L’entusiasmo con cui alcune metropoli hanno promosso e accolto l’idea della ‘città dei 15 minuti’ può oggi rappresentare un’utile occasione per riflettere nuovamente sulle note relazioni tra pianificazione urbanistica e pianificazione della mobilità, con particolare attenzione ai modi secondo i quali i saperi collegati alle tecniche applicate alla città affrontano i temi della pedonalità e della prossimità in ambito urbano.
La costruzione della città fisica si è tradizionalmente fondata sulla necessità di risolvere due problemi elementari del vivere comunitario: reperire superfici (coperte o scoperte) per le diverse funzioni sociali (abitativa, produttiva, commerciale, tecnologica, a servizio, a verde, ecc.); attrezzare lo spazio per connettere tra loro le attività svolte in quegli stessi ambiti funzionali. Nel corso del tempo sono state messe a punto tecniche sofisticate per rendere agevoli ed efficienti gli spostamenti all’interno di uno spazio urbano in continua dilatazione, sede di movimento di un numero sempre maggiore di cittadini verso altrettanto numerose destinazioni potenziali. E questo con la pressante esigenza di accorciare il più possibile i tempi di percorrenza.
Il radicale confinamento spaziale introdotto dall’emergenza sanitaria conseguente alla recente pandemia ha, viceversa, reso nuovamente attuale un concetto di prossimità legato ai tempi di vita individuali, secondo spostamenti ‘lenti’ in un intorno urbano molto più limitato rispetto alle consuetudini acquisite nel lungo periodo. Non sorprende, quindi, il velocissimo attecchimento, l’entusiasmo mediatico e l’ampia diffusione di quanto Anne Hidalgo, sindaco di Parigi, ha inserito nel programma proposto nel gennaio del 2020 per la campagna elettorale di rielezione: l’idea di una Parigi come Ville du quart d’heure. Il successo immediato di questa iniziativa ha contribuito alla conferma di Anne Hidalgo a sindaco e, di nostro maggiore interesse, ha ispirato le politiche e le strategie per affrontare l’emergenza che le città si sono trovate ad affrontare nei mesi successivi. Al riguardo si possono certamente menzionare la strategia di adattamento messa a punto dalla città di Milano nel 2020 e il relativo progetto di azioni e strumenti per la ciclabilità e la pedonalità Strade Aperte (Comune di Milano 2020), nel quale è fatto specifico riferimento al quartiere ‘con tutto a 15 minuti’, la cui attuazione peraltro si basa su una rete di ambiti a vocazione pedonale già in precedenza individuati dal Piano di governo del territorio (Pgt) Milano 2030 (Comune di Milano 2019). Ma alcuni riferimenti rilevanti possono essere recuperati ancor prima nel tempo: tra questi, sicuramente, il Piano di Melbourne 2017-2050, che è stato promosso sull’analogo principio dei 20-minutes neighbourhoods, quartieri focalizzati sulla qualità della vita di prossimità dove si mirava alla realizzazione di comunità inclusive, vivaci e sane (Victoria State Government 2017). Tale principio si sostanziava nell’obiettivo di soddisfare la maggior parte delle necessità quotidiane entro 20 minuti a piedi da casa, in un raggio di 800 metri, promuovendo contestualmente anche il trasporto pubblico e la ciclabilità (Fig. 1).
Successivamente, come spesso capita, agli entusiasmi iniziali è seguita una riflessione dei ‘saperi esperti’ sulle possibili conseguenze di un approccio ‘riduttivo’ alla programmazione e gestione delle città fondato in maniera così esclusiva sul tema dei 15 minuti. E cioè sulla opportunità di accettare come plausibile l’ipotesi che, risolvendo i problemi di accessibilità mediante una riorganizzazione delle reti dei servizi urbani e delle reti di mobilità lenta a essi afferenti, si possa davvero costruire uno scenario complessivo di innovazione per la trasformazione della città contemporanea. Ma anche sul fatto che questa fosse un’idea davvero nuova, per la quale ipotizzare metodi e tecniche oggi non disponibili. La questione obbligherebbe a trattazioni di ampio respiro, che rimanderebbero addirittura a temi fondativi della pianificazione urbanistica, tra ‘generalità’ e ‘settorialità’ degli obiettivi e contenuti degli strumenti di pianificazione, con i loro differenti punti di forza e debolezza. In questa sede, più modestamente, vorremmo invece richiamare alcune prospettive di lavoro, esito di percorsi di ricerca che nello scenario italiano hanno da tempo posto al centro dell’operare nelle città la questione dell’accessibilità degli utenti più vulnerabili e, di conseguenza, l’esigenza di ridefinire politiche e strumenti di rigenerazione della città consolidata mediante il recupero di modalità antiche di muoversi ‘lentamente’ nelle città e di una rinnovata attenzione per la prossimità urbana.
