Urbanistica INFORMAZIONI

Il progetto della ‘città dei 15 minuti’: esercizi critici di prospettiva e di memoria

“Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze” (Calvino 1993: 66).

Le parole (e il loro spessore) contano

Molti sono i ‘falsi neologismi’ – parole apparentemente nuove, ma dalle radici lontane – recentemente coniati per ribadire l’appello a un cambiamento radicale delle condizioni di vita nelle città e sul nostro pianeta. Si pensi alle denominazioni European Green Deal e New European Bauhaus assegnate alla stagione di politiche europee 2021-2027, in cui i temi della neutralità climatica e della smartness sono traguardati da una prospettiva human-centred, nell’intento di rendere gli ambienti urbani più sostenibili, fruibili, di elevata qualità estetica e funzionale. Allineandosi a questi obiettivi, la locuzione ‘città dei 15 minuti’ condivide con le precedenti il rischio di porgere il fianco alle considerazioni espresse da Italo Calvino, qualora assunta come una ricetta meccanicamente applicabile, dagli esiti positivi generalizzabili, immediati e auto-evidenti, a prescindere dalle “condizioni odierne” e contestuali – insediative, spaziali e ambientali, sociali ed economiche, istituzionali e delle politiche – in cui si applica e va a interagire (Gabellini 2018: 17-22).

Come in queste note – e nei testi che compongono la sezione – ci si propone di argomentare, la città dei 15 minuti (Moreno 2020) si presta a essere assunta come un nuovo “modello”, un’idea spaziale connotata da un “carattere di riproduttività” (Choay 1973: 12). I suoi riferimenti – più o meno diretti – attraversano però i tempi lunghi del pensiero e della pratica disciplinare, attingendo ai grandi racconti sulla città e sulle sue trasformazioni. Racconti che, come ci ricorda Bernardo Secchi, nel ventesimo secolo hanno ricorrentemente espresso: una reazione all’angoscia indotta dagli effetti di “una crescita indefinita e smisurata della città” e dal “timore della sua scomparsa”; il tentativo di delineare soluzioni spaziali come “parte di un più vasto progetto di edificazione di una nuova società”; “una ricerca paziente delle dimensioni fisiche e concrete del benessere individuale e collettivo” (Secchi 2005: 4-7).

La centratura dell’organizzazione urbana su unità spaziali circoscritte, in cui servizi essenziali, spazi verdi, luoghi dell’abitare, del lavoro e dell’interazione sociale risultino facilmente e celermente raggiungibili a piedi risponde a quella ricerca di una ‘dimensione conforme’, tesa ad assicurare “il funzionamento di una vita urbana che sia ad un tempo sana, bella, comoda ed economica” (Piccinato 1987: 13), che con continuità permea il processo di costruzione della ‘cassetta degli attrezzi’ dell’urbanistica. Il riferimento, non esaustivo, è: ai blocchi urbani in cui Ildefonso Cerdà articola il disegno egualitario della scacchiera di vias e intervias per l’ensanche di Barcellona (Cerdà 1867); ai settori radiali di cui si compone l’assetto equilibrato di case e spazi della socialità della garden city di Ebenezer Howard (Howard 1902); alla neighborhood unit proposta da Clarence Perry nel Regional Plan of New York and Its Environs, quale principio organizzatore di unità locali integrate di residenze e attrezzature pedonalmente accessibili (Perry 1929); alle realizzazioni di new towns e garden suburbs in ambito anglosassone prima e dopo il secondo conflitto mondiale (Stein 1957; Osborn and Whittick 1977), sino alle loro rivisitazioni sviluppate dall’Urban Task Force capitanata da Richard Rogers durante il governo inglese di Tony Blair (Urban Task Force 1999), e dal movimento del New Urbanism (Congress for the New Urbanism and Talen 2013). E, ancora in ambito italiano, analogie possono essere riscontrate: con l’idea di quartiere che, tra il 1949 e il 1963, guida l’attuazione del Piano Ina-Casa (Di Biagi 2001), contribuendo alle riflessioni che porteranno all’emanazione del Decreto interministeriale 1444/1968 sugli standard urbanistici (Basso e Marchigiani 2018); nonché con le tante esperienze passate e recenti, che hanno posto alla base del progetto di piano regolatore “l’attenzione sull’abitabilità” (Gabellini 2018: 22 e ss.) e, coerentemente, interpretazioni della città come a sua volta fatta di ‘città’ e ‘quartieri’, di cui uno spaccato è fornito da alcuni contributi a questa sezione.

