Oggi, in Italia, è ancora utile ragionare in termini di piano? E se la risposta fosse affermativa, di che tipo di piano dovremmo trattare?
Sono domande che nel nostro Paese tornano continuamente ad affiorare divenendo luoghi comuni di un costume nazionale spesso incline al più disincantato cinismo, all’insofferenza verso qualsiasi forma di regola. Simili luoghi comuni trovano il proprio terreno fertile di attecchimento nello ‘stato di eccezione’, nello ‘stato di urgenza’ e nello ‘stato di deroga’, dove l’altra faccia della medaglia consiste nel perseverare a riprodurre soluzioni e schemi concettuali rassicuranti, quanto anacronistici.
Riemerge, tuttalpiù, in forme sempre differenti, la tendenza a superare le rigidità del vecchio modello urbanistico regolativo, affidandosi a più circostanziati progetti urbani per meglio interpretare la complessa realtà in divenire e in grado di ri-definire o modificare di volta in volta il quadro di coerenze e di prospettive entro il quale agiscono. Con una tendenziale inerzia nel concepire una forma di piano alternativa al Prg, alle anacronistiche logiche che lo costituiscono, basate essenzialmente sui principi di ‘conformità’ e ‘conformazione’.
Nei casi in cui qualche forma di piano generale venga ancora ritenuta utile, appare ancora controverso, oggetto di critiche e di radicati fraintendimenti, che questa debba costituire ‘una struttura’ o assumere un ‘carattere strutturale’. Ciò non è imputabile solo alle modalità e caratteristiche del dibattito interno alla cultura urbanistica, alle sue scuole di pensiero, alle sue divergenti posizioni e affiliazioni. Su queste posizioni critiche pesa la non sempre facile, ma condizionante, ‘traduzione’ sperimentata da altri contesti stranieri: primo fra tutti, quello anglosassone, che alla fine degli anni ’60 ha visto introdurre il ‘piano di struttura’ con il Town and Country Planning Act del 1968. Nell’ordinamento britannico, che nella precedente legge del 1947 aveva già risolto i nodi giuridici della regolazione dei diritti di edificazione, il ‘piano di struttura’ costituiva uno strumento di pianificazione indicativa e flessibile. Non necessariamente espresso in forma grafica, consentiva di rimandare ai piani locali la regolazione specifica degli usi del suolo, concentrandosi sulla formulazione di strategie generali di assetto urbanistico, integrate ad altre politiche (sociali, della mobilità, ecc.). Nei casi più studiati e noti, ciò consentiva di distinguere tra decisioni strategiche, che afferivano al piano strutturale, e decisioni tattiche, che afferivano al piano locale, in una accezione differente da quella che oggi usiamo comunemente. Ponendo in rilievo quanto quel sistema di pianificazione già agisse secondo principi che potremmo sicuramente definire di ‘coerenza’ e non di ‘conformità’.
È sempre difficile operare trasposizioni da contesti e culture assai differenti dalle nostre. I limiti e le critiche oggi riferibili a quel sistema di pianificazione altrettanto non possono essere trasferiti attraverso semplici automatismi, senza tenere conto delle differenze sostanziali tra i due paesi e del contesto storico e culturale che le ha determinate.
In Italia, la componente ‘strutturale’ del piano urbanistico si concretizza a partire dalla proposta di riforma dell’Inu del 1995, rispondendo all’eccessiva rigidità previsionale del Prg, e alla prassi della “variante continua”. La componente ‘strutturale’ era strettamente connessa a quella ‘operativa’, in un rapporto ispirato al principio di coerenza. Tali componenti costituivano specifici strumenti e dimensioni della pianificazione locale: il ‘piano strutturale’, con carattere programmatico, non conformativo dei diritti edificatori e non vincolistico permetteva di superare le difficoltà legate alla durata e alla decadenza dei vincoli, garantendo la necessaria visione strategica; il ‘piano operativo’, non inteso quale strumento attuativo del piano strutturale, ne traduceva progettualmente e coerentemente le indicazioni, garantendo, così, quella flessibilità, assente nella gestione dei Prg.
L’influenza della proposta Inu del ’95 sulla riforma delle leggi regionali e sui relativi processi di pianificazione è stata spesso attenuata da fraintendimenti che attengono alla corretta interpretazione delle tre componenti del piano (strutturale, operativa, regolativa) e da una reale applicazione del principio di coerenza, privilegiando la dimensione della conformità. Ciò può essere colto in un’ampia casistica: dal modo di concepire la componente strutturale dal carattere progettuale e non esclusivamente ricognitivo, le sue forme di rappresentazione, le relazioni con le altre dimensioni del piano, la sua intrinseca progettualità strategica.
Più in generale, il riferimento a un disegno generale strutturale-strategico che utilizzasse la forma programmatica e non conformativa comune a tutte le esperienze europee più avanzate. Non un quadro completo, apparentemente razionale, di regolazione dell’uso del suolo e di conseguente conformazione edificatoria, come ancora oggi si continua a riproporre in molti contesti.
Al carattere strutturale dovrebbe infatti corrispondere l’essenzialità delle sue indicazioni, l’impronta strategica e la natura esclusivamente programmatica, non prescrittiva e non vincolistica. Gli compete la selettività, la rappresentazione di indicazioni opportunamente selezionate rispetto ai due telai fondamentali sui quali orientare il futuro assetto del territorio: mobilità ed ecologia, ambedue necessarie per garantire efficienza e sostenibilità e per valutare i futuri progetti operativi. Un quadro quindi di riferimento utile per valutare i vantaggi e gli svantaggi di una certa trasformazione, necessariamente territorializzato, basato cioè su un disegno esprimibile cartograficamente e, pur indicativamente, impegnativo.