Genova ha perduto in un ventennio, tra la fine degli anni 1970 e il 2000, più di un quarto dei propri abitanti. Negli ultimi anni il loro numero ha oscillato poco sopra quota 600.000 (608.000 all’ultimo censimento) e il 26,64% di essi ha un’età non inferiore a 65 anni [1].
Questi dati confermano che Genova si colloca tra le Shrinking Cities, una categoria molto varia e non una definizione negativa, se rinunciamo al facile assioma per cui decrescita significa automaticamente declino. Servono altri indicatori e considerazioni relative alle specifiche condizioni locali per cercare di capire quale sia lo stato effettivo della città e quali le sue prospettive di sviluppo. Ne risulta un quadro contradditorio, che rende difficile esprimere valutazioni conclusive, ma proprio per questo appare interessante e aperto alla progettualità; Genova acquista il profilo di una “città a rischio”, sulla quale sono sospese molte minacce delle quali almeno alcune possono essere interpretate come potenzialità.
Gli articoli qui raccolti cercano di comporre quel quadro e di restituirne luci e ombre, sullo sfondo di una storia recente assai tormentata. Il periodo della contrazione demografica e della chiusura delle grandi fabbriche coincise in parte con il terrorismo e contribuì a fomentarlo: anni angoscianti e violenti, in cui svaniva l’ottimismo del boom e la città di scopriva improvvisamente fragile. Poi gli ammortizzatori sociali resero morbido il trapasso verso il postindustriale, creando una gran massa di pensionati con casa in proprietà, acquistata negli anni del boom – e dello scempio edilizio. Una città che nel corso di un secolo di crescita e industrializzazione aveva progressivamente dato fondo a tutte le risorse territoriali, andando oltre il consumo del suolo e distruggendo uno dei più celebrati paesaggi del Mediterraneo, si ritrovò pacificata ma sprofondata in una crisi d’identità; reagì dando il via ad una fase di notevoli trasformazioni, che è durata circa un quindicennio (dagli anni 1990 ai primi anni del 2000; cfr. Salvetti, ivi) e che in qualche misura continua ancor oggi, pur tra molte difficoltà (cfr. Capurro e Soppa, ivi).
È quindi il caso di considerare alcuni di quegli indicatori e di quei fatti che contribuiscono a rendere incerto il quadro e indeterminate le scelte, a partire da aspetti che riguardano la condizione demografica e i settori produttivi.
Oggi il saldo migratorio è positivo nel complesso, grazie agli arrivi dall’estero e dal Sud, mentre è negativo per quanto riguarda i nati nella Provincia e nel Nordovest. Il dato si può interpretare come risposta allo scadimento delle performance urbane: chi ha maggiori aspettative si trasferisce altrove e viene sostituito da chi, con minori pretese, si accontenta di quanto la città può offrire. Ne consegue un ulteriore deperimento, in quanto nella compagine sociale aumentano percentualmente i soggetti più deboli, più poveri e meno qualificati sotto il profilo professionale.
D’altra parte gli stranieri non sono molto numerosi (il 9,65% della popolazione), relativamente alle aree più dinamiche del Paese; e vi sono sintomi di un radicamento che potrebbe creare nuovi scenari di “territorializzazione”. Ad esempio, vive a Genova una compatta comunità ecuadoriana (la più grande d’Italia, oltre 16.000 le persone ufficialmente censite), che conquista le cronache a causa degli episodi di violenza di cui sono responsabili alcune bande giovanili, mentre sta più discretamente creando un tessuto di rapporti sociali ed economici in zone semicentrali che si stavano svuotando di cittadini e attività, in particolare nel retroporto di Sampierdarena dove anche i night club per marittimi e i cinema a luci rosse chiudono per scarsità di utenti. Poco più a ponente, Cornigliano, soffocata per cinquant’anni dalle esalazioni dello stabilimento siderurgico dell’Italsider, vede ora formarsi lungo la strada che l’attraversa un vivace asse commerciale, costituito in gran parte dai nuovi esercizi gestiti da stranieri e aperti per l’intera settimana. Se qui colpisce la concentrazione, un po’ dappertutto si nota l’aumento di esercizi di vicinato che gli stranieri aprono o rilevano da esercenti italiani, fornendo una delle poche risposte spontanee al dilagare dei supermercati e dei centri commerciali che vanno ad occupare le aree industriali storiche dismesse.
Quello di una riconversione delle aree industriali poco vantaggiosa ai fini dello sviluppo della città è certamente tra i principali rischi. Vi sono inoltre preoccupanti segnali che la fase di contrazione dell’industria non si sia ancora conclusa; ne è esempio il recente calvario dei cantieri navali di Sestri - prima destinati alla chiusura, poi forse salvati in extremis, ma con incerte prospettive per mancanza di commesse.