Con specifico riferimento alla necessità di introdurre il concetto della città dei 15 minuti occorre, quindi, ribadire come essa tratti in realtà temi e principi che appartengono ad alcuni riferimenti fondamentali della tecnica e della pianificazione urbanistica (Fig. 2).
Nello scenario internazionale, i riferimenti riconosciuti sono ormai consolidati e condivisi: tutti ricordano, tra le altre, le prime definizioni dell’unità di quartiere così come teorizzata da Perry (1929) e, in tempi più recenti, gli studi della Urban Task Force (1999) coordinata da Lord Rogers, nonché gli assunti del movimento del New Urbanism (Katz 1993; Congress for the New Urbanism and Talen 2013). Ma anche nel nostro paese questi studi sono di lungo periodo. Tra i più rilevanti ci si può riferire a quelli sull’“organica urbanistica” di Vincenzo Columbo (1966), poi ripresi e attualizzati dal CeSCAM (Centro Studi Città Amica per la sicurezza nella Mobilità) dell’Università degli Studi di Brescia che, appoggiandosi sugli esiti della conferenza internazionale Living and Walking in Cities giunta nel 2021 alla venticinquesima edizione, coniuga i temi della mobilità con quelli della pianificazione urbanistica e della qualità della vita nelle aree urbane (si vedano, tra i più recenti: Tira e Pezzagno 2018; Tira et al. 2020).
Si può allora richiamare l’eredità culturale di quella visione, che cercava di trovare una coerenza spaziale per l’ipotizzata organizzazione sociale della comunità urbana in divenire. La tradizionale articolazione mediante le unità urbanistiche elementari rappresentate da vicinati, quartieri e comunità era configurata secondo una variabile temporale dell’accessibilità propria degli spostamenti quotidiani (Busi 2011). Il vicinato costituiva quella cellula di città che includeva l’abitazione e le attrezzature fondamentali, quali i negozi di prima necessità, la scuola dell’infanzia, il verde pubblico capillare, ai quali si sarebbe dovuto accedere in cinque minuti a piedi. Nel quartiere, composto da uno o più vicinati, aveva invece luogo la vita sociale della collettività, resa possibile da un insieme di funzioni, complementari a quelle del vicinato stesso. Il quartiere si caratterizzava per la presenza di scuole primarie e secondarie, attività commerciali, servizi socio-assistenziali e sanitari di base. Le funzioni e i servizi presenti nel quartiere erano di livello superiore rispetto a quelli del vicinato, ma a essi si sarebbe dovuto comunque accedere in tempi dell’ordine dei 15 minuti a piedi (ecco i ricorsi storici). Ed è infine soltanto nella comunità, la terza delle unità urbanistiche elementari, che si assisteva alla piena considerazione della complessità delle relazioni e dei modi di spostamento, con la compresenza di mezzi e funzioni produttive.
La nitidezza e, per certi versi, l’approccio dichiaratamente metodico della visione di allora non sono stati suffragati dall’evoluzione reale delle città italiane nel secondo dopoguerra. Nell’attualità è così frequente osservare ambiti urbani caratterizzati da una scarsa differenziazione nelle proprie funzioni e reti per la mobilità, con elementi di polarizzazione – solitamente le attività di servizio – non sempre coerenti con l’organizzazione spaziale dei tessuti insediativi. Ciononostante, ancora recentemente Maurizio Tira (2011) riteneva che, sebbene in alcuni punti ormai datata, la visione organica dell’urbanistica avrebbe potuto rappresentare un punto di ripartenza sul quale ragionare in un’ottica di integrazione tra urbanistica e mobilità, andando a riaffermare una visione della pianificazione in grado di riportare al centro dell’attenzione il movimento pedonale.
