In tempo di tagli, quando contano i risultati percepibili immediatamente in termini finanziari, sembra non ci possa essere tempo per costruire ipotesi che sappiano farsi carico delle differenze che contrassegnano i territori. Le proposte diventano quindi banali e si rifanno alla pochezza del riferimento quantitativo della numerosità della popolazione di provincie e comuni; riferimento che a seconda delle convenienze politiche muta giorno dopo giorno.
L’Inu ha valutato il decreto sviluppo evidenziando, con un proprio documento, come “rispetto al “taglio sulla carta” di 30 Province e 1.500 Comuni, al quale non è seguita alcuna proposta di riorganizzazione efficiente e aderente alle realtà territoriali, ben più complesse rispetto al solo parametro numerico utilizzato, riteniamo maggiormente congrua l’adozione di un criterio di accorpamenti e aggregazioni in ragione della programmazione dello sviluppo e del mantenimento della democrazia nei territori, (per questo) è indispensabile un progetto di riassetto che non si fermi alla cancellazione.”
Il tema è da tempo nell’agenda urbanistica italiana, la quale ha sempre proposto la pianificazione intercomunale (così è chiamata nella legge del 1942), oggi compresa nel più appropriato termine di pianificazione associata, come modo di affrontare i temi strutturali dell’ambiente e delle infrastrutture così come quelli strategici della demografia, dei servizi e dei luoghi per la produzione,
Oggi però registriamo alcuni processi che ci costringono in qualche misura a ripensare alle modalità e agli strumenti per affrontare il governo del territorio, i problemi che abbiamo di fronte, infatti, quasi mai possono essere risolti dai singoli comuni (grandi e piccoli) e certamente non possono accontentarsi di soluzioni che si attestano sulla dimensione demografica e territoriale dei confini amministrativi.
È cambiata la città che in molti casi è diventata metropoli ed è cambiato quindi anche il territorio che alcuni chiamano “diffuso”, ma che in molti casi rappresenta una nuova forma che ha assunto la città. Nuova forma che significa: nuovi cittadini, nuove morfologie sociali, nuove domande abitative e nuove domande di servizi.
Sono cambiati i “flussi che impattano sul territorio” (come li chiama Aldo Bonomi) e precisamente i flussi delle finanze, delle migrazioni, delle reti. Flussi, luoghi e territori sono i compiti che deve affrontare la pianificazione, che inevitabilmente deve trovare le geografie locali per affrontarli.
Anche sul versante ambientale se non è cambiata l’idrografia, sono certamente modificati i percorsi degli inquinamenti, così come quelli dei corridoi ecologici da preservare dal consumo di suolo ed è cambiato l’approccio al paesaggio che richiede di attivare non solo tutele ma anche azioni di riqualificazione.
E certamente siamo convinti che oggi più ancora che nel passato esiste il tema dei costi dell’amministrazione e del governo del territorio, costi che impongono, come dice il documento dell’Inu “scelte difficili, ma improrogabili, che dovranno riguardare i cambiamenti dell’assetto istituzionale”.
Per non sottrarsi alla necessità di pensare a politiche capaci di ridurre e razionalizzare la spesa pubblica, senza intaccare il livello dei servizi, come invece si ottiene con tagli generalizzati e indiscriminati, si possono avanzare alcune possibili linee operative.
Alcuni numeri derivanti da tre casi di studio emblematici per la loro diversità: una città metropolitana, una città turistica e un capoluogo di provincia, esprimono in modo inequivocabile la dimensione di un fenomeno ormai strutturale:
a Milano i residenti sono 1.300.000, ma aumentano del 10% (1.450.000) se consideriamo anche chi ci vive senza essere registrato in anagrafe e diventano 1.850.000 comprendendo chi ci vive di giorno (studenti e lavoratori pendolari, ospiti negli alberghi, lavoratori del terziario professionale);
nel comune di Venezia sono pari al 14% gli abitanti stabili senza avere la residenza anagrafica;
a Bolzano i residenti registrati in anagrafe sono il 74% della popolazione che vive giornalmente in città.
Non possiamo cioè più accontentarci di misurare la popolazione attraverso l’anagrafe e gli stessi strumenti di governo come i piani regolatori, i piani dei servizi e il trasporto pubblico devono ridisegnare aggregazioni che (almeno intorno alle città capoluogo) possano costruire nuove geografie amministrative e/o aggregati di comuni certamente più efficaci e razionali, anche in termini di spesa, della soppressione dei piccoli comuni.
Anche nel caso dei piccoli comuni di montagna una riorganizzazione amministrativa che sappia leggere la geografia delle valli congiuntamente con il tema dell’accessibilità ai servizi costituisce un percorso che può risultare virtuoso sia in termini ambientali, paesaggistici sia come risposta ai bisogni sociali, ma anche economici della montagna; un disegno di riaggregazione amministrativo, dei servizi che possa guidare anche un ridisegno economico delle strutture di vendita, delle aree produttive e della mobilità.
Il tema della difesa del suolo e della gestione delle risorse idriche ed energetiche costituisce un ulteriore capitolo capace di guardare ai temi dell’area vasta superando senza annullare l’esperienza maturata dalle provincie (grandi e piccole).
La riorganizzazione amministrativa è oggi una necessità di governo, non solo per contenere la spesa. La proposta di sopprimere comuni e provincie appare semplice ed efficace basta scegliere una soglia demografica e/o territoriale, ma in questo modo non si affrontano le dinamiche reali che investono i territori e soprattutto non si affrontano i temi strutturali e strategici che i nuovi flussi producono.