Un insieme di fattori, dalla fine della Guerra fredda ai processi di globalizzazione, ha contribuito a determinare una rigerarchizzazione dei poteri territoriali che ha riportato la città al centro dell’universo politico, trasformandola anche nel luogo privilegiato di esercizio del potere coercitivo (Brenner 2004). Nel nuovo millennio, questo protagonismo urbano nella sfera della violenza si manifesta soprattutto in due forme: attraverso un coinvolgimento diretto nelle guerre e come scontro quotidiano tra gli apparati dello stato e gli attori non statali della violenza (mafie, gang, gruppi terroristici) per il controllo dei quartieri.
Il ruolo della città in guerra non è mai stato marginale: dagli assedi dell’antichità e del mondo medievale, fino ai bombardamenti terroristici della Seconda guerra mondiale, la storia è piena di esempi. Le principali sedi del potere politico e finanziario, in particolare delle capitali, hanno spesso assunto un rilevante valore simbolico, anche nelle rivoluzioni e nei colpi di stato. Eppure, a partire dal 1989, le cosiddette ’nuove guerre’ ne hanno fatto il centro nevralgico, se non a volte addirittura esclusivo, dei combattimenti, al punto da costringere persino le forze armate della superpotenza statunitense a ripensare le proprie modalità di dispiegamento e il proprio addestramento per adeguarsi alle nuove esigenze che, da un lato, costringono anche i membri di unità d’élite a svolgere mansioni che sarebbero più consone a corpi di polizia; dall’altro, tuttavia, li espone a rischi di gran lunga superiori, legati all’impiego di improvised explosive devices da parte delle forze irregolari con le quali sono costretti a confrontarsi (Armao 2015).
Non è un caso, insomma, che Mosul e Falluja siano assurte ad epitomi della guerra in Iraq, Raqqa di quella in Siria, Tripoli e Tobruk del conflitto in Libia, Sana’a di quello in Yemen. E non lo è neppure l’accanimento dimostrato dalle truppe serbe nei confronti delle città bosniache o dalle forze di invasione russe verso le città ucraine. Oggi più che mai, oltre all’obiettivo di terrorizzare i civili nella speranza di spingerli a rinnegare il proprio governo e indurli alla resa, entra in gioco la volontà di annientare ciò che la città rappresenta: bombardare Sarajevo o Mariupol non vuol dire soltanto distruggerne le infrastrutture, ma annichilire l’idea stessa di cittadinanza che esse incarnano.
Tale evoluzione della guerra è stata recepita in letteratura al punto da spingere alcuni autori a coniare il termine urbicidio, a significare che la distruzione degli edifici non è finalizzata soltanto a colpire ciò che essi rappresentano (in termini militari o culturali) ma a impedire la possibilità stessa della vita urbana intesa come esistenza eterogenea: il termine urbicidio evoca intenzionalmente il genocidio (Coward 2009).
Passando alla seconda forma di coinvolgimento delle città nell’esercizio del potere coercitivo, se ne trova una rappresentazione plastica in molte megalopoli (e non solo nei paesi del Sud del mondo) che vedono le gated communities – aree residenziali ad accesso controllato, spesso circondate da mura, protette dalla polizia privata e da sofisticati sistemi di video-sorveglianza e dotate al proprio interno di tutti i servizi necessari (negozi, scuole, palestre, persino ospedali) – svilupparsi a ridosso delle architetture informali e caotiche degli slum, governati dal crimine organizzato e dalle gang.
La sindrome della fortezza, l’idea cioè che la sicurezza urbana si giochi ormai né più né meno che nei termini di una lotta per la sopravvivenza, trova una prima rilevante conferma nella militarizzazione delle forze di polizia, in particolare attraverso la creazione di reparti che emulano nell’addestramento e negli armamenti impiegati le unità speciali delle forze armate; e questo quasi a rappresentare, persino nell’estetica del poliziotto-soldato, l’innalzamento del livello dello scontro armato (un processo speculare a quello prima accennato dei militari d’élite costretti, in guerra, a farsi poliziotti). Negli Usa, per esempio, quelle che vengono chiamate Police Paramilitary Units (PPU) o Special Weapons and Tactics Team (SWAT), che si ispirano esplicitamente ai Navy Seals, si sono diffuse enormemente negli ultimi decenni. Ma corpi analoghi sono presenti da tempo anche in tutti i paesi europei e, con sempre maggior frequenza, anche nei paesi in via di sviluppo (Graham 2011).
In un simile contesto urbano di securitizzazione degli spazi rientra a pieno titolo anche la prigione, che arriva a integrarsi in un sistema ben più ampio, fino a comprendere i quartieri di provenienza degli stessi detenuti. Le pratiche spaziali intese a isolare i criminali dal contesto urbano finiscono, in realtà, col produrre un circuito integrato città-prigione, in cui i leader incarcerati mantengono il controllo dei loro traffici e reclutano nuovi affiliati, mentre i seguaci ancora a piede libero continuano ad eseguirne gli ordini. Ma questo non è ancora tutto: le ricerche sul campo in contesti quali l’America latina evidenziano la proliferazione di micro-regimi armati gestiti da gruppi criminali in grado di offrire alle popolazioni degli slum forme di protezione (anche da abusi della polizia), di mantenimento dell’ordine e persino di ’amministrazione della giustizia’ – fenomeno che trova conferma statistica nella riduzione dei tassi di omicidi e ferimenti (Arias 2018).
Arias E. D. (2018), Criminal Enterprises and Governance in Latin America and the Carribean, Cambridge University Press, Cambridge.
Armao F. (2015), Inside War. Understanding the Evolution of Organised Violence in the Global Era, De Gruyter, Warsaw/Berlin.
Brenner N. (2004), New State Spaces: Urban Governance and the Rescaling of Statehood, Oxford University Press, Oxford.
Coward M. (2009), Urbicide. The Politics of Urban Destruction, Routledge, New York.
Graham S. (2011), Cities Under Siege. The New Military Urbanism, Verso, London.