Per fortuna il nuovo che avanza non consiste solo nella crescita della grande distribuzione ai danni dell’industria: i traffici portuali continuano ad aumentare; i turisti (pressoché invisibili fino agli anni 1990) sono ormai una presenza evidente e pressoché costante nel centro città. Come a dire che è stata giusta la scelta (una delle poche) fatta negli anni più bui della crisi: puntare sul rilancio del porto, rendere la città più ospitale e gradevole per attrarre visitatori, facendo leva sulle ingenti risorse culturali. Tuttavia per certi versi i risultati raggiunti non bastano, per altri la città non sa coglierli appieno. Il turismo è ancora in gran parte basato su brevissimi soggiorni (750.000 arrivi e 1, 5 milioni di presenze nel 20102) e molto legato all’acquario (che ha più di un milione di visitatori all’anno). Il porto è inserito in un sistema mediterraneo ed europeo sempre più competitivo; è costretto a crescere per non perdere posizioni, ma non sa come farlo, in quanto già ora soffre di asfissia per mancanza di spazi di movimentazione e stoccaggio a terra delle merci, soprattutto di quelle in container. Si stanno attuando alcuni rimodellamenti delle banchine che porteranno ad un aumento della superficie portuale; ma le soluzioni che prevedono uno spostamento verso il largo del porto, tramite massicci riempienti a mare (quale quella prospettata nel famoso affresco di Renzo Piano, cfr. Salvetti, ivi) oltre che essere costose, tecnicamente complicate (per la profondità dei fondali) e pregiudizievoli sotto il profilo ambientale, sono ormai una risposta inadeguata. Infatti anche le nuove aree portuali verrebbero saturate nel giro di pochi anni, se si manterrà l’attuale trend di crescita del movimento mercantile, come la situazione mondiale dei traffici fa supporre. Ciò che serve è una risposta strutturale, ossia una ristrutturazione del sistema logistico che fa capo al porto e che deve coinvolgere vaste aree dell’hinterland padano.
Ancora una volta, i problemi del porto riflettono e ingigantiscono quelli della città, alla quale occorrono nuove strategie di sviluppo, accompagnate dagli opportuni strumenti di governo.
Mercoledì 7 dicembre 2011 il Consiglio Comunale di Genova ha adottato il nuovo Piano urbanistico comunale (Puc) che la Giunta aveva presentato a luglio. L’AC (in scadenza ad aprile 2012) non solo ha cosi mantenuto l’impegno di procedere alla revisione decennale dello strumento urbanistico (adempiendo alla normativa ligure: art. 45 Lr 36/1997), ma ha avviato l’iter di un nuovo Piano, che contiene diverse importanti novità sia dal punto di vista dei dispositivi di attuazione, sia per l’impegno a declinare le tematiche della sostenibilità ambientale (cfr. Lombardini, ivi). Per quanto riguarda questo secondo aspetto, il Piano di Genova sembra rispondere ad una logica che va acquisendo consensi in tutta la Liguria; infatti vari Comuni della costa che stanno elaborando o decidendo l’elaborazione di un nuovo Piano dichiarano l’intenzione di arrestare l’espansione dell’urbanizzato; contemporaneamente la Regione porta avanti il suo progetto di Piano regionale unico all’insegna del contenimento del consumo di suolo. Ciò non significa necessariamente che la Liguria abbia rinunciato alla crescita fisica e allo sfruttamento delle rendite di posizione con le quali molti si sono arricchiti a spese del paesaggi; infatti, in questa fase di crisi del mercato immobiliare esistono già quote consistenti di invenduto, sicché un ulteriore incremento del patrimonio edilizio potrebbe mettere a repentaglio anche i valori che si consideravano consolidati; quindi, almeno nelle due Riviere, è difficile distinguere tra scelte ambientalmente virtuose e opportunità economiche momentanee. Nel caso del capoluogo, l’indirizzo del Piano sembra in linea con concrete esigenze di riqualificazione per quanto riguarda l’impegno a considerare i bilanci ambientali e il grado di innovazione delle trasformazioni, mentre l’opzione del consumo zero di suolo va considerata in relazione alla grande disponibilità di aree dismesse nelle quali sarà possibile realizzare nuove residenze in quantità largamente eccedenti le prevedibili necessità (anche se mediamente troppo costose per soddisfare il tipo prevalente di domanda).
Privilegiare la crescita verso l’interno rispetto alla dilatazione era stata già la linea adottata dal Puc 2000, che peraltro lasciava in gran parte indefinite le destinazioni dei numerosi distretti di trasformazione e, quindi, rinunciava ad esprimersi sulle scelte, relative soprattutto alla collocazione dei grandi servizi e dei nuovi impianti, che sarebbero state decisive per determinare un nuovo assetto della città. Da questo punto di vista il nuovo Puc si scosta assai poco da quello che l’ha preceduto, di cui sembra costituire una scrupolosa revisione, arricchita di studi e progetti che potranno produrre riqualificazioni puntuali, ma dalla quale continua ad essere assente un disegno della città. Il nuovo Puc appare come il prodotto di una perizia tecnica (sostanzialmente quella degli uffici comunali, che vi hanno lavorato a lungo col supporto di qualche consulenza esterna) che non ha potuto riempire un sostanziale vuoto strategico e decisionale. Non si può far carico alla sola AC di questa carenza, la quale è piuttosto il riflesso di una fase di incertezza generale, in cui la città sembra incapace di immaginarsi un futuro, sia rilanciando sul porto e sul turismo sia, soprattutto, trovando altre risposte alla crisi.