Preso atto della forza propulsiva dello ‘slogan’ della città dei 15 minuti e delle riflessioni di lungo periodo che ne permettono una migliore contestualizzazione disciplinare, appare comunque opportuno interrogarsi su quale possa essere il ruolo della prossimità nei contenuti tecnici delle pratiche urbanistiche contemporanee. La città dei 15 minuti prevede che ciascun individuo possa dare soddisfazione alla maggior parte, se non a tutte, le sue necessità quotidiane muovendosi lungo un breve tragitto dalla propria abitazione a piedi o, al più, estendendo questa possibilità anche al movimento in bicicletta. Assumendo questa prospettiva, occorrerebbe riordinare le priorità d’uso della città secondo un modello in grado di dare nuovamente priorità ai modi di spostamento propri della mobilità dolce, opportunamente integrata con le linee del trasporto pubblico per l’accessibilità alle scale spaziali delle città di maggiori dimensioni.
Per raggiungere questo obiettivo si può operare sul miglioramento delle percorribilità delle infrastrutture disponibili, che è probabilmente l’azione prevalente, se non unica, messa in atto nelle applicazioni della città dei 15 minuti, anche mediante soluzioni della cosiddetta ‘urbanistica tattica’. Oppure è possibile agire sulla riorganizzazione dell’offerta spaziale delle possibili destinazioni, per consentire e incentivare il movimento pedonale (e ciclabile). Quest’ultima modalità appare, ovviamente, molto più complicata da mettere in pratica. Una prima riflessione, pur speditiva, sul caso italiano porta ad affermare che su questi aspetti appaia ancora necessario un pieno trasferimento di soluzioni e competenze dall’attività di ricerca alla prassi.
La ricerca su come creare ambiti urbani a misura di pedone e progettare correttamente le infrastrutture pedonali, seppur densa e articolata e non sempre pensata per essere divulgata in ambito amministrativo e professionale, è consolidata e può disporre di approfondimenti su tutti gli specifici aspetti del movimento pedonale, come la praticabilità, la sicurezza stradale e l’attrattività della rete nel suo complesso (tra gli altri, Forsyth 2015). Sotto il profilo teorico e metodologico, sia le caratteristiche delle infrastrutture per la mobilità sia i criteri di localizzazione delle destinazioni potenziali che concorrono alla realizzazione della città dei 15 minuti sono ampiamente trattati negli studi sull’accessibilità urbana (Rossetti e Zazzi 2019).
Dal punto di vista applicativo, una delle prime questioni che occorre affrontare riguarda però la possibilità di ‘misurare’ quanto un ambito urbano sia strutturato per supportare il modello dei 15 minuti e valutare se un quartiere, ossia una porzione di città con tratti di riconoscibilità per la sua organizzazione morfologica e sociale, sia effettivamente accessibile in 15 minuti sulla base della distribuzione della popolazione, della localizzazione delle attività desiderate, della qualità delle reti pedonali e della conformazione del tessuto urbano. In sostanza, appare evidente l’esigenza di una precisazione degli strumenti tecnici mediante i quali affrontare lo studio integrato delle caratteristiche fisiche delle aree urbane. Anche in questo caso la nostra disciplina ha costruito nel tempo solide tecniche di analisi e valutazione, improntate a obiettivi di corretta distribuzione delle funzioni e dotazioni di servizi, con differenti livelli di accessibilità e raggi d’azione ottimali. Altri approfondimenti riguardano gli studi sui principi di forma e di localizzazione che privilegino una giusta misura di mix funzionale e compattezza, nonché di decentralizzazione e capillarità di quelle attività di valenza non territoriale tradizionalmente individuate nelle categorie dei servizi di vicinato e di quartiere (Cervero and Kockelman 1997; Williams 2005; Dovey and Pafka 2017; Bibri et al. 2020).
