Urbanistica INFORMAZIONI

Ivrea e Olivetti: il futuro di un discorso comunitario?

La rilettura delle idee olivettiane di comunità è indispensabile per soppesare istanze recenti, che richiamano implicitamente ed esplicitamente quella stagione per avvallare nuove salvifiche soluzioni contro le distorsioni e i mali di cui sono affette le città e le società contemporanee. Da non dimenticare è che il progetto di comunità, anche dentro condizioni materiali, sociali ed economiche differenti da quelle del passato, rimane un’utile seppur delicatissima e complessa tessitura tra soggetti, territori e corpi intermedi.

Oltre le retoriche del contemporaneo

Le retoriche del contemporaneo – a cui non si sottraggono molti esercizi accademici riferibili alla ‘letteratura scientifica’ – sono compulsivamente attraversate dalla reiterata adozione di salvifici, quanto innocui, paradigmi rifondativi, indotti da un’arrendevole resistenza alla dittatura del presente su molti aspetti della vita associata (Giunta 2008: 133-139). Lungo la scia di un’attualità pressata dall’euforia mediatica, continuiamo a invocare rivolgimenti catartici individuali e collettivi, accompagnati da drastiche inversioni di tendenza o di comportamento; aspiriamo a radicali colpi di spugna, intorno ai quali si condensano nuovi racconti, differenti concettualizzazioni, rinnovate parole d’ordine, stili di vita e di azione originali, spesso sospinti dall’incontrovertibile affermazione delle nuove tecnologie digitali. In questa incalzante produzione e mobilitazione culturale, idee e ipotesi di lavoro passate, presenti e future subiscono un appiattimento semantico che, spesso, confonde i piani e i livelli del discorso, le convinzioni con le conoscenze, senza generare un reale avanzamento concreto della ricerca disciplinare e delle pratiche conseguenti. Sempre più frequentemente, una conoscenza lenta, ampia e approfondita dei caratteri della contemporaneità è scalzata dalla rapida costruzione di nuovi paradigmi che, proponendosi come blindate retoriche e deterministici progetti di futuro, velocemente si dissolvono, presto abbandonati all’emergere di apparenti nuove istanze.

Sebbene questa condizione assuma ormai un carattere più generale e non esclusivamente disciplinare, sicuramente il dibattito sulle ‘città di domani’ in risposta all’emergenza pandemica – che sempre più si profila quale condizione ordinaria del nostro presente globale – ha presentato e continua a presentare alcuni rischi riferibili a una eccessiva caratterizzazione emotiva e persuasiva del contingente, a un uso disinvolto di concetti, idee e soluzioni che nuove non sono. Soluzioni che spesso vengono da lontano e hanno connotato alcuni precisi momenti storici, caratterizzati da differenti interpretazioni delle relazioni che interessano lo spazio e le società con le loro alterne fortune o fallimenti, e che, prima di essere riproposte o presentate in nuove versioni edulcorate, andrebbero soppesate per verificare se ancora possano costituire suggestioni utili per interpretare il presente e orientare il futuro.

Tra queste, rientra il recente mood della ‘città dei quindici minuti’ o della Ville du quart d’heure (Manzini 2018), che ha rimesso al centro del dibattito politico e disciplinare alcune parole dense quali ‘prossimità’, ‘vicinato’, ‘quartiere’, ‘comunità’. Parole che rimandano a immagini e pratiche disciplinari che hanno animato stagioni passate, ma anche a concetti fondativi che da lungo tempo costituiscono un orizzonte di ricerca teorica-applicativa: quelli relativi all’idea stessa di ‘urbanità’ e di ‘abitabilità’, ossia al rapporto complesso tra la costruzione di un progetto sociale e lo spazio che lo ospiterà; o ancora al welfare urbano, alla costruzione di una giustizia sociale che si afferma riducendo i margini di diseguaglianza, e che per le discipline dello spazio significa essenzialmente mettere a disposizione luoghi e attrezzature per la vita attiva e collettiva.

Non c’è dubbio che gli ultimi due anni di emergenza sanitaria abbiano fatto riscoprire i valori comunitari, mettendo in evidenza quanto le risposte più adeguate alle modalità differenti in cui si è manifestata l’emergenza siano state più efficacemente conseguite a partire dai luoghi di vita e nelle iniziative di solidarietà, più o meno strutturata e organizzata su specifici territori (Censis 2021). A essere rilanciati sono stati così i valori della ‘prossimità’, intesi in forma più stringente come rapporto tra comunità e spazio abitabile, costruito e aperto (Vitillo 2021).