Tale ricco apparato di riflessioni e pratiche ha prodotto soluzioni concrete, a partire dalle quali è possibile ragionare sullo spessore concettuale ma, soprattutto, sulle dimensioni operative della città dei 15 minuti, per evidenziarne sia letture limitate e parziali, sia prospettive evolutive foriere di un rinnovamento di approcci e modi del progetto urbanistico. Licenziarla come un dejà-vu – pur ben confezionato – sarebbe infatti a sua volta riduttivo. Se non altro perché era da tempo che una ‘idea di città’ con una forte caratterizzazione spaziale non riscuoteva un successo così vasto e diffuso. I paragrafi successivi sono dedicati sia a ricostruirne principi e motivi di fortuna, sia a tracciare una prima mappa di questioni che oggi, più o meno direttamente, la sua applicazione solleva.

Principi e successo di un’idea di città

Carlos Moreno, l’‘ideatore’ de “la ville du quarte d’heure”, nel 2016 la definisce come la via verso “un nouveau chrono-urbanisme”. La riorganizzazione degli spazi urbani secondo il modello di una città policentrica, fondata su quattro ingredienti principali (“la proximité, la mixité, la densité, l’ubiquité”), su un utilizzo estensivo delle nuove tecnologie, sul prevalere di forme di mobilità attiva (ciclabile e pedonale) e del ricorso al trasporto pubblico, è proposta come una soluzione in grado di rendere disponibili a tutti, in meno di 15 minuti, le dotazioni con cui dare risposta a domande e bisogni essenziali (Moreno 2016). Si tratta di un’idea tanto chiara nelle sue finalità, quanto teoricamente capace di riportare a sistema una pluralità di dimensioni spaziali e funzionali, attinenti al benessere delle persone e dell’ambiente. In altri termini, è un’idea che bene si presta a essere assunta come un manifesto, una metafora facilmente comunicabile, immediata e olistica, ma (anche se solo in apparenza) non troppo rivoluzionaria da mettere in crisi l’organizzazione delle città, e realizzabile con sforzi alla portata delle amministrazioni locali.

Non è quindi un caso che, con il sopraggiungere della pandemia di Covid-19, l’esacerbarsi degli effetti del cambiamento climatico e l’urgenza di individuare traiettorie di reazione e ripresa, l’attenzione che la città dei 15 minuti dedica alla dimensione locale, agli spazi e alle pratiche dell’abitare quotidiano, sia apparsa una risposta utile e direttamente spendibile. Una risposta in grado di rafforzare inclusione e accesso ad aree e attrezzature pubbliche, salute e sicurezza, aiutando a limitare sia il ricorso a misure di distanziamento sociale, sia l’aumento dell’utilizzo di mezzi privati. La fama che questa idea ha rapidamente guadagnato è dimostrata dalla sua assunzione a leitmotiv delle più importanti organizzazioni mondiali e delle agende di molte città, impegnate nel perseguire l’obiettivo – di cui evidente è l’assonanza con le parole di Luigi Piccinato – di realizzare “safer, more resilient, sustainable and inclusive cities” (United Nations 2015).

