State lontani da "paesini", da "montagnine" e facili proclami. Se c’è una cosa che questi tre mesi di emergenza sanitaria ci hanno insegnato è che la scienza e la managerialità vanno di pari passo. Anche per ridare spazi e dignità alla metà del Paese, al 54% dell’Italia che è montano. Devono agire insieme, scienza e capacità manageriali, per consentire le opportune scelte da parte delle Istituzioni. Non ci si improvvisa mai. Sarà per questo che quando sul tavolo arriva la domanda "da dove riparte la montagna" dopo la pandemia, ovvero quali sono opportunità e assi di lavoro per saldare il Paese e contrastare abbandono e spopolamento. In prima battuta, è bene analizzare le parole adeguate e misurare le opportunità. E non banalizzare usando parole che sono scariche di contenuti e buone per qualche evocazione da salotto. Lasciamo fuori dalla porta “montagnine da riabitare”, “affascinanti paesini”, “borghi turistici”. Perché da marzo a oggi, la montagna, i territori alpini, i borghi appunto, il “riabitare l’Italia” (secondo l’importante studio di Antonio De Rossi e Carmine Donzelli), sono entrati tra i termini più usati e anche abusati nel corso della pandemia. Li hanno usati i noti architetti descrivendone le potenzialità, di questi borghi, e ricollocandoli nello scenario urbanistico nazionale. Ne hanno parlato Ministri e Parlamentari, inserendoli in interviste e anche atti nelle Aule parlamentari. Ne hanno analizzato potenzialità giornalisti, economisti, sociologi. Come i borghi rispondono, hanno risposto e cosa offriranno in uscita dalla pandemia. Luoghi dove vivere, abitare e fare impresa. Piacciono quei borghi, ma per chi se ne occupa da decenni, è bene star lontano da ogni retorica. E stanare facili entusiasmi.
Ne hanno parlato anche i grandi giornali internazionali, Telegraph e CNN. Nei borghi alpini e appenninici, non c’è solo spazio per svago e relax. Anche se i flussi estivi saranno in crescita, proseguendo un trend che negli ultimi cinque anni è stato molto postivi, complici le reti dei “più belli” degli “autentici”, delle bandiere arancioni e via così. Si compone un itinerario, su e giù per l’Italia, e si parte. Ma non basta. I borghi sono luoghi dove abitare, dove fare impresa, dove vivere tutto l’anno. È una bella sfida. Eppure la ricerca di luoghi esterni alle aree urbane è in crescita. Una casa da ristrutturare costa come un garage a Milano. Bonus ed Ecobonus agevolano il percorso per la ristrutturazione. Il contesto ambientale, lo scenario paesaggistico, sono ben diversi da quelli di certe città un po’ stanche e non sempre capaci di ripensarsi. Vivere in un paese, in un piccolo Comune, con tutti i servizi, con una buona connettività, in una comunità che accoglie. Tre desiderata che arrivano via mail con le richieste di giovani e famiglie: "vorrei trasferirmi, lasciare la città", "aiutatemi a trovare una casa e anche un lavoro". O ancora: “avrei bisogno di qualche incentivo”, “lascio la città per avviare un’impresa agricola o una struttura ricettiva”. Roba non semplice certo, ma almeno la volontà esiste. Ci vuole indubbiamente coraggio, ma i dati mostrano che nell’arco alpino, nei Comuni dei fondo-valle, dunque tra i 500 e gli 800 metri di altitudine, la popolazione ha smesso di calare. Con adeguati servizi, investimenti, strategie, in alcune regioni alpine italiane e non solo, anche salendo più su la contrazione degli abitanti è diminuita. Fondazione Montagne Italia analizza da anni questi flussi demografici ed economici. Mancano i distretti manifatturieri, ma agricoltura e turismo sono ancora trainanti. Ma ad aggiungersi vi sono anche altre possibilità di vita nei borghi: il telelavoro, lo smart working a distanza ha mostrato negli ultimi tre mesi che posso fare le stesse cose in via del Corso a Roma, come a Prali in piazza della Repubblica. Sono a casa mia, in un borgo, e non nel mio appartamento in centro, o nell’azienda in periferia. Bastano un computer e una buona connettività. Si parte però dall’avere una casa ed è per questo che i piccoli Comuni stanno avviando, in tante parti d’Italia, delle “mappature” dell’esistente.