Similmente, in questi tempi caratterizzati dal tentativo di offrire risposte alle crisi sistemiche e alle emergenze (sanitarie, ambientali, climatiche), ravvisiamo la necessità di individuare parametri differenti da quelli che hanno finora dominato le politiche economiche e sociali privilegiando il mercato e la libera concorrenza, per riscoprire modelli e idee alternativi, di matrice riformista (Palermo 2022) o, sempre più spesso, positivamente o negativamente, riferibili al pensiero olivettiano. Un pensiero, quest’ultimo, che nella sua unicità costituisce un riferimento ancora influente, con il quale è necessario confrontarsi – senza cadere nelle facili trappole della mitografia (Olmo 2018) – anche per la sua distintiva e collaborante ‘sensibilità’ alle dimensioni urbanistiche, architettoniche e territoriali. Una sensibilità che torna necessaria nella fase attuale, in cui una rapida e accelerata disponibilità di risorse pubbliche a debito sollecita una nuova attenzione verso politiche di welfare che, nel dare spazi maggiori a scuola, infrastrutture, ricerca, ambiente, innovazione digitale, sembra trascurare l’attenzione per i territori e per le ‘comunità’ a cui tali dotazioni sono destinate. Per questo diviene importante ripercorrere e affrontare le criticità e le diffidenze contro le quali un pensiero che faccia perno sul concetto di comunità è venuto e viene necessariamente a scontrarsi in un mondo globalizzato, dove l’appello è a lasciare via libera allo sviluppo, e il meglio viene a coincidere con il nuovo (o anche solo con il diverso). Riaprire un’analisi critica sull’esperienza olivettiana appare quindi opportuno: per metterne a fuoco gli elementi originali e i contenuti distintivi; per leggerne gli irripetibili fattori specifici di contesto che l’hanno vista costituirsi ed esaurirsi, insieme a quelli che, in una prospettiva differente e aggiornata, possono offrire nuove possibilità alla prospettiva comunitaria dai più invocata.

Il Movimento di Comunità costituì nell’Italia del dopoguerra l’espressione politica delle idee di Adriano Olivetti (Iglieri 2019). Una formazione di ispirazione socialdemocratica, fondata nel 1947 e destinata a divenire un unicum nella storia politica italiana. Nell’accezione democratica e modernizzatrice che caratterizza la proposta olivettiana, tre mi appaiono le condizioni essenziali e interdipendenti su cui far leva per mettere in tensione le condizioni originarie in cui il concetto di comunità ha preso forma con i nodi e i problemi dell’attualità. Proverò di seguito a restituirle in forma sintetica e successivamente a svilupparle in maniera più articolata, anche ricorrendo a testimonianze specifiche di osservatori e protagonisti di quel periodo, o di studiosi che ne stanno ricostruendo le trame intricate.

La prima condizione riguarda l’insopprimibile riferimento fisico-territoriale che sta alla base della ‘comunità concreta’ nell’accezione olivettiana, intesa quale strumento di interpretazione, trasformazione e innovazione della società (Barbieri 2002). Il riferimento è a un territorio reale e non astratto, a una dimensione ‘intermedia’ in cui tessere le relazioni tra le reti sociali e gli spazi di vita: lontana da una articolazione troppo ampia, avvertita distante e debolmente coinvolgente; ma nemmeno cercata in una geografia troppo angusta (il villaggio o il piccolo borgo), ripiegata su fattori rivendicativi, declinata su contesti circoscritti, o legata a fattori occasionali e funzionali (come quelli a cui allude il più recente attivismo tattico).

La seconda condizione riguarda la solidità del ‘capitale sociale’ e la capacità di autoriproduzione che la comunità riesce ad assicurare localmente e dentro le reti globali. Sotto questo profilo la vicenda della ‘Olivetti di Adriano’ rischia di tradursi in un esperimento unico e irripetibile per il ruolo economico che ha svolto nel sostenere il progetto di Comunità, se non la si inquadra nella prospettiva plurale di un’impresa materiale condivisa – di una socialità e di un’economia centrate sulla persona e non sull’individuo – che stava alla base del pensiero comunitario stesso (Olivetti 1960). Un pensiero che valorizzava la responsabilità, obbligando la proprietà dei mezzi di produzione a riconoscersi come componente di un gruppo sociale e di uno specifico territorio abitato di cui prendersi cura. Una prospettiva che sollecitava l’impegno concreto verso un approccio ambientalista ed ecologista responsabile, che l’idea olivettiana includeva chiaramente.

