Quella del Rapporto Censis 2019 è una società italiana descritta come “ansiosa, macerata dalla sfiducia” in cui, dopo i duri anni della crisi, l’incertezza è lo stato d’animo prevalente con cui si guarda al futuro. Uno stato diffuso che affonda le sue radici anche nel fatto che il riassorbimento dell’impatto della lunga recessione è avvenuto con cambiamenti strutturali importanti, in primis quelli del mercato del lavoro.
Basti pensare che il bilancio dell’occupazione vede una riduzione di 867mila occupati a tempo pieno e un aumento di 1,2 milioni di occupati a tempo parziale. Oggi un lavoratore ogni cinque ha un impiego a metà tempo. Ancora più critico è il dato del part time involontario, che riguarda 2,7 milioni di lavoratori: se nel 2007 pesava per il 38,3% del totale dei lavoratori part time, nel 2018 rappresenta il 64,1%, e tra i giovani lavoratori nel periodo è aumentato del 71,6%. Il risultato è che oggi le ore lavorate sono 2,3 miliardi in meno rispetto al 2007.
La nuova occupazione creata negli ultimi anni è stata segnata quindi da un andamento negativo di retribuzioni e redditi. I lavoratori con retribuzione oraria inferiore a 9 euro lordi sono poco meno di 3 milioni: un terzo ha meno di 30 anni (un milione di lavoratori) e la concentrazione maggiore riguarda gli operai (il 79% del totale). Non stupisce quindi che oggi il 69% degli italiani sia convinto che la mobilità sociale è bloccata. Peraltro il Rapporto ricorda come gli italiani hanno dovuto rinunciare ai due pilastri storici della sicurezza familiare, il mattone e i Bot, a fronte di un mercato immobiliare senza più le garanzie di rivalutazione di una volta e a titoli di Stato dai rendimenti infinitesimali.
Disillusione, stress e ansia originano un sentimento diffuso di sfiducia. Il 75% degli italiani non si fida più degli altri, il 49% dice di aver subito nel corso dell’anno una prepotenza in un luogo pubblico (insulti, spintoni). A questo stato generale sul piano politico corrisponde, secondo il Censis, l’emergere di crescenti pulsioni antidemocratiche. Il 76% non ha fiducia nei partiti (e la percentuale sale all’81% tra gli operai e all’89% tra i disoccupati). Un atteggiamento che apre la strada a tensioni che si pensavano riposte per sempre nella soffitta della storia. Il 48% degli italiani oggi dichiara che ci vorrebbe un «uomo forte al potere» che non debba preoccuparsi di Parlamento ed elezioni (e il dato sale al 56% tra le persone con redditi bassi, al 62% tra i soggetti meno istruiti, al 67% tra gli operai).
In questa cornice generale i temi territoriali trovano, come di consueto, grande spazio anche nella 53° edizione del Rapporto. In questa sede ci si può limitare a fare riferimento a tre questioni tra loro in parte interconnesse: le differenziate e declinanti dinamiche demografiche, il calo degli investimenti pubblici territoriali, la questione sociale delle periferie.
Sul fronte demografico l’Italia del 2019 appare rimpicciolita, invecchiata, con pochi giovani e pochissime nascite. Dal 2015, anno di inizio della flessione demografica, mai accaduta prima nella nostra storia, si contano 436mila cittadini in meno (-0,7%), nonostante l’incremento di 241mila stranieri residenti. Nel 2018 i nati sono stati appena circa 440mila, cioè 18.404 in meno rispetto al 2017. La caduta delle nascite si coniuga con l’invecchiamento demografico. Sulla diminuzione della popolazione giovanile hanno un effetto anche le emigrazioni verso l’estero: in un decennio più di 400.000 cittadini italiani 18-39enni hanno abbandonato l’Italia, cui si sommano gli oltre 138.000 giovani con meno di 18 anni.
Ma è anche l’aspetto territoriale del declino demografico che è molto rilevante. Dal 2015 il Mezzogiorno ha perso quasi 310.000 abitanti (-1,5%), l’equivalente della popolazione della città di Catania, contro un calo della popolazione dello 0,6% nell’Italia centrale, dello 0,3% nel Nord-Ovest ed appena dello 0,1% nel Nord-est. Analizzando territorialmente le dinamiche demografiche del Paese (che rimandano a divari di sviluppo e di crescita economica), appare chiaro che il fenomeno non è riducibile al solo, seppur potente, declino demografico del Mezzogiorno. Il quadro complessivo evidenzia infatti processi di progressivo “svuotamento” di diverse aree del Paese, anche al Nord e al Centro, cui corrisponde in parte (con una dinamica da vasi comunicanti) la densificazione di alcuni pochi assi e poli dove il quadro di opportunità è maggiore.
Oggi l’Italia che attrae, e che quindi cresce anche in termini demografici, è fatta di un numero limitato di aree che disegnano una mappa piuttosto definita. Su 107 province sono appena 21 quelle che non hanno perso popolazione negli ultimi 4 anni, e di queste ben 6 sono in Lombardia, 9 nel nord-est, 4 nell’Italia Centrale (Prato, Pistoia, Roma e Latina) e solo 2 nel mezzogiorno (Crotone e Ragusa) attestandosi peraltro su percentuali di crescita dello “zero virgola”. Guardando ai valori assoluti, l’area milanese (3,2 milioni di abitanti) in soli 4 anni ha aumentato la sua popolazione dell’equivalente di una città come Siena (ben 53mila abitanti in più), cui si aggiungono i quasi 10mila residenti in più della contigua provincia di Monza. Un dato che da un lato illustra bene la potenza attrattiva del capoluogo lombardo e dall’altro spiega la centralità della questione abitativa e lo squilibrio domanda-offerta sul mercato degli affitti milanese. Buona anche la crescita di Bologna (10mila residenti in più in 4 anni), di Parma (+1,4%) e Rimini (+1,1%). E’ invece a crescita zero la grande area romana (4,3 milioni di abitanti) con appena 166 abitanti in più in 4 anni, area che fino a pochi anni fa continuava comunque ad incrementare la sua popolazione pur a fronte di una diminuzione della ricchezza prodotta.