Primo epicentro della pandemia, formazioni urbane dinamiche e interconnesse si sono date quale cartina tornasole e luoghi di accelerazione di diseguaglianze e fragilità pregresse, legate alla scarsa tenuta di spazi e servizi pubblici (in primis scolastici, socio-sanitari, di trasporto), agli alti livelli di inquinamento atmosferico, all’inadeguatezza di situazioni abitative e di lavoro, e alle vulnerabilità di una parte sempre più consistente della popolazione (per condizioni di età e genere, fisiche e di salute, circostanze sociali e familiari). In tale quadro, numerosi policy briefs hanno esplicitamente proposto la città dei 15 minuti come un’immagine in grado di ‘riequilibrare’ l’offerta di opportunità e dotazioni, al contempo contrastando politiche di “de-densification” foriere di urban sprawl e di ulteriore consumo di risorse ambientali (United Nations 2020: 28). La pianificazione per “self-sufficient neighbourhood or ‘15-minute compact city neighbourhood’” è stata individuata tra gli interventi di medio-lungo termine, tesi a garantire una “equitable distribution of essential services, streets and public space” (UN-Habitat 2020: 3), in linea con il motto “Healthy Places Healthy People” (Commission on Social Determinants of Health 2008: 60), e a ribadire come la fruibilità quotidiana dei luoghi preposti all’interazione sociale costituisca un servizio in sé. Un ulteriore ruolo riconosciuto alla città dei 15 minuti è quello di strumento funzionale sia a “regaining a sense of belonging” ai luoghi (e un’attenzione alle loro valenze identitarie, culturali, naturali e sociali), sia a sviluppare nuove forme di “proximity economy” (European Commission 2021: 8).

Nel frattempo, numerose amministrazioni locali, in prima linea nel contrastare gli effetti immediati della pandemia, hanno impiegato tale modello come label di interventi a breve termine, pur nella prospettiva di avviare programmi di più ampio respiro (OECD 2020; Town and Country Planning Association 2021), e di attuare strategie che ‘preparino’ le politiche pubbliche a operare in condizioni di crescente e insanabile incertezza (Armondi et al. 2020). Parigi, con l’esplicita assunzione nel programma Paris en Commun (con cui la sindaca Anne Hidalgo è stata rieletta nel 2020), Barcellona, Berlino, Copenhagen, Milano, Melbourne, Ottawa, New York, Portland, Beijing, Bogotà sono solo alcune città che, sulla spinta della crisi sanitaria, hanno velocemente implementato l’idea dei 15 minuti (talvolta estesi a 20), anche dando nuovo impulso operativo e mediatico ad azioni pluri-livello e pluri-settoriali già da tempo in agenda (Pisano 2020; Moreno et al. 2021; Pozoukidou and Chatziyiannaki 2021). C40, network mondiale di amministrazioni attive nella lotta ai cambiamenti climatici, si è dato come una ulteriore cassa di risonanza e importante veicolo di diffusione di queste esperienze (C40 Cities 2020; C40 Cities Climate Leadership Group – C40 Knowledge Hub 2020). Tra di esse, tuttavia, le più pubblicizzate – per i risultati concreti tempestivamente ottenuti – sono quelle riguardanti interventi ‘tattici’, temporanei e talora episodici: pedonalizzazioni e tracciamento di piste ciclabili con la sola segnaletica; realizzazione di attività commerciali pop-up e loro estensione su aree pubbliche (sovente a discapito della libera fruizione di marciapiedi e piazze). Tale aspetto ha contribuito a mettere in secondo piano gli approcci e le mosse ben più radicali, i temi e le azioni strutturali (su spazi, strumenti e politiche urbani) che l’attuazione della città dei 15 minuti implica – qualora presa sul serio, e non come mero vessillo di un ritorno a quel new normal, che le crisi in cui siamo immersi rendono sempre più un ossimoro.

Prossimità

La prossimità è tema di progetto che rinvia a diversi ragionamenti, sfuggendo a una meccanica parametrizzazione e misurabilità. Nelle nostre città, spesso è ancora una “dimensione nascosta” (Hall 1966): una prestazione da mettere in atto lavorando sulla conformazione dell’ambiente urbano e delle sue dotazioni, quali fattori capaci di inibire o attivare pratiche sociali e nuovi stili di vita. La prossimità invita a riconfigurare gli spazi collettivi come un telaio continuo di attrezzature comuni e paesaggi, come un supporto e innesco a nuove attività pubbliche e private.