Al confronto degli ultimi due, i precedenti Piani danno il senso di una maggior incisività, ancorché talvolta perniciosa.
Il primo piano approvato a norma della L1150/1942 fu il Prg 1959. Nei confronti del centro città, il Prg 1959 portava avanti il processo di sostituzione edilizia dei quartieri storici orientali iniziato tra le due guerre, al fine di realizzare un asse di attraversamento mare-monti e di costruire nuovi quartieri direzionali ad alta densità. I danni di quelle operazioni ebbero come reazione (a partire dagli anni 1980) l’inizio di una tutela attiva di ciò che restava (per fortuna la maggior parte) del centro storico. Il principale elemento di novità del Prg 1959 consisteva nel fatto che per la prima volta un solo Piano comprendeva l’intera conurbazione genovese, diventata nel 1926 un unico Comune; tuttavia il Piano non provò neppure a disegnare una nuova grande città, estesa da Voltri a Nervi, ma si limitò a dar continuità alle aree di espansione che andarono a colmare ogni interruzione dell’urbanizzato e che dalla costa e dai fondovalle risalirono i versanti sino alla quota di 400 metri. Come molti della sua generazione, quel Piano servì a placare la fame di case producendo quartieri insopportabilmente densi, con gravissime lacune nelle dotazioni di servizi e urbanizzazioni primarie. Effetti collaterali, in un territorio orograficamente complesso qual è quello genovese, furono il restringimento e la copertura degli alvei torrentizi e gli estesi sbancamenti collinari che determinarono un diffuso disordine idrogeologico. Il 21 marzo 1968, dopo una pioggia intensa, una frana investiva un edificio di via Digione, poco sopra il porto, uccidendo 19 persone; due anni dopo l’intera città fu colpita da un’alluvione disastrosa, la prima di una lunga serie che arriva fino ad oggi. Pur senza esserne la causa, il Prg 1959 aveva contribuito ad aggravare lo stato di rischio ambientale.
Non ancora del tutto consapevole dell’emergenza che si era venuta a creare e della necessità di intervenire al più presto per ridurla, il Prg1980 si concentrò su altri guasti del piano precedente: in particolare, circoscrisse e mise sotto tutela i centri storici e individuò tutti gli interstizi rimasti tra il costruito per destinarli a servizi. La scelta strategica più caratterizzante consistette nell’assicurare la maggior disponibilità possibile di aree industriali, allo scopo di favorire il nuovo insediamento di attività produttive che fornissero alternative occupazionali a fronte della crisi ormai irreversibile della grande industria di Stato; ma i risultati di questa scelta furono scarsi. Sorsero invece nuovi quartieri collinari, previsti soprattutto per soddisfare la domanda di edilizia residenziale pubblica e convenzionata, che certamente non migliorarono gli equilibri idrogeologici.
Negli anni 1990 i Piani di bacino intervennero a mettere in luce la gravità e l’estensione delle condizioni di rischio; ma ne sono seguiti pochissimi interventi riparatori, sicché la città è rimasta estremamente vulnerabile, come l’alluvione dell’autunno 2011 ha drammaticamente dimostrato.
Il rischio idrogeologico è così tornato alla ribalta, ma esso non è il solo che minaccia la città. Un altro (oggi assai diffuso) è rappresentato dall’impossibilità di dare esecuzione ai progetti per scarsezza di risorse (cfr. Capurro e Soppa, ivi) ma ancora più preoccupante è il continuo dibattersi della città nell’incapacità non solo di trovare nuove idee di rilancio, ma di decidere dove e come realizzare quelle infrastrutture e quei servizi senza i quali Genova sta scivolando verso uno scadimento delle prestazioni, rispetto alla media delle città europee con le quali naturalmente si pone a confronto per ruolo e dimensione.
Di qui il profilo di una città a rischio di scivolare in basso nella gerarchia urbana e di essere sospinta ai margini delle grandi reti – continentali e marittime.
Un possibile auspicio è che l’attuale fase di rimescolamento della politica nazionale e la stagione dei rinnovi amministrativi a livello locale forniscano le occasioni per un cambio radicale di prospettive.
Non sarà un nuovo Puc a salvare la città, ma quello adottato, che per la prima volta contiene qualche elemento utile a ridurre il rischio ambientale, nel prosieguo del suo iter potrebbe darsi contenuti utili a favorire un reale rilancio, sulla base di una visione del futuro ancora tutta da costruire.
[1] Questi e i successivi dati, se non diversamente indicato, provengono dall’Ufficio statistica del Comune di Genova.