Un secondo tema territoriale toccato dal Rapporto riguarda il problema dell’inadeguato volume di investimenti pubblici territoriali, divenuto sempre più grave ed evidente. Il Rapporto sottolinea come la spesa effettiva pro-capite (non quindi lo stanziato), che si attestava nel 2007 a 836 euro, si è più che dimezzata, scendendo nel 2018 ad appena 371 euro, con un calo del 55,6%. Una criticità che non solo colpisce un importante settore dell’economia italiana, caratterizzato da un forte effetto moltiplicatore su altri, ma che penalizza i cittadini e le imprese incidendo sulla funzionalità dei contesti territoriali. Restano incredibilmente dilatati i tempi medi di attuazione delle opere infrastrutturali che sono pari in media a 4 anni e 5 mesi, ma tale durata cresce progressivamente al crescere del valore economico dei progetti. Si va da meno di 3 anni per i micro progetti (importo inferiore a 100.000 euro) a 15,7 anni in media per i grandi progetti dal valore di oltre 100 milioni di euro. La fase di progettazione presenta durate medie variabili tra 2 e 6 anni, la fase di aggiudicazione dei lavori oscilla tra 5 e 20 mesi, i tempi medi di esecuzione variano tra 5 mesi e quasi 8 anni.
Terzo tema quello del clima sociale dei quartieri delle grandi città italiane, che restano marginali nell’agenda delle politiche nazionali, ma per molte ragioni sono in questi anni al centro di narrazioni differenti perlopiù incentrate sul termine “periferia”. Termine ambiguo, usurato e sicuramente inadeguato e che tuttavia esprime sinteticamente l’idea di una condizione di disagio sociale diffuso alla scala di quartiere, resa più grave dalla carenza di servizi e da una bassa qualità dello spazio urbano ed abitativo.
L’informazione e il cinema, con mezzi e modi diversi, si sono occupati spesso in questi ultimi anni di periferie. Per molte ragioni le periferie di Roma, anche per la difficile fase che attraversa la città, sono al centro dell’attenzione e i suoi quartieri finiscono spesso per assurgere a rappresentanza di una condizione più generale. Nel solo 2019 la periferia romana è stata al centro di reportages televisivi e della carta stampata, in relazione ai fatti avvenuti a Torre Maura, poi a Casalbruciato, quindi a Primavalle. Come in casi analoghi del passato (gli scontri di Tor Sapienza nel 2014), in relazione a ciascuno di questi episodi per alcuni giorni i relativi quartieri sono stati “militarmente” occupati dalle troupes delle tv nazionali e locali, e si è a lungo parlato di un possibile “incendio delle periferie”, spesso facendo largo uso di stereotipi. Col passare dei giorni, finiti gli scontri ed i cortei, anche le telecamere hanno abbandonato la scena e l’attenzione sul tema è scemata rapidamente.
Uno sguardo meno superficiale e veloce di quello della tv è quello offerto dal cinema: specie nelle pellicole di registi esordienti, si registra una rinnovata attenzione al contesto urbano in cui è in qualche modo confinata la vita dei protagonisti, in genere giovani, e la forza dei luoghi della periferia diventa senz’altro un elemento centrale della narrazione. Per ragioni anche produttive (l’industria del cinema si attesta da sempre nella Capitale) Roma, le sue periferie ed il suo hinterland sono diventati protagonisti e sfondo simbolico di tutte le periferie, di cui vengono raccontati soprattutto i conflitti, le carenze, le povertà. In generale la narrazione ha toni duri e scarni, mettendo al centro attraverso la vita “difficile” dei protagonisti alcuni grandi temi sociali: dal precariato alla microcriminalità legata allo spaccio di droghe, dal razzismo all’emergenza abitativa. Quella del cinema è una narrazione, certo spesso efficace, che gioco forza isola alcuni aspetti della realtà e che tende a sovrapporre la condizione topografica periferica, con una condizione sociale e psicologica critica. Anche qui il rischio di cadere negli stereotipi è presente.
Il Rapporto Censis al riguardo ricorda che le specificità esistono e sono importanti e che le periferie sono tante e diverse, da quelle storiche dei grandi piani di edilizia economica e popolare, a quelle delle borgate abusive, fino a quelle più recenti e decentrate dei nuovi quartieri residenziali per il ceto medio. Il carattere eterogeneo delle situazioni locali non riguarda solo la morfologia fisica dei quartieri e la loro origine storica ma è confermato dagli indicatori socio-economici.
Resta che le periferie sono spesso i luoghi più vitali delle nostre città. A Roma, ad esempio, dove in complesso tra 2008 e 2018 la popolazione è rimasta stabile (+0,5%), la periferia storica (Pietralata, Casal Bruciato, Ostiense) ha perso 5-6 punti percentuali, mentre la popolazione del centro storico nel periodo è diminuita addirittura del 30%. Di contro le zone esterne al Grande Raccordo anulare registrano tassi di crescita elevatissimi, in media del 30% con picchi dell’80-90 per cento. A Roma come altrove è grazie alla periferia esterna, oggi una città incompiuta, che la città ha ancora un saldo di popolazione positivo. Per le tante energie che racchiude, è luogo di enormi potenzialità e terreno di lavoro per la costruzione di un abitare capace di creare relazioni sociali positive.