Realizzare condizioni di prossimità presuppone la creazione di un adeguato sistema di itinerari per la mobilità dolce (da piste ciclabili e aree pedonali vere e proprie, all’ampliamento dei marciapiedi attraverso la riduzione delle carreggiate veicolari, sino all’istituzione di zone a 30 km/h). Gli obiettivi, da tempo rimarcati, attengono alla sottrazione degli spazi stradali al prevalere dell’uso automobilistico, alla loro restituzione a una camminabilità sicura e accogliente e a forme di movimento sano e attivo, alla rimozione degli ostacoli fisici a un’accessibilità attenta alle esigenze, ai corpi e alle capabilities degli individui, in primis di quelli in condizioni di maggiore fragilità (Marchigiani et al. 2021). A essere chiamati in causa sono quindi interventi stabili di manutenzione e ridisegno spaziale, capillari ma orientati da una visione complessiva, non solo alla scala locale. Tuttavia, lavorare sulla mobilità dolce non basta. Il parametro temporale del quarto d’ora non può infatti prescindere dalle modalità e dalle velocità di spostamento, chiamando in causa un più ampio progetto di efficientamento del trasporto pubblico e della multimodalità (Duany and Steuteville 2021).

L’applicazione della città dei 15 minuti sottende in definitiva un processo – il più possibile aperto all’ascolto e alla partecipazione delle comunità locali – volto a riconoscere diverse perimetrazioni e geografie urbane, identificate sulla base dei movimenti quotidiani che le persone compiono dalla loro casa, ai luoghi di lavoro, alle attrezzature e ai servizi. Perimetrazioni che – vale qui la pena di precisare – spesso non corrispondono a quelle stabilite per finalità amministrative (‘municipi’, ‘quartieri’, ‘circoscrizioni’), e per articolare spazialmente il governo politico di città grandi e medie.

Attrezzature e infrastrutture essenziali

La definizione stessa delle attrezzature su cui un progetto di prossimità si incardina oggi non può che relazionarsi ai singoli contesti urbani e alle popolazioni che li abitano. L’ampio dibattito che, in Italia, ha accompagnato il cinquantenario del decreto interministeriale sugli standard urbanistici ha contribuito a sottolineare non solo la persistente centralità che questo dispositivo riveste nella rigenerazione delle città, ma anche l’appello ad ampliare e attualizzare il paniere di spazi e dotazioni pubblici e collettivi a cui si riferisce, oltre alla necessità di volgere l’attenzione alla qualità dei loro assetti materiali e immateriali in rapporto all’emergere di nuove domande sociali (Giaimo 2019; Laboratorio Standard 2021).

In tale prospettiva, i lasciti fisici che gli standard (immobili scolastici, attrezzature sportive al chiuso e all’aperto, parchi e giardini, centri istituzionali, religiosi e culturali, presìdi sanitari, aree a parcheggio) hanno variamente depositato sul territorio nazionale si prestano a essere interpretati come i nodi da cui sviluppare più estese operazioni di ri-attrezzamento e re-infrastrutturazione degli ambienti urbani. Operazioni capaci di tradurre strategie rinnovate per una ‘città pubblica’, finalizzate a dare risposta alle esigenze che la pandemia e la crisi climatica stanno drammaticamente contribuendo a portare all’attenzione, e alle quali alludono molti assi di finanziamento del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, cui le politiche urbane del nostro paese saranno chiamate a riferirsi nei prossimi anni (Presidenza del Consiglio dei Ministri 2021; Senato della Repubblica e Camera dei deputati 2021).

L’appello è, in primo luogo, a ripensare organizzazione e prestazioni spaziali delle attrezzature esistenti, al fine di: aprire questi patrimoni pubblici ai contesti che li accolgono e prolungare lo svolgimento delle loro attività anche negli spazi esterni limitrofi; di renderli disponibili a nuovi ritmi, gestioni, servizi e utenti; di trasformarli nel cuore dei quartieri, intesi come unità territoriali di prossimità.