La terza condizione riguarda l’importanza assegnata ai soggetti e ai corpi intermedi nell’accompagnare la costruzione degli aspetti principali della vita associata e, soprattutto, del welfare comunitario. L’idea che il progetto sia l’esito non di un modello rigido e imposto, ma di una continua e democratica negoziazione inclusiva e innovatrice tra l’individuo, inteso come persona, e la comunità, da conseguire attraverso l’accompagnamento dei processi di innovazione offerti dalle strutture intermedie di cui la comunità si dota, costituisce forse l’elemento più significativo di quella utopia concreta alla cui realizzazione Adriano Olivetti si adoperò negli anni, con uno spirito di adattamento e aggiustamento continuo, tra sperimentazione ed esiti conseguiti.

Comunità e democrazia nel pensiero politico di Adriano Olivetti

Nel pensiero poliedrico di Adriano Olivetti convergono e si fondono esperienze e filoni di varia provenienza, il cui centro di gravitazione è essenzialmente costituito dalla ‘Comunità’, dalla sua potenziale affermazione e sviluppo in una società industriale e post-contadina, antropologicamente sradicata e alienata. In Olivetti, l’intuizione politica della comunità non rimane prigioniera all’interno di un’accezione romantica, né dentro una postura arcadica e premoderna. Ambisce, piuttosto, a confrontarsi con la società e l’economia capitalista, nella convinzione che il capitalismo si risolva non solo nel profitto e nel progresso tecnico, bensì nell’armonia e nel benessere delle parti vitali della società.

La Comunità non è un’entità astratta, ma si costituisce come una realtà amministrativa definita territorialmente, svolgendo il ruolo di tramite e convergenza tra lo Stato e l’individuo. Questo pensiero richiama le idee di Carlo Cattaneo e la tradizione federalistica laica (Ferrarotti 2001). Corrisponde a quell’ambiente naturale e sociale all’interno del quale si sviluppano le attività umane, riferibile unitariamente e fisicamente a uno specifico territorio (Di Biagi 2001: 153-155). Queste porzioni di territorio avrebbero dovuto costituire le circoscrizioni elettorali di un sistema uninominale e, al contempo, riferimento di governo di un nuovo ente locale, che Adriano Olivetti chiamava appunto Comunità (Olivetti 1945). Tale ente avrebbe dovuto garantire l’efficacia e l’efficienza dell’azione pubblica, attraverso una compiuta partecipazione democratica a livello locale.

L’idea di comunità ha influenzato pertanto sia le scelte industriali, sia quelle del welfare materiale in termini di servizi e attrezzature collettive, come anche quelle architettoniche e urbanistiche che hanno seguito lo sviluppo dell’azienda. “La fabbrica chiede molto ai suoi dipendenti e quindi ha il dovere di restituire molto”, diceva Adriano Olivetti (Renzi 2008).

Ricorderà Ferrarotti: “Volevamo fare le riforme non predicandole astrattamente come facevano i partiti politici di massa, i sindacati all’epoca della guerra fredda, ma studiare la tecnica delle riforme. Non basta parlare di riforme, bisogna sapere, da buoni tecnici, come applicarle e badare anche agli effetti che avranno queste riforme” (Ferrarotti 2001: 44). La prospettiva riformista praticata non era quella di una ‘democrazia diretta’ bensì la costruzione di una Democrazia senza partiti, titolo del libro che Olivetti pubblicherà nel 1949 per le Edizioni di Comunità (Olivetti 2013).

La Comunità, Ivrea e il Canavese

Banco di prova del pensiero comunitario è stato ovviamente il Canavese, territorio protagonista della nascita, nel corso degli anni ’50, di quelle imprescindibili articolazioni funzionali su cui la Comunità doveva strutturarsi. Ferrarotti ricorda: “L’idea di comunità concreta veniva ad Adriano Olivetti dal fatto stesso della conformazione geofisica del Canavese, quel pugno di comuni all’ingresso della Valle d’Aosta. Più che calcolo puramente teorico era una realtà vissuta” (Ferrarotti 2001: 50).

