Dal 2000, anno intorno al quale le più importanti leggi regionali di riforma urbanistica sono state varate, molte cose sono cambiate sia nel contesto locale che globale e molti passi in avanti sono stati compiuti nella direzione di migliorare piani e politiche territoriali
Oggi ci si deve misurare con la complessità dei cambiamenti che continuamente scompongono e ricompongono la realtà socio economica e territoriale, processi che indicano la necessità di riconsiderare politiche e azioni nel quadro dei nuovi scenari che si vanno a delineare e tra questi in primo luogo:
l’allarme sui cambiamenti climatici ribadito anche alla recente conferenza di Durban 2011 dove è stato possibile coinvolgere un numero crescente di Paesi e a sottoscrivere accordi per contrastarne l’evoluzione entro il 2020;
i processi di metropolitanizzazione; la continua crescita della città diffusa che genera alti consumi di suolo, diseconomie di scala e una progressiva disarticolazione delle funzioni urbane;
la minore disponibilità di fondi per gli investimenti sia da parte pubblica che da parte privata.
Contemporaneamente da decenni si va affermando che il territorio è una risorsa limitata, che la priorità è il recupero e la riqualificazione urbana, e che servono nuovi strumenti in quanto quelli a disposizione sono stati pensati in un’altra epoca in un altro scenario: quello della crescita per diffusione. Da decenni però i processi urbanistici hanno fatto registrare il proseguimento indisturbato di quel modello che nonostante i costi, soprattutto infrastrutturali, risultava più semplice, più condiviso. Per contro nelle nostre città (grandi o piccole che fossero) si sono moltiplicate aree e edifici dismessi senza che operatori pubblici o privati fossero capaci di tradurre i tanti progetti in opere.
Oggi, segnati dalla crisi, tutti siamo costretti a rivedere convinzioni, modelli operativi e a misurarci con nuove sostenibilità anche economiche. I processi di recupero e riqualificazione urbana non sono più solo una opportunità, ma stanno diventando l’unica modalità possibile di intervento nelle città.
Ai tradizionali vuoti urbani determinati dalle aree dismesse (industrie, scuole, ospedali, caserme, ecc.) si sommano nuovi spazi e nuovi edifici prodotti dal cosiddetto federalismo demaniale, incidendo in modo sostanziale sui valori dei beni e sulle reali potenzialità di valorizzazione di tali beni. Per lungo tempo infatti nel nostro paese, anche in ragione della bolla immobiliare, le aree dismesse sono state molto sopravalutate e i progetti di trasformazione caricati conseguentemente di volumi, fenomeno quest’ultimo che lungi dal premiarli spesso ha prodotto soluzioni non accolte sul mercato.
La fase che stiamo attraversando, pur nella crisi, sembra indicare una soluzione tutta orientata alla qualità urbana, alla densificazione senza che questo significhi sempre riempimento, all’aumento delle dotazioni urbanistiche e non ultimo alla infrastrutturazione delle reti per la mobilità.
La vera scommessa sembra essere quelli di operare con valorizzazioni minori, ma con una maggiore attenzione per la città pubblica; una scommessa che coinvolge anche gli operatori privati i quali non a caso sono in prima linea nel sostegno agli interventi normativi e progettuali indirizzati alla rigenerazione urbana.
In altri termini significa superare la logica semplice del Piano Casa, che poco o nulla è riuscita a produrre, per assumere l’ipotesi di riqualificazione urbana investendo i processi di dismissione, ma anche avviando nuovi processi di sostituzione nei confronti degli spazi e del patrimonio degradato dal punto di vista urbanistico, edilizio ed energetico.
La crisi agisce anche sul piano del governo amministrativo del territorio, e oggi tutte le riflessioni, i programmi e i progetti sono necessariamente obbligati a misurarsi con la dimensione globale dei fenomeni. La situazione del territorio è talmente interessata dai processi, generati dall’intreccio degli scenari globali e locali che rinchiudersi entro i confini amministrativi comunali rende impossibile affrontare i problemi.
Sono passati vent’anni (come dice l’Assessore Ida Curti in questo numero) senza che le Città Metropolitane abbiano visto la luce e, nonostante esperienze di cooperazione in alcuni settori, in questi anni è mancata una sufficiente consapevolezza dell’importanza e della imprescindibilità di procedere lungo questa strada.
Oggi siamo di fronte alla necessità di lavorare contemporaneamente in una duplice direzione:
da un lato i fenomeni richiedono di affrontare temi concreti quali quelli della mobilità, della residenza sociale, dell’accessibilità ai servizi alle persone e alle imprese, del consumo di suolo, ad una scala vasta e a geografia variabile secondo le dimensioni dei temi;
dall’altra le soluzioni di architettura istituzionale in corso, dalle norme per l’attuazione del federalismo fiscale, alla definizione delle città metropolitane, fino all’abolizione delle provincie, richiedono di dare risposte anche istituzionali e di misurarsi con i perimetri amministrativi.
Le condizioni legate alle dinamiche in atto ci pongono nella prospettiva di superare difficoltà incontrate nella costruzione delle città metropolitane attraverso una operazione puramente amministrativa, affrontando invece la necessità di sviluppo connessa con la competitività dei sistemi urbani nell’ambito dell’Unione Europea.