Gli obiettivi che la città dei 15 minuti sottende chiedono altresì di includere – nelle sequenze di luoghi attrezzati per la vita quotidiana – anche tipi di spazi non esplicitamente contemplati dagli standard urbanistici. Il riferimento è alle già richiamate infrastrutture per la mobilità dolce, e a quelle rivolte a una gestione sostenibile (e su base locale) dei cicli energetici e dei rifiuti. L’invito è inoltre a potenziare la disponibilità di aree ed edifici dedicati alla coltivazione e al commercio di prodotti agricoli, per riattivare ‘filiere corte’ e l’accesso a cibi di qualità. Più in generale, la richiesta è di incrementare le superfici preposte a ospitare un’ampia gamma di Servizi ecosistemici – nature-based solutions e ‘reti verdi e blu’ – cui sono riconosciute valenze sia ecologiche che di supporto a pratiche di socializzazione e vita all’aperto: dagli interventi di disimpermeabilizzazione, rivegetalizzazione e rimboschimento dei suoli urbani; alla costruzione di tetti verdi e di ampi spazi aperti pubblici water-proof per la raccolta e il rilascio graduale delle acque a seguito di allagamenti (Somarakis et al. 2019; Salata 2021).

Il tema della smartness, intrinseco all’idea di città dei 15 minuti, rinvia infine a un altro importante progetto di ridefinizione di infrastrutture, modalità di erogazione di servizi e attività: dall’assistenza sanitaria, alla domotica (anche intesa come strumento per garantire la permanenza delle persone anziane nel proprio alloggio), ai trasporti, al commercio e al lavoro. Tale progetto inevitabilmente porta con sé la definizione di un coerente programma di azioni e investimenti pubblici. Da un lato, per garantire un’equa distribuzione e accesso alle reti digitali e alle opportunità offerte dall’impiego dell’Internet of Things (Marchigiani 2020). Dall’altro, per accompagnare i diversi settori (pubblici e privati) interessati dalla riconversione tecnologica, governando gli impatti che potranno essere indotti da un ricorso diffuso a forme di ‘connessione smaterializzata’ di pratiche e attività: dall’esclusione di ampie porzioni di popolazione, allo svuotamento di spazi ed edifici conseguente alla rilocalizzazione di posti di impiego e lavoratori (Coppola 2021).

Densità e mescolanze

Connotati fondamentali della città dei 15 minuti, densité e mixité si danno come ulteriori termini le cui dimensioni spaziali, sociali e funzionali sfuggono a univoche traduzioni concettuali e operative. Da un punto di vista fisico, un semplicistico appello alla ‘compattezza’ delle città come densificazione edilizia entra infatti in contraddizione con le questioni dell’incremento di spazi aperti attrezzati e verdi pro-capite in precedenza richiamate. Il rinvio è piuttosto alla compresenza, all’interno delle unità spaziali in cui si articola la città dei 15 minuti, di un’ampia varietà di luoghi dedicati alla residenza, al lavoro, alla socialità, e alla loro organizzazione secondo logiche di fruibilità ravvicinata così da accorciare i tempi di spostamento.

A questi principi fa da corollario l’esigenza di una maggiore flessibilità degli spazi destinati alle diverse attività urbane, la cui rigidità è stata messa a dura prova dagli effetti della pandemia. Se, durante le fasi di lockdown, le case sono state chiamate a ospitare la convivenza forzata di diversi componenti del nucleo familiare e delle loro pratiche giornaliere, le sedi di imprese e uffici sono rimaste inutilizzate. Il presunto equilibrio nella distribuzione dei ritmi quotidiani tra diverse aree urbane e funzionali è saltato. Soprattutto, sono risultate evidenti le profonde diseguaglianze sociali nella dotazione di alloggi, la frequente e pregressa inadeguatezza della loro configurazione dimensionale e distributiva. Se ancora incerte sono le dinamiche che segneranno il periodo post-pandemico, l’ipotizzabile permanere del cosiddetto smart working – sia pure non esteso a tutti i settori, né a tutti i giorni della settimana – rende ineludibile il trattamento di queste disparità.

Torna quindi di prepotente attualità la questione del diritto a una casa affordable e decorosa. Non meno rilevante risulta il ripensamento degli strumenti di regolamentazione sia degli spazi interni all’alloggio all’insegna di una rinnovata accezione di existenzminimum (Rossi e Perrone 2020), sia dei loro ‘prolungamenti’ esterni in luoghi variamente utilizzabili ‘a tempo’, in maniera condivisa per attività lavorative, di cura e gestione delle routine familiari (Pierotti 2020).