Ugualmente, il tema delle analisi sulle caratteristiche di pedonalità di un quartiere, o più in generale di un ambito urbano, può fare riferimento a studi ormai consolidati che permettono analisi, anche molto sofisticate, dei livelli di walkability (Fig. 3). In letteratura sono disponibili diversi indici e misure di walkability, generalmente basati su caratteristiche della forma urbana come la densità, il mix di uso del suolo, la connettività stradale che, nello spirito della città dei 15 minuti, devono essere integrati con i dati relativi alla distribuzione della popolazione, alla localizzazione dei servizi, delle attività e degli spazi aperti, alle esigenze quotidiane che condizionano il comportamento di parte della popolazione (Conticelli et al. 2018; Garau et al. 2020; Caselli et al. 2021).
Queste analisi sono principalmente basate su valutazioni fatte attraverso applicazioni GIS e strumenti di geoprocessing che elaborano diversi set di dati, permettendo di misurare e valutare le condizioni spaziali di percorribilità della rete pedonale. Le principali applicazioni considerano vari indici, quali appunto connettività, sicurezza, comfort, accessibilità e convenienza, che rendono evidente come la walkability possa esse meglio descritta usando un insieme composito di indicatori (Maghelal and Cara 2011). Attraverso tali tecniche di analisi che, come detto, si basano principalmente sull’acquisizione di strati informativi relativi alla distribuzione della popolazione nello spazio e alla localizzazione delle attività desiderate, è possibile individuare le isocrone realizzate sul grafo pedonale o formulare le misure di accessibilità e, conseguentemente, valutare, seppur in maniera teorica, il grado di soddisfacimento delle potenziali esigenze della popolazione insediata (Balletto et al. 2021; Gaglione et al. 2021) (Fig. 4). Una questione che rimane controversa nelle ipotesi disponibili per la città dei 15 minuti riguarda la considerazione di quale debba essere l’insieme complessivo delle attività, dei servizi e delle attrezzature che costituiscono destinazione atta a soddisfare l’obiettivo temporale di accessibilità. Appare, infatti, poco realistico pensare che tutti i quartieri di una città possano ospitare una dotazione completa di tutti i livelli gerarchici di attrezzature e servizi di utilità per un generico cittadino. Si pone, quindi, la questione di chi debba essere eventualmente privilegiato nella programmazione delle azioni finalizzate all’attuazione della città dei 15 minuti.
L’ipotesi prevalente potrebbe essere quella di considerare, come tradizionalmente fatto, servizi e funzioni che coniughino le giuste esigenze di soddisfacimento di bisogni essenziali, oltre ad altri servizi e attrezzature ad accesso quotidiano o frequente: le scuole primarie, il commercio di prossimità, esercizi pubblici quali bar e simili. Se questo approccio può sicuramente essere considerato una prima accettabile approssimazione verso l’obiettivo dell’accessibilità a 15 minuti (se non meno), sarebbe comunque opportuno approfondire i modi d’uso della città in rapporto alle condizioni poste dall’organizzazione dei tempi di vita e lavoro contemporanei. Se si ha infatti sicura percezione di abitudini molto più articolate di quelle in atto nel recente passato, sono ancora carenti le ricerche specifiche e le simulazioni relative ai possibili interventi di rilocalizzazione o nuovo insediamento delle attività urbane sulla base di analisi relative agli spostamenti ricorrenti.
In sostanza, occorrerebbe dedicare maggiore attenzione al concetto di uso quotidiano e alla quantificazione della popolazione necessaria per assicurare una frequenza complessivamente assidua dello spazio urbano – e quindi una maggiore attrattività – pur con cadenza più rarefatta da parte del singolo cittadino.
Queste brevi note portano a una conclusione che può apparire in parte ovvia, ma che riteniamo opportuno sottolineare. I processi preparatori per la realizzazione di una città dei 15 minuti non possono eludere le questioni poste dalla tradizionale pianificazione della destinazione d’uso delle varie componenti della città, dalla programmazione delle attrezzature di interesse collettivo e dalla pianificazione dei trasporti e delle reti della mobilità dolce.
