Successivamente alla riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001, tra le diverse funzioni ed attività svolte dai pubblici poteri, ha assunto sempre maggiore importanza quella del governo del territorio. Con tale espressione si può intendere “un ampio ‘insieme complesso di funzioni fra loro interagenti’, dal significante fortemente polisemico e che chiama in causa tutte le Istituzioni costituenti la Repubblica che hanno la responsabilità e le competenze delle relative fondamentali attività, fra le quali la funzione e il metodo della pianificazione del territorio" (Barbieri 2023: 162). è questa una concezione decisamente più articolata di quella che all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso ancora si considerava come più accreditata e che vedeva nel governo del territorio il “complesso di istituti che presiedono alla regolamentazione, al controllo, alla gestione dell’uso del territorio” (Morbidelli 1994: 755). Oggi tale concetto traguarda la ‘regolazione dell’uso del suolo’ e si estende all’ambiente e al paesaggio, con ciò riferendosi alla sostenibilità complessa dell’uso e non solo alla legittimità rispetto alle regole dell’uso stesso.
Ma le difficoltà connesse alla perimetrazione di tale concetto risiedono anche in una legislazione piuttosto eterogenea e stratificata nel tempo, il cui ‘cuore normativo’ è ancora, inesorabilmente, rappresentato dalla Legge urbanistica n. 1150/1942, seppur più volte modificata ed integrata in ottant’anni di Repubblica. Ad essa si affiancano, poi, non solo le leggi nazionali, che regolano, in concorrenza con la normativa urbanistica e tra loro, determinati ambiti spaziali di territorio o settori (leggi come quella sulla protezione delle bellezze naturali, o sulla tutela delle cose di interesse artistico e storico, o su parchi, aree protette, bacini idrografici, o ancora le leggi sulle aree destinate all’edilizia economica e popolare, agli impianti produttivi artigianali e industriali, ai grandi esercizi commerciali, ecc.) ma anche le leggi regionali urbanistiche (a partire dall’entrata in vigore del Dpr 616/1977) e settoriali.
Se si considera che a questo – assai folto – insieme di leggi si accompagnano i rispetti strumenti (piani) potrebbe essere un utile esercizio cercare di capire perché il territorio appaia governato (e pianificato) in maniera ipertrofica.
In coerenza con quanto istituito dalla Legge 1150/1942, la pianificazione (dal 2001 quale attività del governo del territorio) è stata per lungo tempo comunemente definita e descritta, secondo autorevole approccio strettamente giuridico, come una “fattispecie procedimentale” di atti del potere pubblico collegati a cascata, l’uno con la funzione di precisare meglio quello che era già stato disposto dal precedente, secondo rapporti di sopra e sotto-ordinazione oppure secondo rapporti dal generale al particolare. In questo modo, “il concetto di pianificazione viene identificato nella disciplina legislativa di un’attività che, pur risolvendosi in una moltitudine di provvedimenti, ne intende mantenere la coordinazione organica e procede attraverso una serie di atti via via condizionantisi dal più generale al più particolare, e cioè dal Piano territoriale di coordinamento al provvedimento con cui viene consentita l’esecuzione della singola costruzione” (Stella Richter 1984: 7). Come è stato osservato (ivi: 8), accettare tale impostazione implica che affinché un determinato territorio possa considerarsi correttamente e compiutamente pianificato, esso deve essere interessato da una molteplicità di strumenti territoriali e urbanistici sovrapposti; il contenuto dei vari atti concatenati fra loro sia necessariamente omogeneo; i piani di più ampio ambito territoriale abbiano un’importanza maggiore rispetto a quelli di ambito più circoscritto, la cui funzione è sostanzialmente esecutiva di quello più generale.
Tale tipo di concezione è stata quella più diffusa, in particolare nella cultura giuridico-amministrativa dell’urbanistica (e rintracciabile infatti nella maggior parte dei manuali di urbanistica di carattere giuridico [1]) tendenzialmente fino a quando non si è riaperto in modo significativo il dibattito sul rapporto fra i diversi livelli istituzionali (e quindi fra i loro atti) concomitante l’approvazione della Legge 142/1990 di riforma dell’ordinamento della autonomie locali, che soprattutto doveva dare definitiva attuazione al principio del pluralismo politico ed amministrativo contenuto nel testo della Costituzione. Ricaduta velocemente nell’oblio, un nuovo impulso alla discussione è giunto solo con l’entrata in vigore della Legge 56/2014 che ha fornito disposizioni su città metropolitane, province, unioni e fusioni di comuni e che, nelle originarie intenzioni del legislatore, avrebbe successivamente dovuto condurre all’abolizione delle province.
Quella sopra menzionata è una concezione che dà per scontata l’identità di funzione di tutti i possibili tipi di piano, i quali vengono distinti unicamente a seconda della maggiore o minore estensione territoriale del loro oggetto, e che sottintende, quindi, che alla maggiore estensione corrispondano più generiche previsioni e viceversa. è, peraltro, ben noto che tale concezione non corrisponda alla realtà effettiva delle cose e neanche alla realtà normativa: l’astratta aspirazione all’ordine sistemico di questa concezione determina solo un appiattimento della rilevanza degli strumenti urbanistici previsti dall’ordinamento giuridico attribuendo loro un’identità di funzione che certamente non hanno e che probabilmente non è corretto che debbano avere.