La creazione di spazi ‘ibridi’, cui le idee di compattezza e compresenza implicitamente rinviano, è però un’operazione non banale. Non può infatti essere interpretata come una semplicistica liberalizzazione degli usi del suolo, o come un generico appello alla ‘vaghezza’: uno spazio urbano è versatile quando la sua conformazione e le sue modalità di attrezzamento risultano idonee a ospitare, in maniera reversibile, una pluralità di utilizzi e forme di con-vivenza, spesso non privi di conflittualità (Pasqui 2018). Tali considerazioni sottendono un ragionamento attento sulla compatibilità e ‘giusta distanza’ di diverse attività, dotazioni e pratiche sociali; un rinnovamento delle disposizioni normative (edilizie e urbane; quantitative, funzionali e prestazionali) e degli approcci al progetto degli spazi a esse destinati; una riflessione sulla loro presenza e mescolanza all’interno dei singoli quartieri e della città nel suo insieme.

Dai quartieri alla città

L’utilizzo del modello dei 15 minuti quale matrice per la riorganizzazione delle città è, in conclusione, tutt’altro che immediato.

La ricostruzione di condizioni di vicinanza e facile raggiungibilità rende l’assetto attuale degli ambienti urbani un dato fondamentale da cui partire: le logiche insediative e di funzionamento di spazi e servizi, delle economie, culture e pratiche sociali che li animano; le loro diverse densità e localizzazioni. È proprio alla luce del variare contestuale di questi aspetti che l’accezione stessa di città oggi appare plurale e sfuggente. Se il successo riscontrato a livello globale dal modello dei 15 minuti ne dimostra la versatilità, la sua traduzione sovente ridotta a interventi settoriali e temporanei lascia aperta la riflessione su una sua piena applicabilità anche a formazioni urbane sgranate e disperse (di cui largamente si compone il continente europeo), o fortemente polarizzate sulle aree centrali a discapito di quelle periferiche (come avviene in molte metropoli mondiali).

Una spiccata articolazione di situazioni spaziali, sociali ed economiche oggi peraltro connota anche l’organizzazione interna delle singole città, spesso a prescindere dalle loro dimensioni. In condizioni di partenza ben lontane dall’isotropia, la prospettiva di giungere a una sorta di ‘quotidiana autosufficienza’ delle unità (neighbourhoods – quartieri) di cui si compone la città dei 15 minuti non può perciò eludere il ricorso a scelte programmatiche e di pianificazione d’insieme, quantomeno alla scala urbana. Il lato oscuro dell’appello a rafforzare le identità locali è del resto evidente: da un lato, può sfociare in una superficiale mitigazione delle condizioni di segregazione che già affliggono alcune parti di città; dall’altro, può farsi volano di processi di gentrificazione di interi settori urbani, portando all’innalzamento dei valori immobiliari e all’allontanamento delle componenti più vulnerabili della popolazione. In altri termini, l’equilibrio nella struttura complessiva delle città non può discendere da una paratattica applicazione di un modello spaziale, per quanto localmente armonico.

In primo luogo occorre stabilire delle priorità. In questo, l’idea della città dei 15 minuti si presta a essere assunta quale strumento utile a implementare un progetto integrato di rigenerazione e ri-attrezzamento, a partire dai quartieri più degradati e svantaggiati. Le dimensioni del locale e della prossimità vanno però interpretate come strategiche, non come esclusive, né sostititutive di una comunque necessaria visione d’insieme per la città e le sue trasformazioni fisiche. Le nuove infrastrutture tecnologiche ed ecosistemiche, su cui si basa la promessa di rinnovamento del modello qui discusso, irrorano sì i quartieri ma al contempo devono la loro efficienza a relazioni e connessioni le cui ricadute spaziali non solo si dispiegano su una scala ampia, ma concorrono altresì a configurare una nuova organizzazione di spazi, funzioni, valori immobiliari, all’interno dell’ambiente urbano. Così, l’invito a ripensare la geografia delle attrezzature sulla base di parametri di diffusione e vicinanza fisica non può valere per tutte le dotazioni, comunque soggette anche a principi di razionalizzazione e distribuzione gerarchica (si pensi a ospedali, scuole di livello superiore, ecc.). Ne discende la già rimarcata importanza di un progetto di mobilità e trasporto pubblico che interessi le città nella loro interezza, con cui garantire la raggiungibilità dei suoi nodi strategici a partire dai diversi settori e quartieri.