Ivrea e il Canavese costituivano, quindi, l’ambiente ideale per sperimentare il riformismo comunitario e il suo assetto amministrativo. Come annota Guido Piovene nel suo reportage degli anni ’50, “la ‘comunità’ pensata da Adriano Olivetti (che non è un’idea libresca, ma incorporata in un’industria fiorente) è diversa dalla ‘regione’; e tuttavia raccoglie molti stimoli sentimentali ed anche religiosi del regionalismo, almeno come si configura nel Nord. Tecnicismo industriale (però in funzione redentrice), motivi socialisti, sindacali e cristiani” (Piovene 2017: 199).

E ancora, nei ricordi di Ferrarotti: “da quella piccola fabbrica in mattoni nasceva, con grande rispetto dell’ambiente e della comunità originaria, una grande società multinazionale presente su tutti i mercati del mondo. E di fronte, naturalmente, c’erano i servizi sociali, come gli asili, all’avanguardia perché erano servizi sociali efficienti, ma non paternalistici. Non si sentiva mai la mano benefica né l’ombra del padrone. Il padrone non c’era. C’era questa grande realtà tecnica che diventava anche, ed era allo stesso tempo, una realtà umana. C’erano le case degli operai, degli impiegati. Non era l’operaio immigrato dal centro-sud: era un operaio contadino, che manteneva il legame con il proprio campicello e che quindi il week-end lo passava non ai mari o ai monti, non fuggiva dalla sua comunità ma tornava ai suoi campi. Restava contadino, agricoltore, piccolo proprietario” (Ferrarotti 2001: 47-48).

La città industriale eporediese tra gli anni ’30 e ’60 del ’900 crebbe attorno alla fabbrica secondo l’idea che i servizi sociali si dovessero frapporre alla fabbrica stessa per permettere la contaminazione di tempo libero e lavoro, in stretto rapporto con il territorio circostante. Il pensiero comunitario, con la persona al centro e il suo radicamento territoriale, coinvolse generazioni di architetti nella riorganizzazione spaziale di Ivrea attorno all’industria, lasciando testimonianza di alcune tra le più importanti realizzazioni del modernismo e razionalismo italiano: quartieri come Canton Vesco, Castellamonte, Bellavista, ma anche di interventi più diffusi a Canton Vigna, La Sacca e al Crist (Campos Venuti 2002; Irace 2001).

La Comunità e il welfare materiale a Ivrea e nel Canavese

L’esperimento olivettiano a Ivrea e nel Canavese attraversa differenti epoche e momenti culturali, dispiegandosi senza la precisa volontà di conseguire un disegno rigido e unitario prefigurato, bensì modellandosi continuamente per mettere in pratica un processo concreto di trasformazione territoriale della società, basato su nuovi valori democratici (Scrivano 2001; Bonifazio 2018; Olmo 2018). Un processo che copre un arco temporale che va dalle prime ipotesi di ampliamento delle officine Olivetti (1934); si precisa attraverso gli studi per il Piano regolatore della Valle d’Aosta (Ciucci 2001); segue le articolate vicende urbanistiche in cui si intrecciano le politiche di sviluppo aziendale, le dinamiche di crescita della città e dei suoi quartieri moderni, almeno fino all’approvazione del primo Piano regolatore di Ivrea (1959), avvenuta un anno prima della prematura scomparsa di Adriano nel 1960.

Nel 1958, anno di approvazione del Piano di Ivrea e di massima fioritura del Movimento di Comunità, sui 118 comuni del Canavese erano distribuiti 72 centri comunitari, il cui cuore era rappresentato dal ricco sistema delle biblioteche. La loro funzione era plurima e nei relativi spazi erano organizzate conferenze, mostre, corsi e altre attività utili allo sviluppo professionale e culturale della popolazione.

