Il distacco con cui il mondo della politica e delle istituzioni guardano alla città e al territorio è molto preoccupante. Sembra esaurita la spinta che, negli anni passati, faceva fluire classe dirigente “locale” verso più generali responsabilità nazionali. Un ruolo dirompente in grado da delineare addirittura possibile “partito dei sindaci” quale aggregazione politica capace di guidare il paese. L’attualità ci ripropone,invece, altre tipologie professionali da cui si sta attingendo per tentare un improbabile rinnovo della classe dirigente: accademici con agganci internazionali, magistrati e, come new entry, giornalisti prevalentemente della carta stampata. I leader politici delle città sono oggi impegnati a rincorrere le molteplici emergenze sociali proposte dalla prolungata crisi recessiva,vengono colpiti da una riduzione di finanziamenti pubblici senza precedenti e bloccati dal patto di stabilità persino nell’uso di risorse finanziarie proprie, virtuosamente accantonate.
La città come intreccio di economia e sociale ristagna, mentre rischia l’agonia l’ industria delle costruzione e il complesso sistema immobiliare, un mercato che in pochi anni ha dimezzato il suo volume di attività, con conseguenze occupazionali gravissime. Ma sono problemi che non fanno notizia, che non hanno sponsor mediatici e sono troppo distribuiti per creare casi eclatanti.
A mantenere vivo il dibattito sulle problematiche urbane restano certamente i professionisti e gli intellettuali più vicini al settore. Ma neanche tanto. In una recente assemblea pre-elettorale gli ingegneri, ad esempio, hanno presentato la loro “agenda” ai candidati e alle forze politiche. Gli impegni richiesti riguardavano tre punti:sicurezza degli edifici, risparmio energetico e sviluppo delle piattaforme pubbliche di “open data”. Evidentemente, anche da un punto di vista del mercato professionale, l’urbanistica e le trasformazioni territoriali non vengono più ritenute interessanti.
Resta il baluardo dell’Inu, una rete attiva e funzionante. Ma dobbiamo chiederci quanto “buca” il nostro Istituto nell’opinione pubblica, quanto la sua elaborazione culturale è in grado di smuovere una palude culturale onestamente tenuta insieme più dal conformismo dei luoghi comuni, che dalle sfide innovative.
Eppure mai come in questi anni la città è il vero fulcro delle dinamiche produttive, una macchina complessa dove nasce l’innovazione, dove si concentrano non solo il capitale umano più qualificato, ma le risorse demografiche tout court. È un “concentrato” di capitale umano con tutte le sue contraddizioni, ma anche con una straordinaria forza di aggregazione. Sono presenti nelle città le maggiori diseguaglianze sociali, ma al tempo stesso la possibilità concreta di venir fuori da una crisi che si presenta più lunga,pesante ed enigmatica rispetto a quelle del passato. E come non accorgersi che nel vecchio mondo sviluppato, come nei paesi che si stanno affacciando a più alti livelli di sviluppo, la dimensione metropolitana fa da guida a tutte le tendenze socio-economiche.
Si dice che l’automobile sia stato il prodotto simbolo dell’era industriale, credo a buona ragione che la città rappresenti il “prodotto” materiale dell’era digitale. Un’ affermazione eventualmente da contestare, ma certo da non accettare a cuor leggero, perché da essa discendono impegnative conseguenze.
Se il territorio non è supporto dell’innovazione, ma è esso stesso produttore di valore in quanto sistema complesso di attività, non semplice oggetto di sviluppo costruttivo, ma matrice di relazioni,anche l’urbanistica deve portare il suo campo di azione in una dimensione congruente con questo approccio. È forse indispensabile tornare su un terreno ideativo, irrobustire le tecniche di gestione dei processi, dando per questa via un senso alla prevalente funzione regolativa, divenuta in taluni casi esasperatamente burocratica e da legulei.
Il 2013 è certamente un anno di passaggio politico e il rinnovamento delle istituzioni nazionali può dare spazio a rilanciare il dibattito a partire da un Manifesto per la Città e il Territorio, magari da condividere con le forze sociali,associative e imprenditoriali. Una proposta secca di dare alle politiche urbane un senso nazionale, una direzione di marcia per collocare il nostro paese dentro la globalizzazione. Nessuna normativa urbanistica quadro verrà mai alla luce – prova ne siano le ultime legislature – fin quando non sarà comunemente accettato che, fatta salva l’autonoma responsabilità dei comuni, vi sia la necessità di promuovere politiche a carattere nazionali per il rafforzamento del sistema urbano. Bisogna dare un senso alla rete metropolitana, è indispensabile che per problemi straordinari vi siano investimenti straordinari, da determinare però sulla base di criteri non localistici e scelte consapevoli. Un Piano nazionale non può essere un patchwork di progetti senza definiti obiettivi generali, ma deve lanciare strategie-Paese anche sperimentali e d’avanguardia. Che senso ha, ad esempio, puntare sulla progettualità diffusa in campi come la dotazione di rete a banda larga, che è una pre-condizione per poter incentivare le smart cities. Un Manifesto anche per evitare la cancellazione di un riferimento unitario per le competenze governative in questo campo, proponendo di porre in capo a un Ministro per la città le diverse funzioni di indirizzo generale indispensabili a ritrovare quel motore dell’era digitale che è l’organismo urbano.