Oltre a un profondo rinnovamento degli strumenti di pianificazione e regolamentazione spaziale (dei loro obiettivi, prestazioni e parametri), a essere necessario è in sostanza anche un deciso riassetto delle politiche che orientano l’azione pubblica e le trasformazioni urbane al perseguimento di criteri di equa prossimità e mescolanza di usi, popolazioni e attività. Non è questo il luogo per una disamina attenta, ma il riferimento è, indicativamente: alle politiche della casa e, in particolare, a quelle dedicate all’edilizia sociale e pubblica; alla territorializzazione dei servizi sociali e sanitari; alle politiche educative, all’apertura degli spazi e delle attività scolastiche alla città e a nuovi usi. E ancora: alla messa in campo di misure fiscali e incentivi con cui facilitare il reinsediamento nei quartieri di imprese commerciali e luoghi di lavoro; nonché alla costruzione di nuove partnership tra pubblico e privato, e forme di collaborazione con soggetti del terzo settore e cittadini nella gestione di beni comuni. È in tale prospettiva che il modello dei 15 minuti può aiutare a riannodare i fili di un dibattito – oggi sempre più vivace anche in ambito nazionale – sulla necessità di attuare un profondo rinnovamento degli ambienti urbani e dei modi con cui governare le loro fragilità (Coppola et al. 2021).

Questo Focus

La sezione sostanzia le considerazioni sin qui tratteggiate attraverso riflessioni ed esperienze in cui l’idea della città dei 15 minuti è stata, più o meno direttamente, messa all’opera. Specifica attenzione è rivolta all’Italia, nell’intento di evidenziare come tale modello alluda e parzialmente riprenda pratiche che qui variamente si radicano nel tempo. L’obiettivo è di mettere a fuoco le ripercussioni che, nel concreto, l’appello a un riorganizzazione/rigenerazione delle città a partire da ‘unità di dimensione conforme’ può avere sulla pratica disciplinare, sui modi e sugli strumenti del progetto urbanistico, senza eludere il trattamento di criticità e rischi di banalizzazione.

In particolare, i contributi di Bonfantini, Manaresi, Mininni e Galuzzi ragionano su come l’idea di prossimità, la sua traduzione in azioni di trasformazione fisica (ma anche economica e sociale), improntate al riconoscimento di ambiti spaziali ‘di vicinato’ e alla costruzione di processi di progettazione partecipata e comunitaria, abbiano informato diverse stagioni – passate e recenti – della pianificazione di città e territori nazionali (Milano, Bologna, Matera, Ivrea). Stagioni i cui lasciti materiali continuano ad alimentare una riflessione sul fare urbanistica oggi. L’articolo di Rossetti, Tiboni e Zazzi e quello di Carta offrono spunti per sviluppare, ulteriormente e in termini operativi, il modello dei 15 minuti con specifico riguardo alle questioni della walkability e dalla smartness, della resilienza e del policentrismo differenziato. I motivi di fortuna internazionale, così come le aporie interne a questo modello e la sua applicabilità a diversi contesti e dinamiche di urbanizzazione contemporanei è oggetto dello scritto di Garau. La sezione si chiude infine con il testo di Piccinato, volto a ricordare alcune radici e temi che, con inesaurita attualità, fra il XIX e il XX secolo (e oltre), hanno permeato il pensiero sulla città presente e futura, muovendosi tra istanze anti-urbane e la ricerca di una ‘giusta dimensione’ dei luoghi dell’abitare.

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Data di pubblicazione: 16 aprile 2023