Ivrea ha rappresentato in quegli anni il tentativo di costruire le strutture essenziali di una ‘comunità concreta’ nel Canavese, attorno alle fabbriche di Ivrea, attraverso riforme strutturali territoriali e funzionali, controllabili e flessibili, tanto da poter essere continuamente analizzate e corrette riguardo ai loro effetti sulle persone. La costruzione della Comunità si manteneva così ‘aperta e dialogica’, attraverso un’articolata offerta di ‘corpi intermedi’ e di ‘luoghi fulcro’, che consentivano non solo l’offerta materiale di un servizio o di una residenza, ma divenivano il presupposto per una crescita culturale e conoscitiva, personale e comunitaria. Tale era la concezione sociale dell’innovazione nella costruzione del welfare olivettiano, assicurata, per esempio, dal complesso rapporto che si determinava tra il sostegno che l’impresa offriva e la partecipazione dell’utente al progetto del proprio spazio di vita. Un rapporto che si può riscontrare nelle vicende ideative e realizzative di molti luoghi e centri del welfare: dalla mensa di Gardella, all’asilo di Ridolfi; dai servizi sociali, all’asilo di Figini e Pollini; dai quartieri pianificati, ai diffusi programmi residenziali avviati dall’Ufficio consulenza case dipendenti Olivetti diretto da Emilio Tarpino. “Nessun architetto […] poteva pensare di trasferire la sua progettazione a Ivrea senza entrare nel complesso processo negoziale che Olivetti aveva voluto e che appare la vera garanzia di una qualità diffusa” (Olmo 2018: 97). Una qualità che scaturisce non solo dalla fornitura concreta dei servizi (che rappresentavano comunque un unicum per le città italiane dell’epoca), ma dalla natura stessa del processo partecipativo e dall’attività dei corpi intermedi nella definizione del progetto della città moderna, dei servizi sociali e delle attrezzature territoriali, dei nuovi quartieri e delle realizzazioni residenziali diffuse, promosse e sostenute dall’azienda. In particolare, la pianificazione a livello della comunità teorizzata da Olivetti permane attraverso il ruolo giocato dai corpi intermedi, fondamentalmente compatibile con la libertà delle persone e dei gruppi direttamente coinvolti nel processo di trasformazione sociale: questi ultimi non sono infatti intesi come beneficiari passivi; a essi è richiesta una partecipazione attiva, costante e vincolante. La rivitalizzazione dell’iniziativa dal basso diventa la condizione essenziale per lo sviluppo della Comunità e per la pianificazione comunitaria.

Parallelamente, l’organizzazione e la gestione dei servizi sociali nell’ambito delle politiche culturali e di welfare dell’azienda svolgono un ruolo determinante, vedendo nella fabbrica il centro delle relazioni umane e il motore della comunità stessa (Olmo 2001). Per tutti gli anni ’50 e oltre, l’impegno politico e sociale della Olivetti verso il suo bacino di influenza territoriale rimane costante, con la realizzazione di attrezzature, non necessariamente né strettamente collegate alle attività produttive, e realizzate non solo lungo il decumano olivettiano, via Jervis, ma soprattutto nei nuovi quartieri in formazione. Un esempio anticipatore riguarda i quartieri decentrati di Canton Vesco, oggetto di un piano particolareggiato di Ludovico Quaroni, e di Bellavista, che conosceranno a partire dal 1954 un gran numero di progetti, in cui esercizi di densificazione urbana e di integrazione di servizi sociali provano a tradurre il modello delle neighbourhood units, attraverso nuove declinazioni in cui trovano risposta e mediazione specifiche domande ed esigenze locali (Caniglia Rispoli e Signorelli 2001).

La comunità nella complessità della condizione contemporanea

Può essere ancora fertile riferirsi all’idea di comunità olivettiana cercando nella differente situazione contemporanea le condizioni per una sua concreta e aggiornata interpretazione, senza semplificarne il pensiero e il percorso per conseguirla? A questa prospettiva sembrano sempre più orientarsi recenti pratiche urbanistiche di contrasto alle fragilità territoriali e di rigenerazione urbana, in cui la ricucitura del tessuto sociale e la ricostruzione di comunità sembrano essere i presupposti per conseguire soluzioni resilienti e innovative sotto il profilo sociale.