Tali processi devono basarsi su una attenta organizzazione funzionale delle attività urbane e su corretti criteri di localizzazione dei servizi, cercando di ri-attualizzare i concetti di unità urbanistica di vicinato e di quartiere. In questo quadro programmatico, le attrezzature che costituiscono servizi con caratteristiche di prossimità (tradizionalmente individuati nelle categorie dei servizi di vicinato e di quartiere) possono diventare le strutture alle quali affidare il compito di ricostituire una trama di centralità diffuse nell’ambito del continuum costruito, in rapporto alle sue varie densità insediative e di popolazione (Zazzi 2006).
Si tratterebbe, comunque, di processi di decentralizzazione non semplici da realizzare, benché costituiscano, come evidenziato anche dalle recenti linee guida prodotte da C40 cities (2021), uno dei mezzi privilegiati attraverso il quale perseguire una rigenerazione che assicuri quartieri vitali, a misura d’uomo, connessi, in grado di riportare assiduamente gli abitanti nei contesti locali nei quali risiedono.
Gli approcci di indagine e le tecniche per il disegno delle infrastrutture per la mobilità dolce che concorrono al perseguimento dell’obiettivo della città dei 15 minuti appaiono aggiornati anche nel quadro nazionale e non sembrano richiedere particolari innovazioni degli strumenti già a disposizione, potendosi appoggiare su un patrimonio di saperi disciplinari consolidati nel tempo, di ampia disponibilità e accettabile sperimentazione.
Più difficile è riconoscere negli approcci con cui è affrontato il progetto della città dei 15 minuti la piena consapevolezza della reale complessità che caratterizza le esigenze quotidiane di segmenti anche consistenti della popolazione, condizionandone i comportamenti, le scelte modali e la definizione degli spostamenti sistematici e non.
La ‘misura’ della città dei 15 minuti può, quindi, certamente passare attraverso approcci tradizionali, supportati da sistemi informativi territoriali che si basino sullo studio delle caratteristiche urbane, morfologiche e funzionali nonché di variabili socio-economiche, ma per una effettiva comprensione dei fenomeni in essere questi approcci devono essere integrati con osservazioni dirette degli spazi pubblici, rilievi e indagini sul comportamento dei pedoni e sulle abitudini di mobilità. Tali rilievi possono anche prevedere l’utilizzo di dispositivi GPS per il tracciamento dei percorsi reali, o l’adozione di modelli di simulazione per la costruzione di scenari e di schemi di mobilità basati sui comportamenti.
Tuttavia, come sempre nelle nostre questioni disciplinari, il passaggio dal successo dello ‘slogan’ alla persistenza e al radicamento dei suoi obiettivi e contenuti nelle tecniche e nella capacità effettiva di trasformazione della città non passa solamente dalla raccolta e catalogazione di dati anche molto affinati. Sempre più dobbiamo riconoscere che il successo o meno dell’esito delle ricerche attiene alla qualità dei processi di trasferimento di tali conoscenze nella pratica urbanistica; processi che devono essere valutati con strumenti opportuni.
In questo senso, la riflessione sugli approcci sperimentali di ridisegno delle reti per la mobilità arrivati a compimento secondo il modello della ‘città dei 15 minuti’ (come le Supermanzana di Barcellona) mostra come interventi settoriali possano comunque rientrare e concorrere a un processo di adattamento complessivo del sistema degli spazi pubblici della città (Manzini 2021).
In conclusione, si può affermare che la rinnovata attenzione politica e mediatica per i temi riconducibili all’idea della ‘città dei 15 minuti’ ha rappresentato l’opportunità per una ampia riflessione collettiva sulle rilevanti, ma non sempre considerate, implicazioni urbanistiche degli studi sulla mobilità locale, di quartiere.
Ora la sfida è di riuscire a dimostrare quanto questi temi, che possono apparire – e a volte vengono trattati dagli stessi operatori – come settoriali, siano intimamente collegati al ventaglio ampio delle maggiori sfide poste alla città contemporanea: sostenibilità ambientale, transizione energetica, resilienza, inclusione ed equità sociale, qualità della vita, pandemia.
Una maggiore attenzione per la scala locale e gli assetti sociali e spaziali degli interventi sulla città consolidata – per la quale solitamente si ipotizza una rigenerazione diffusa, di prossimità – può forse costituire una occasione per assegnare maggiore concretezza alle prospettive di applicazione dell’idea originaria.
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