste allo stato di proposte, hanno influenzato tentativi più tardi. Fra il 1859 e il 1870 Jean Baptiste Godin fonderà il Familisterio, esperimento meno radicale ma più realistico (tuttora esistente). Poi si susseguiranno: Icaria di Etienne Cabet, brevemente sperimentata negli Stati Uniti; Victoria di James Buckingham; Hygeia di Benjamin Richardson; Looking Backward di Edward Bellamy; il Christian Commonwealth di John Morgan. Brook Farm (1841-47), esperimento promosso da George Ripley che dopo un periodo iniziale abbracciò in toto le idee fourieriane, è forse la più nota, rifugio di alcuni fra i più brillanti intellettuali del New England, fra cui Nathaniel Hawthorne; ma anche altri, come Ralph Waldo Emerson e Henry David Thoreau, testimoniarono interesse per l’ini-
ziativa, che si concluse dopo pochi anni.
Karl Marx e Friedrich Engels riconoscono la validità della critica anti-borghese degli utopisti, ma denunciano come anti-storico il rifiuto della lotta di classe: le “loro affermazioni positive sopra la società futura, per esempio l’abolizione dei contrasti fra città e campagna, della famiglia, del guadagno privato, della mercede, l’annuncio dell’armonia sociale, il mutamento dello Stato in semplice amministrazione della produzione – tutte queste loro affermazioni esprimono soltanto il cessare dei contrasti di classe, che cominciano appunto allora e che essi conoscono appena rudimentalmente. Queste affermazioni hanno dunque un senso esclusivamente utopistico” (Marx e Engels 1896: 45).
Benché parta da fonti molto diverse, in termini di tempo, di conoscenza, di convinzioni ideologiche, i risultati cui arriva Petr Kropotkin (1842-1921) non sono, sotto il profilo territoriale, molto diversi. L’anarchico russo scrive quasi un secolo più tardi e ha un bagaglio di conoscenze e di capacità scientifiche estremamente aggiornato. Non è più il tempo di mettere in questione l’importanza dello sviluppo industriale, bensì quello di chiedersi se il progresso industriale non sia stato invece usato per fini sostanzialmente repressivi. La divisione del lavoro – tra produttori e consumatori, tra lavoratori manuali e lavoratori intellettuali, tra lavoratori agricoli e lavoratori industriali – è per Kropotkin la base della disumanizzazione e della alienazione dell’individuo nella società moderna. La specializzazione produttiva, degli individui, delle regioni, delle nazioni, ne provoca una deformazione dello sviluppo che è anche origine di insicurezza e angoscia. La perdita di autonomia che consegue a divisione e specializzazione sembra essere un prodotto inevitabile della società industrializzata, ma è in effetti un gigantesco errore legato a interpretazioni riduttive sia dei processi reali che delle esigenze umane. Kropotkin non nega la necessità di una modifica dei rapporti di produzione capitalistici come presupposto dell’integrazione del lavoro, ma mette in chiaro che anche una trasformazione in senso socialista, per avere successo, dovrà affrontare il problema dei modi dello sviluppo. La sola risposta reale consiste nel produrre per uso interno: “ritornare a uno stato di cose in cui il grano venga coltivato, e i prodotti industriali fabbricati, per l’uso di quelli stessi che li producono” (Kropotkin 1975: 49).
Françoise Choay, nell’esaminare le caratteristiche di ciò che lei chiama la pre-urbanistica progressista, nota la dominante presenza degli spazi aperti, deducendone che i vuoti e non i solidi sono la materia che caratterizza quei modelli (Choay 1965: 19). Questo è evidente nella New Lanark di Owen come nel Falansterio di Fourier e poi nelle diverse sperimentazioni socialiste fino agli schemi di Ebenezer Howard (1850-1928). Un’osservazione illuminante, che ci spiega molto del successo, anche mediatico, della città giardino, e delle sue innumerevoli derivazioni: via via dalle New Town britanniche, fino ai suburbs americani.
In realtà Howard non cerca, né sarebbe stata in quell’epoca proponibile, una iniziativa dello Stato. La base era l’idea di una proprietà privata condivisa, a difesa di una possibile speculazione sui suoli o dell’alterazione degli schemi adottati al momento della progettazione; la sostenibilità economica ne costituiva un prerequisito. Howard fornisce diagrammi, non progetti: sono previste unità minime di circa 2.000 abitanti che si organizzano in ‘città’ di 30.000. Le città, circondate da una vasta cintura verde, prevedono la localizzazione di attività agricole e industriali all’esterno, mentre nei centri restano le attività commerciali e di servizio. Si tratta di un’ipotesi di riorganizzazione del ciclo produzione-consumo che mira a un ridisegno territoriale basato sulla autosufficienza economica garantita dalla struttura composita – città, industria e agricoltura – degli insediamenti. Una volta raggiunta la giusta dimensione, le città saranno replicate e collegate da un sistema rapido di trasporto pubblico: questa sorta di città policentrica sarà in effetti l’esito ricercato, un insediamento che riunisce i pregi del vivere in campagna con quelli del vivere in città (Hall 1988: 93).
Certo, l’invenzione del termine città giardino, di per sé semplice ed evocativo, ha avuto un peso non indifferente nella diffusione, se non del modello, almeno di alcuni suoi caratteri non secondari: la misura pedonale, l’abbondanza di verde, la bassa densità. È così potuto accadere che molte imitazioni, sul mercato delle idee ma anche in quello reale, abbiano preso corpo. Con questo termine hanno potuto essere individuati villaggi fondati da imprenditori privati come Port Sunlight delle aziende chimiche Lever, o Bourneville della cioccolata Cadbury, ma anche alcuni quartieri di iniziativa pubblica nella Roma dei primi decenni del XX secolo, oltre a numerosi altri esempi un po’ dovunque in Europa.