La tendenza attuale riferibile ad alcune posizioni diffuse e penetranti del social design al lavoro su scenari di prossimità urbana e di ‘città dei quindici minuti’ appaiono ormai convinte che una comunità non si possa progettare in quanto forma sociale che emerge da una molteplicità di eventi, ma che si possa, invece, creare un ambiente adatto entro cui essa si formi e progredisca. E l’ambiente più adatto al suo accrescimento e sviluppo sembra essere quello di una ‘appropriata prossimità’, che prima di essere funzionale deve essere relazionale, ossia capace di generare socialità (Manzini 2021). Si tratta di un modello che predilige comunità leggere, aperte, effimere e costruite intenzionalmente, per scelta, intorno a un progetto aggregante, che ne costituisce l’innesco. Quando tale progetto riguarda qualche forma di interesse e di cura per lo spazio, le ‘comunità di luogo’ sono definite come una costellazione di comunità creative, di piccoli gruppi di persone attive, portatrici non solo di bisogni, ma di capacità progettuale (di fare e trasformare). Simili comunità necessariamente esercitano la loro influenza su ambiti ristretti della vita contemporanea, quali le social streets o i social districts: entità fisicamente molto circoscritte, microscopiche, che come gli enzimi sono ritenute in grado di attivare processi di scala maggiore.

Mi sembra di cogliere in queste istanze la consapevolezza che tali forme sociali possano essere generate spontaneamente dall’azione congiunta (conflittuale o collaborativa) di diversi attori; esse non possono quindi essere prefigurate, né se ne possono conoscere o predeterminare gli esiti finali in quanto apporti a un più generale processo generativo. Tali considerazioni, come ho cercato di illustrare precedentemente, non sono lontane dal concetto di comunità ereditato dal pensiero olivettiano; dal suo fare riferimento a un processo di costruzione aperto, da monitorare e correggere nel suo farsi, lontano dalle critiche e da logiche di rigida ingegneria sociale che spesso gli vengono attribuite.

La differenza sostanziale riguarda tuttavia i valori fondativi democratici, sociali e ambientali intorno ai quali si costituiscono le comunità e si misura la capacità di resilienza e di durata delle relazioni che le strutturano, e che nelle ipotesi più recenti sembrano essere inessenziali. Se leggere sono le comunità, ancora più effimere appaiono infatti le loro morfologie e i loro legami unificanti, soprattutto se ancorati a progetti o a contesti limitati e molto circoscritti. Ma forse più labile ancora risulta la loro capacità di incidere su processi densi e profondi che, andando oltre le tendenze, le mode e gli stili continuamente cangianti della vita contemporanea, riescano a fare emergere effettivamente anche solo frammenti di innovazione sociale o concrete “tracce di comunità” (Bagnasco 1999).

Se la riscoperta di un’attualità della proposta comunitaria fa intravedere un’alternativa per una società che si costruisce tra Stato e Mercato (due ossessioni moderne entrate in crisi nel mondo globale dell’economia dei flussi, delle crisi sistemiche globali e dell’emergenza sanitaria), forse quella ‘eresia moderata olivettiana’ può ancora dare senso a due parole maledette lungo tutto il ’900: comunità e persona. Come sottolinea Aldo Bonomi, “Impiegare di nuovo il concetto forte di comunità è oggi per me un tentativo di andare oltre le categorie fondative della sociologia classica per le quali il concetto di comunità rimanda a una visione organica delle relazioni sociali presenti in una determinata realtà, fondata sulla reciproca comprensione dei membri e sulla comune appartenenza, soggettivamente sentita dagli individui” (Bonomi 2002). Significa, più opportunamente, tessere reti tra soggetti e territori nelle economie post-fordiste globalizzate, ridando senso e significato al luogo e soprattutto al territorio, riscoprendo una dimensione umana diversa da quella troppo grande dei flussi o da quella troppo piccola dei ‘localismi rivendicativi’. In questa prospettiva, il capitale sociale perde la sua valenza competitiva e diventa valore di legame, bene relazionale riproducibile attraverso l’uso, laddove le capacità di evoluzione, resilienza e durata delle istanze di comunità sono consegnate in forma aperta e riflessiva a nuovi soggetti intermedi. Soggetti che tornino a svolgere una funzione di cerniera fra società e istituzioni, tra luoghi del vivere e del produrre e luoghi della decisione, tra territorio e governo dello Stato.

Le foto sono state realizzate da Paolo Mazzo e sono tratte dalla mostra Abitare a Bellavista. Un quartiere Olivetti, realizzata in collaborazione con l’Associazione Archivio Storico Olivetti

Riferimenti

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Data di pubblicazione: 16 aprile 2023