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Patrimonio

Il recente inserimento di una serie di attestazioni di Shakespeare, compresa la sua firma – peraltro assai rara – nella lista del Patrimonio dell’umanità da parte dell’Unesco (2018) fa riflettere su di un sistematico processo di allargamento e parallelo approfondimento del concetto di patrimonio, da una dimensione in origine radicatamente ‘materiale’ a una sempre più estesa e ‘culturale’.

Come noto, il termine patrimonio, profondamente radicato nell’ambito delle lingue romanze (francese patrimoine), e appoggiato ai concetti patriarcale (pater) e morale (munus ossia dovere), conosce l’impiego di un lemma assai diverso nel contesto anglofono. Quivi l’espressione che designa il medesimo concetto è heritage, derivato invece da hereditas, la cui matrice è quell’heredium, ossia l’appezzamento minimo che secondo la tradizione lo stesso Romolo avrebbe assegnato a ciascuno dei suoi compagni all’atto della fondazione di Roma e che poi diventerà la minima dotazione coloniaria. Quindi un patrimonio che è da un lato la sostanza del padre e dall’altra un’eredità che, nata come prima dotazione per la sussistenza della famiglia, ne diventa il lascito. Difficile scegliere quale dei due termini possa essere più evocativo, soprattutto se ricordiamo la bella locuzione ciceroniana “patrimonium paterni nominis” che indica l’eredità della gloria paterna, impiegando il lemma patrimonium e non quello di heredium. Appare quindi evidente come entrambi i termini si ammantino di un doppio significato: quello del valore, poiché considerando sia i beni che fanno la fortuna della famiglia, sia la trasmissione di questi alle generazioni future, di fatto si riassume il concetto perenne della ricchezza (abundantiam, copia, ubertas, che rimanda a sua volta all’idea del suolo ubertoso, ossia produttivo). Quest’ultima annotazione, l’ubertosità come possibilità di produrre altra ricchezza, apre a un’ulteriore considerazione: la capacità del patrimonio di generare a sua volta altro patrimonio, di sostentare con la propria natura copiosa altra copiosità, una declinazione che si sta facendo cogente nel contesto attuale, dove la ‘domanda di patrimonio’, detta in altri termini la richiesta crescente di fruizione del patrimonio, si associa alla ‘domanda di paesaggio’, saturando le città d’arte, ma anche il territorio – in particolare il nostro italiano ed europeo, ad altissima densità di segni tangibili del patrimonio culturale – di visitatori assetati di immagini e di immersione in questa ricchezza e, al contempo, in questa eredità.

Fruizione, quindi, di un patrimonio tangibile, ma anche in larga misura intangibile, nel quale persistono non soltanto i ‘monumenti’ nell’accezione più alta e ormai stabilmente riconosciuta, ma anche quei beni per lungo tempo considerati ‘minori’ e ormai largamente ricondotti alla categoria ben più evocativa del ‘patrimonio diffuso’. Quest’ultimo un patrimonio di impressionante vastità il cui valore risiede nel rappresentare la risposta tangibile e consapevole alla natura dei luoghi, e che sempre più apprezziamo, financo ricerchiamo, quale attestazione di quella capacità squisitamente umana, se necessario, di vivere in stretta connessione con il territorio, così come di costruire sottovoce un paesaggio di duratura identità.

Senza giungere a certe derive proprie della cultura d’oltralpe – come il concetto di un patrimonio pervasivo, il tout patrimoine, con il rischio concreto di uno svilimento viceversa di quelle che restano delle eccellenze assolute nel contesto di un affermato valore complessivo – l’allargamento progressivo e sistematico del concetto può forse indurre a una riflessione regressiva: la nozione di patrimonio è connaturata al nostro sguardo sul mondo?

Se ci limitiamo anche solo al nostro contesto nazionale la risposta è rappresentata da una ‘lunga marcia’ che, in un processo di reductio ad unitatem, muove da quelle “cose di interesse storico, archeologico, artistico, paesistico, archivistico” che caratterizzavano le leggi fondative del 1939 per giungere alla folgorante scelta della Commissione Franceschini (istituita nel 1964) di parlare di Beni culturali (di fatto evitando di scendere nell’agone tra la scelta francese del termine patrimoine e viceversa quella inglese di heritage, peraltro adottata dall’Unesco). “Beni” al plurale e “culturali” come superamento di ogni logica strettamente connessa a un singolo settore dell’umano ingegno o alla dimensione semplicemente paesaggistica (all’epoca paesistica), architettonica o artistica. Da qui al concetto di patrimonio come espressione lata che riconduce alla nozione di ricchezza e alla sua diffusione sul territorio, nel richiamato concetto del “patrimonio diffuso” il passo si fa evidentemente più semplice, anche se vale ancora il richiamo dei grandi esponenti della cultura della conservazione che i termini non vadano mai usati con leggerezza e soprattutto mai abusati, pena la perdita del valore del concetto che a questi si lega e, per estensione, del nostro profondo rapporto con l’’oggetto’ che quel termine indica.

Forse allora il patrimonio resta un concetto alto, difficile da tradurre in parole, ma del quale percepiamo profondamente il senso: anche lui, come noi – avrebbe detto il “barbaro non privo d’ingegno” da cui siamo partiti – “è fatto della stessa sostanza dei sogni” e altrettanto irrinunciabile.

Data di pubblicazione: 29 luglio 2022