Altri argomenti a sostegno della critica alla cosiddetta pianificazione a cascata si possono ritrovare con riferimento al fatto che alcuni strumenti di pianificazione, tra quelli previsti per legge, possono anche non essere predisposti senza che ciò condizioni quelli esistenti. è, cioè, possibile che la pianificazione abbia comunque corso indipendentemente dall’esistenza dei piani di contenuto più generale e di più ampio ambito territoriale: infatti è comunemente avvenuto, in Italia, che i piani territoriali o non siano stati predisposti, ovvero lo siano stati successivamente a molti di quelli destinati, secondo la concezione sopra menzionata, ad una funzione tendenzialmente conformativa ed esecutiva. Tale circostanza evidenzia l’erroneità – oltre che l’inutilità – del riferimento alla “fattispecie procedimentale” per spiegare il sistema della pianificazione ai vari livelli.
Inoltre, secondo la concezione a cascata della pianificazione si è indotti a pensare che la titolarità a pianificare spetti in primo luogo all’autorità competente ad adottare il piano di rango più elevato: quindi, originariamente innanzitutto allo stato (che avrebbe dovuto dettare gli indirizzi generali di sviluppo del territorio nazionale) ma soprattutto alla regione, particolarmente dopo l’entrata in vigore del Dpr 616/1977, alla quale è attribuito il compito di dotarsi del Piano territoriale regionale; quindi ad un ‘ente intermedio’ metropolitano o provinciale, cui affidare la redazione di un piano specifico per il proprio territorio e, soltanto alla fine, al comune, le cui attribuzioni del piano urbanistico (comunque denominato nelle diverse regioni) non possono eccedere i confini del territorio amministrato.
È noto che le vicende urbanistiche del dopoguerra hanno dimostrato (Campos Venuti e Oliva 1993) che il ruolo centrale della pianificazione non è stato assunto né dallo stato, né poi completamente dalle regioni ma proprio e soprattutto dal comune, considerato, dalla stessa normativa legislativa, come il vero titolare del potere di pianificazione del territorio al quale va sicuramente ricondotta la responsabilità della conformazione del territorio e delle singole proprietà che lo compongono in quanto è il livello comunale quello in cui vengono, obbligatoriamente e con il piano, definiti gli usi dei suoli.
Sono queste solo alcune delle buone ragioni per ritenere che i principi di base della pianificazione vadano riconsiderati e se ne devono ricercare di nuovi,
L’attuale stadio della società richiede l’attivazione di un nuovo processo di governance della pianificazione, capace di coinvolgere l’intero sistema istituzionale in una politica di governo del territorio strettamente ancorata alla sussidiarietà, alla cooperazione istituzionale, alla copianificazione delle scelte strutturali, alla coerenza e all’efficacia operativa dei contenuti dei piani.
La crescente complessità dei processi di sviluppo che hanno caratterizzato gli ultimi decenni, impone una svolta negli strumenti di governo e nella loro modalità di gestione. Si tratta di una realtà che impone il netto passaggio verso la natura processuale e integrata della pianificazione, che superi quella attualmente vigente costituita dal sistema di piani ‘a cascata’ ordinati gerarchicamente, volti al controllo e alla regolazione dell’uso del suolo, oltre che da piani settoriali redatti da soggetti istituzionali diversi e fra loro sostanzialmente separati.
Occorre uno stile di governo adeguato fondato sulla conoscenza condivisa, sulla sussidiarietà (Giaimo 2022: 5), su metodi e procedure di cooperazione e copianificazione fra gli enti territoriali, di concertazione e partecipazione dei soggetti pubblici e privati
Il governo del territorio va quindi concepito come processo in grado di porsi al centro di un nuovo modello istituzionale, amministrativo e fisico-organizzativo dei tanti territori, sapendo rinunciare a forme gerarchiche e dirigiste e proponendosi come il prodotto di una costruzione collaborativa, partecipata e condivisa con i territori e le rispettive istituzioni, collocandosi entro un più ampio scacchiere di sfide e opportunità.
Attraverso quale piano e quale modo di pianificare si può conseguire tale risultato?
Barbieri C.A. (2023), “Governo del territorio” Urbanistica Informazioni, no. 307, p. 162.
Campos Venuti G., Oliva F. (a cura di) (1993), Cinquant’anni di urbanistica in Italia. 1942-1992, Laterza, Bari.
Giaimo C. (2022), “Trent’anni di sussidiarietà”, Urbanistica Informazioni, no. 302, p. 5.
Morbidelli G. (1994), “Le proprietà, il governo del territorio”, in G. Amato, A. Barbera, Manuale di diritto pubblico, Il Mulino, Bologna, p. 755-767.
Stella Richter P. (1984), Profili funzionali dell’urbanistica, Giuffrè, Milano.
[1] Di fatto sono gli unici manuali che sono stati periodicamente pubblicati. Si vedano in particolare: G. Colombo, F. Pagano, M. Rossetti (1993), Manuale di urbanistica e P. Virga (1991), L’amministrazione locale. Per quanto riguarda invece, la manualistica urbanistica di tipo tecnico, l’impostazione della materia appare in modo sicuramente più articolato. Dopo la stagione manualistica dei volumi di G. Rigotti (1951), Urbanistica. La composizione e (1956) Urbanistica. La tecnica o di L. Dodi (1978, 2° ed.), Città e territorio. Urbanistica tecnica. Va osservato come la manualistica urbanistica non sia più stata prodotta: ciò apre ad ampie riflessioni in merito al carattere del sapere tecnico che caratterizza l’urbanistica e l’attività della pianificazione, le sue radici e, soprattutto la sua stessa evoluzione. In tal senso si rimanda alla nuova Rubrica di Urbanistica Informazioni, inaugurata con UI 307/2023, dedicata alla riforma dei saperi.