Prove di riforma è il titolo dato all’apertura del numero 244 di Urbanistica Informazioni dopo la fine dell’esperienza del governo Monti. “Prove di riforma” perché che alcuni ministri avevano presentato interessanti proposte normative, anche se in assenza di un piano coordinato, sul consumo di suolo, contro il dissesto idrogeologico, per il riordino amministrativo e istituzionale di provincie, città metropolitane e comuni e perché era stato dato avvio al piano nazionale per le città.
Nel frattempo c’è stata la campagna elettorale, l’elezione del Presidente della Repubblica e la nomina del nuovo esecutivo senza che al centro (anzi è stata proprio assente) di questi passaggi e soprattutto dell’agenda del nuovo governo venissero poste le politiche urbane e di tutela del territorio.
Siamo costretti, quindi, a porre all’attenzione, anche di questo governo, il tema di “una nuova legge nazionale di governo del territorio che affianchi e promuova azioni indispensabili e coordinate di stimolo alla riqualificazione urbana in luogo del consumo di suolo e di prevenzione del rischio idrogeologico in un territorio come quello italiano” Lo affermiamo con convinzione perché riteniamo che “la prevenzione diffusa conviene, sia perché protegge i cittadini dalle catastrofi sia perché può svolgere un’utile funzione anticiclica in termini economici in un momento in cui il comparto dell’edilizia vive una crisi senza precedenti“ [1].
Nel richiedere al governo di mettere al centro città e territorio e quindi di affrontare la riforma urbanistica che attende da oltre un decennio una legge dello Stato a completamento delle riforme regionali già approvate, è indispensabile produrre una riflessione sugli strumenti, i piani, sulla loro efficacia e sulla necessità di ridefinirne forma e contenuti alla luce di tre importanti fattori, strettamente interconnessi tra loro, che hanno profondamente modificato gli scenari negli ultimi vent’anni rispetto al periodo precedente:
l’obsolescenza di gran parte del patrimonio edilizio esistente;
i processi di dispersione residenziale;
il pendolarismo e la congestione del traffico;
il tutto accompagnato da una debolezza della pianificazione di area vasta con vistose incoerenze tra piani del comune capoluogo e quelle dei comuni contermini e la debole capacità di regia da parte delle amministrazioni pubbliche soprattutto nei casi complessi dove è necessario gestire gli interessi sia degli abitanti che degli operatori privati.
A sostegno di questa riflessione su cause e possibili politiche attivabili si fa riferimento ai dati e al documento prodotto da Ance e Censis dal titolo “Un piano per le città – Trasformazione urbana e sviluppo sostenibile”.
Il patrimonio residenziale italiano è stato costruito rapidamente negli anni della ricostruzione e del boom edilizio con disegni urbanistici poveri, di scarsa qualità edilizia e carente di reti infrastrutturali: il 55% delle famiglie occupa un alloggio realizzato prima del 1971.
Le trasformazioni e la riqualificazione del patrimonio abitativo esistente sono un terreno poco esplorato dalle pratiche urbanistiche nelle nostre città, mentre bisogna guardare a questo come una risorsa oggi mal utilizzata che richiede un recupero di qualità e di funzionalità con particolare attenzione al risparmio energetico e alla necessità di dare risposte alla nuova domanda abitativa. Le detrazioni Irpef del 55% sulle riqualificazioni energetiche hanno funzionato per la loro semplicità, ma hanno riguardato per la maggior parte interventi elementari come la sostituzione di infissi, mentre sarebbe importante lavorare per prestazioni da conseguire per il patrimonio esistente, come proposto dalla certificazione CasaClima adottato dalla Provincia di Bolzano.
Intervenire sul patrimonio esistente, sulla città connotata da bassa qualità può rappresentare anche l’opportunità per dare risposte più efficaci alla domanda abitativa legata all’incremento del numero delle famiglie. Siamo infatti in presenza di un grande patrimonio sfitto e sotto utilizzato e i mutamenti sociali hanno prodotto un mutamento della domanda. La possibilità di frazionare il patrimonio esistente articolando l’offerta può rispondere alla evoluzione della domanda e della struttura familiare.
Si tratta di lavorare contemporaneamente a processi di sostituzione e di densificazione con l’obiettivo di risparmiare territorio, rinnovare il tessuto edilizio, produrre un ridisegno degli spazi pubblici e delle zone verdi operando con il diretto coinvolgimento degli abitanti e in partnership tra amministrazione, imprese e proprietari, proponendo incentivi chiari e utilizzando gli oneri concessori direttamente nelle aree di intervento per migliorare la qualità urbanistica.
I processi di dispersione residenziale sono sintetizzabili con pochi numeri: le dinamiche demografiche delle grandi città italiane nel periodo 1991-2011 hanno fatto registrare un saldo positivo di 1,05 milioni di abitanti come risultante di una perdita di popolazione di 395 mila abitanti del capoluogo a cui ha corrisposto un incremento di 1,45 milioni di residenti nel resto della provincia.
La casa in proprietà e i valori immobiliari hanno alimentato uno spostamento continuo verso le seconde e le terze cinture urbane. Processo che ha alimentato l’esplosione del pendolarismo verso i centri dove si continuano a localizzare lavoro e servizi. Questo modello espansivo ad alto consumo di suolo è rimasto dominante e così anziché trasformare le aree interne già urbanizzate si è costruito soprattutto nei comuni esterni dove i piani urbanistici erano più permissivi, i costi delle aree più bassi e le tipologie più vicine ai desideri dell’utente.
Sono stati gli investimenti e le scelte della pianificazione urbanistica, in sintesi la remunerazione della rendita, ad alimentare il consumo di suolo e non certo le dinamiche demografiche, infatti quando il consumo è diminuito come nella recente crisi è avvento per effetto della congiuntura e non per scelta.
Le città italiane sono malate di traffico, quasi tutti gli spostamenti avvengono con il mezzo individuale quando il trasporto collettivo sarebbe di gran lunga più conveniente in termini economici e di impatti. Nelle valutazioni sia nazionali sia locali i sistemi di mobilità non vengono riconosciuti quali strumenti di sviluppo economico, di competitività e di sostenibilità ambientale. Sullo squilibrio modale e sul ritardo infrastrutturale delle città italiane i dati e le diagnosi sono conosciute (Isfort 2011). Un aspetto va però segnalato ed è la mancata coerenza tra pianificazione urbanistica e pianificazione infrastrutturale. La dispersione territoriale degli ultimi anni è avvenuta in assenza di una logica legata alla dotazione infrastrutturale, si è basata unicamente sul sistema di accessibilità incardinata sull’auto privata. Anche in questo caso un dato da solo spiega il fenomeno: sul totale degli spostamenti in Italia, quasi tre quarti riguardano un raggio inferiore ai 10 Km, un dato che rafforza l’ipotesi che occorra investire su ferrovie urbane, metropolitane e tramvie. Così come occorre lavorare su ipotesi di densificazione nelle aree adiacenti ai nodi della mobilità pubblica (stazioni e fermate).
La scommessa è quella di una nuova stagione di piani e politiche per le città e il territorio che, abbandonato lo strumentario che ha sostenuto l’espansione e la diffusione insediativa, guidino un processo di densificazione e sostituzione sfruttando al meglio le risorse esistenti all’interno delle città e risparmiando territorio.
[1] L’Inu e gli ordini professionali a Enrico Letta: Città e territorio ora si cambi