L’idea della città giardino ha avuto straordinaria risonanza anche grazie al sostegno ricevuto, sempre negli anni ’20 del secolo scorso, dalla Regional Planning Association of America (RPA), cui partecipavano i nomi più illustri del planning d’oltre oceano: Lewis Mumford, Henry Wright, Clarence Stein, che dichiaravano apertamente la loro discendenza dalle idee europee, fra cui quelle di Patrick Geddes la cui impostazione biologica e organica si apparentava con facilità alla critica della metropoli contemporanea (Mumford 1953). Il tentativo della RPA era di avviare un programma di città giardino, e a questo scopo Howard venne invitato a New York. Ne nacquero, anche qui, due nuove città di iniziativa privata: Radburn nel New Jersey e Columbia nel Maryland. In tali esperienze rilevante è il contributo di Clarence Perry, un urbanista consulente della Russell Sage Foundation, organizzazione con obiettivi assai simili a quelli della RPA. È di Perry la definizione della neighborhood unit (letteralmente, unità di vicinato) e del Radburn layout, che verranno replicati in qualche misura in numerose urbanizzazioni in Europa e negli Stati Uniti: una rigida distinzione dei traffici; una rete pedonale indipendente che si srotola entro un raggio di 400 metri dalla scuola primaria, posta al centro del nucleo con funzioni di centro sociale; abitazioni singole o a schiera con giardino. L’intento è di sviluppare e sostenere uno spirito di comunità, indipendentemente dalla condizione economica degli abitanti.
L’iniziativa costituirà un precedente per la rooseveltiana Resettlement Administration che, a partire dal 1935 realizzerà alcune Greenbelt Towns. Tuttavia l’idea regionalista non poteva vincere e la stessa Tennessee Valley Authority, costituita nel 1933, rimarrà una iniziativa isolata, costretta a richiudersi sempre più entro ristretti schemi produttivistici. Ma se la città giardino ha avuto una vita stentata negli Stati Uniti degli anni ’20 e ’30, godrà invece di uno straordinario rilancio subito dopo la seconda guerra mondiale, in Gran Bretagna e nei Paesi scandinavi. La politica delle New Towns, promossa dal governo laburista di Clement Attlee, solleva i cuori degli avviliti urbanisti. Sulla base del piano di Abercrombie per la Grande Londra si dà il via a una politica di decentramento che dalla capitale si estende a tutte le agglomerazioni maggiori, con la creazione di una rete di nuove città decisamente ispirate ai principi howardiani (Rodwin 1956; Osborn and Whittick 1963). Arrestare la crescita metropolitana attraverso una cintura verde, impiantare città provviste di notevoli capacità occupazionali proprie, garantire la pubblicità dei suoli e la pianificazione dello sviluppo, limitare la dimensione ma favorire la moltiplicazione delle nuove città, sono gli obiettivi dell’urbanistica inglese degli anni ’50, sicuramente unici per ampiezza e articolazione.
Quella che doveva essere la risposta degli urbanisti, tradizionalmente ‘i buoni’ nel grande gioco dell’urbanizzazione, si tradurrà tuttavia, in primis negli Stati Uniti ma poi un po’ ovunque, nella cosiddetta suburbanizzazione. Sostenuta dall’esplosione della mobilità privata e dallo sviluppo dei programmi autostradali, la fuga dalla grande città si risolverà nella costruzione di un numero crescente di suburbs di dimensioni ‘conformi’, che si caratterizzeranno per le procedure di esclusione piuttosto che per la diffusione di uno spirito comunitario. Si daranno così suburbs distinti per origine nazionale, per gruppo etnico, per stili di vita e, soprattutto, per livelli di reddito e quindi di spazi e attrezzature pubbliche e private. Il risultato è una struttura insediativa che della grande città enfatizza i disagi e rafforza le differenze, oltre a spandere degrado ambientale su intere aree geografiche. Tutto ciò si rafforzerà nella città globale fra XX e XXI secolo, ma questo è un altro capitolo.
Bravo G.M. (1966), Il socialismo prima di Marx, Editori Riuniti, Roma.
Choay F. (1965), L’urbanisme utopies et réalités, Editions du Seuil, Paris (tr. it. 1973).
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Hall P. (1988), Cities of Tomorrow, Blackwell, Oxford .
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Marx K., Engels F. (1896), Il Manifesto del Partito Comunista, Critica Sociale, Milano (ed. or. 1848, Manifest der Kommunistischen Partei).
Mumford L. (1953), La cultura delle città, Edizioni di Comunità, Milano (ed. or. 1938).
Osborn F. J., Whittick A. (1963), The New Towns: The Answer to Megalopolis, Leonard Hill, London.
Owen R. (1927), A New View of Society and other writings, Everyman’s Library, London (trad. it. 1971).
Piccinato G. (1974), “L’espansione metropolitana negli Stati Uniti”, in M. Ingrami (a cura di), Fondazione Aldo della Rocca, Studi Urbanistici, Vol. IX Aspetti del problema delle grandi concentrazioni urbane, Giuffrè, Milano, p. 21-92.
Piccinato G. (1979), “La descentralización en la urbanistica moderna: notas para un reesamen de la tradicion disciplinar”, Común, no. 3, p. 1-15.
Rodwin L. (1956), The British New Towns Policy, M.I.T. University Press, Cambridge, Mass.
Sauvy A. (dir.) (1958), François Quesnay et la physiocratie, Colin, Paris.
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