C’è una domanda e occorre incrociarla con l’offerta. La cosa meno difficile è trovare spazi fisici. Case. Nei 5.552 piccoli Comuni d’Italia si trova una casa vuota ogni due occupate: solo il 15% di quelle disponibili ospiterebbero 300mila abitanti, e le opere di adeguamento edilizie potrebbero valere 2 miliardi di euro nella rigenerazione e decine di migliaia di nuovi addetti. Numeri importanti che sono però finora solo potenziali. Occorre un piano. In primo luogo fatto di impegno dei Comuni nel mappare case in vendita e in affitto. Secondo fronte è ancor più complesso. Ma lavorare sui servizi è necessario, scuola, trasporti, sanità. Se è vero che qualche giorno fa la Corte dei Conti ha detto che chiudere i presidi ospedalieri territoriali ci ha ridotti impreparati, nel Paese, ad affrontare l’emergenza Covid-19, sappiamo altrettanto bene quante battaglie abbiamo dovuto fare, Amministratori locali in testa, per bloccare lo smantellamento di presidi ospedalieri e assistenziali dai territori montani. Dieci anni. E solo ora, da qualche mese, una norma dello Stato consente di individuare incentivi per i medici di base che mantengono studi nei Comuni montani. Chi si vuole trasferire, cerca servizi. Cerca sicurezza. E cerca connettività. Ecco l’altra grande sfida per rendere competitivi e dare nuova vita ai borghi italiani. Consentire loro di essere nodo della rete. Per questo non è accettabile che il Piano banda ultralarga - per il quale si stanno investendo 3 miliardi di euro di fondi europei - sia in ritardo di due anni. E così non è accettabile che troppi pezzi del Paese – 1200 Comuni secondo l’analisi Uncem - siano senza un adeguato segnale per la telefonia mobile. Sfide moderne. Che richiedono modelli di intervento nuovi.
Quei modelli di intervento che non vedono contrapposizioni tra territori, bensì un patto tra aree montane e zone urbane. Cosa c’entrano Torino e Usseaux, Vallo di Nera e Milano, Nusco e Ancona? Sono pezzi di territorio che solo crescendo insieme nelle opportunità per le comunità che li abitano, nelle scelte di innovazione e di sviluppo, generano la coesione dell’Italia. Nessuno si salva da solo, ha ripetuto il Papa nella Piazza vuota. È così anche per i Comuni, così anche per i territori. Se Torino, Milano, Firenze, le cento città d’Italia e le aree urbane non capiscono che la vocazione naturale non è guardare alla loro crescita individuale, alla competizione tra città, bensì costruire un asse con le aree montane, torneremo a sbagliare rotta. Nel concreto, riprendiamo il percorso interrotto con le Olimpiadi invernali. Torino, ad esempio, ha scordato che le Alpi non sono una bella cornice. Milano ha dimenticato che la montagna non è il parco giochi prolungamento di Brera o dei Navigli. Sono invece, i Comuni montani, i luoghi delle comunità e dei beni collettivi. Luoghi dei grandi bacini idrici e delle foreste che immagazzinano carbonio. Del Territori dove la difesa dei versanti, con il presidio delle comunità, diventa emblematica per proteggere la città stessa. Ecco perché cresce la consapevolezza della necessità di valorizzare i servizi ecosistemici-ambientali che si esprimono sui territori. Riconoscere alla montagna le funzioni produttive - in termini di pil e benessere - nonché di protezione, è un impegno che deve vedere insieme sistema economico e istituzionale. Pubblico e privato.
Non è vero e sarebbe ingeneroso dire che finora è stato fatto niente. Recenti leggi nazionali (e molte leggi regionali) hanno rimesso al centro i territori e le politiche per i borghi. Si riparte non solo guardando all’aumento di turisti nelle prossime settimane, ma si va lontano se le istituzioni sapranno indirizzare e coordinare le tante buone iniziative di soggetti privati e terzo settore. Una politica nazionale per la montagna vuol dire lavorare per ridefinire i livelli essenziali dei servizi. Da ripensare nel dopo Covid-19. E se le sfide della crisi sanitaria si sono gestite e oggi si esce dall’emergenza, resta sul tavolo la necessità di affrontare le sfide della crisi climatica. Per la montagna l’innalzamento delle temperature medie, ha effetti gravi che arrivano prima. Per questo vogliamo essere innovativi ma anche green. Orientati dall’ecologia integrale della Laudato Si. Che pervade comunità e ambiente. Le unisce. Green communities per dirla con la Strategia nazionale del 2015 (con l’articolo 72 della legge 221), che deve essere pienamente attuata insieme al Testo unico forestale per dare un senso a 11 milioni di ettari di bosco, un terzo di Paese.
Erano importanti questi articolati della pandemia, ma lo sono ancor di più oggi impegnando i Comuni a lavorare non da soli ma uniti. La crisi sanitaria ha gettato un faro sui territori. E il territorialismo nascente non è da confondere con municipalismo, o sovranismo municipale. Il patto tra aree montane e urbane è efficace se lavoriamo oltre l’ombra del campanile per comporre una rete forte che ha le comunità al centro. Lontano da facili banalità sul tema e da ogni definizione plastica e retorica di "montagnine" o "paesini". Stiamo in guardia da chi trascina in queste semplificazioni, non solo semantiche. Già possediamo una seria alternativa, una rotta tracciata per il Paese e con tutti i suoi paesi.