Lo zoning è oggetto di critiche divenute luogo comune. Senonché ciò che gli si contrappone – l’anelata mixité, il mixed use – è in realtà una sua diversa applicazione, che riserva a ‘unità di disciplina sul territorio’ individuate tramite perimetrazione – in questo consiste la zonizzazione a supporto del progetto urbanistico – una combinazione articolata di caratterizzazioni, eventualmente con margini di flessibilità e variabilità, anziché un’unica sola, univocamente definita.
Nel pregiudizio diffuso si confonde lo strumento tecnico con i modi del suo utilizzo. All’origine sta il cortocircuito che si è determinato per effetto dell’imprinting funzionalista: per cui lo zoning viene fatto coincidere con una rigida distinzione della città in (grandi) parti (mono)funzionali. In ragione di questo equivoco sull’azzonamento si abbatte lo stigma di sentenze tombali, talora diventate veri e propri anatemi, come quello, famoso, di Jane Jacobs in nome della ‘diversità urbana’.
A corollario di questo errore se ne accompagna un secondo, che riduce l’azzonamento a strumento per la disciplina delle (sole) destinazioni d’uso, quando a questa può invece associarsi (e si associa in effetti) una gamma potenzialmente illimitata di indicazioni – relative alle densità di sfruttamento edilizio dei suoli, ai tipi edilizi, ai requisiti morfologici delle trasformazioni, alle procedure attuative da applicarsi e così via nonché alle molteplici combinazioni tra questi vari contenuti prescrittivi possibili.
In Italia, disegni di azzonamento compaiono già diffusamente dagli anni ’30, quando, nel progetto del piano, a una tavola prefigurativa delle trasformazioni perseguite comincia ad affiancarsene una seconda mediata da una legenda. Il concetto di zona irrompe, poi, con la Legge 1150 del 1942. Tuttavia il riferimento che ne fa l’articolo 7, non di stretta osservanza modernista, rimane blando e relativamente aperto. Stringente sarà invece il dispositivo delle “zone omogenee”, introdotte nel 1967 dalla Legge Ponte e definite dal suo decreto attuativo l’anno successivo. Strumento su cui si incardina la determinazione degli “standard urbanistici”, è questo un azzonamento dai criteri ibridi: qualitativi (riconoscimento di valore, zone A), quantitativi (grado di urbanizzazione, zone B e C), funzionali (zone D, E, F).
Ma lo zoning, ai fini del progetto, è uno strumento di regolazione o di composizione urbanistica? Affermatosi come strumento amministrativo e regolamentare nella seconda metà dell’Ottocento, s’impone come cardine per l’organizzazione dell’insediamento urbano col Movimento moderno e le Carta d’Atene – nella costruzione della ‘città funzionale’ – per poi perdere di nuovo progressivamente la sua valenza compositiva e degradare, fino al parossismo, a muta ‘mappa delle norme’ negli anni ’70 del secolo scorso.
L’uso compositivo – strutturale – dello zoning riemerge con l’affermarsi, nei piani urbanistici di fine ’900 e inizio anni 2000, di forme di zonizzazione ‘schematica’. Compaiono, infatti, tavole di azzonamento che non sono più coprenti, non coinvolgono più l’intera estensione territoriale, ma sono selettive: nell’evidenziare corpi territoriali che si caricano di un ruolo specifico e prioritario nel riassetto urbano e territoriale, e ai quali si associano, più che regole cui attenersi, indirizzi e profili programmatici cui orientarsi e tramite i quali governare le trasformazioni, il loro senso, la loro coerenza – lo zoning come strumento del visioning.
Ma anche nella dimensione puramente regolativa dello zoning, la questione di fondo che si pone è se e quanto il progetto urbanistico possa rinunciare a indicazioni (di varia cogenza prescrittiva) ‘situate’ o ‘localizzate’. Cominciano a essere diffusi i segnali che vedono relativizzare il ruolo della tavola di azzonamento nel veicolare i contenuti del piano. Viene meno, soprattutto, la sua tensione comprehensive – l’idea, cioè, che la tavola di zonizzazione debba essere un mosaico le cui tessere coinvolgano necessariamente e integralmente l’intero territorio oggetto dell’azione di piano. Si impongono azzonamenti ‘a macchie’, che ricorrono a localizzare le indicazioni di disciplina urbanistica solo dove questo appaia utile, opportuno, necessario.
D’altra parte, l’orientamento alla rigenerazione e il progressivo esaurirsi delle grandi aree di trasformazione, eredità della città industriale moderna, hanno riportato l’attenzione sulla città esistente, sulla sua grana minuta, sugli strumenti regolamentari, non a caso oggetto di riordino con la recente intesa sul Regolamento edilizio tipo. Talora, il ritorno ai ‘codici’ viene auspicato, in superamento delle forme di disciplina localizzata.
E tuttavia, potrà suonare paradossale: un progetto urbanistico che rinunci a discriminare – che rinunci, cioè, a rapportare le sue indicazioni alle specificità di contesto, tramite la tecnica di azzonamento – è semplicemente un progetto urbanistico più superficiale, ingiusto e iniquo.
“Chi ha paura della zonizzazione?” – la domanda/monito che Luigi Mazza poneva nel 1995 – continua a rinnovare la sua attualità.
Mazza L. (1995), “Chi ha paura della zonizzazione?”, in Inu, Rassegna urbanistica nazionale. Seminari, supplemento a Urbanistica Informazioni, no. 140, p. 34.