Urbanistica INFORMAZIONI

Le politiche che (non) giovano alle città del Mezzogiorno

Alcune novità che hanno interessato il campo delle politiche per le città a livello nazionale fra la fine del 2012 e l’inizio del 2013, inducono a qualche riflessione su problemi e prospettive di siffatte politiche, con particolare riferimento alle città del Mezzogiorno ma con valenza certamente più generale.
Il Ministro per la Coesione Territoriale, d’intesa con i Ministri del Lavoro e delle Politiche Sociali e delle Politiche Agricole, lo scorso dicembre ha presentato il documento “Metodi e obiettivi per un uso efficace dei fondi comunitari 2014-2020”, che apre il confronto pubblico sul nuovo ciclo della programmazione comunitaria. Si tratta di un documento metodologico, volto a migliorare l’utilizzo delle risorse sulla base della valutazione del peggioramento nell’utilizzo dei fondi 2007-13 e i punti deboli della programmazione 2000-06. Esso propone per la discussione tre opzioni strategiche: Mezzogiorno, città, aree interne. La seconda opzione discende dal ruolo più forte che l’Unione Europea chiede di assegnare alle città nel ciclo 2014-2020. I Regolamenti comunitari impongono, infatti, di sviluppare una “ambiziosa agenda urbana” che preveda una chiara identificazione delle risorse finanziarie destinate ad affrontare i problemi delle città e l’assegnazione alle amministrazioni locali di un ruolo più incisivo nell’elaborazione di strategie di sviluppo urbano. La rilevanza attribuita alle politiche per le città traspare dalla dotazione di una sorta di riserva finanziaria pari almeno al 5% delle risorse del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (Fers) e comporta il rafforzamento dell’approccio integrato, la definizione di un elenco di città nelle quali saranno realizzate le azioni integrate per lo sviluppo urbano sostenibile, la istituzione di una piattaforma per promuovere capacità, reti tra città e scambi di esperienze.
In quale cornice culturale, politico-istituzionale ed esperienziale potrà inquadrarsi in Italia detta ambiziosa agenda urbana? La mancanza di una politica urbana nazionale, com’è noto, è un’anomalia nel panorama europeo. La costituzione del Comitato Interministeriale delle Politiche Urbane (Cipu), prevista dall’art. 12 bis del decreto legge n. 83 del 22 giugno 2012 “Misure urgenti per la crescita del Paese”, pur segnalando la consapevolezza del carattere multimensionale dei problemi urbani e della conseguente necessità di una sede di coordinamento delle politiche dei diversi Ministeri, non può essere certo considerata un modo di rimuovere tale anomalia.
Nel frattempo, il Ministero delle Infrastrutture, sempre con il decreto n. 83/2012, lanciava l’ennesimo programma nazionale per la riqualificazione delle aree urbane degradate, il “Piano città”, del quale a metà gennaio si è conclusa la selezione di 28 progetti fra le 457 proposte di intervento candidate dai comuni. Si tratta di un’iniziativa della quale non si può non condividere l’orientamento verso la riqualificazione della città esistente, e con qualche sollievo alla luce dei provvedimenti di deregolamentazione e aumento di cubature a pioggia promossi dal precedente governo. Nello stesso tempo, la portata modesta del “Piano città” è evidente e va ben oltre la limitata dotazione finanziaria. L’iniziativa si pone nel solco della tradizione italiana dei cosiddetti programmi complessi, che interpretano la rigenerazione unicamente in termini fisico-funzionali e che del rapporto fra pubblico e privato enfatizzano l’effetto moltiplicatore di investimenti immobiliari. Non è un caso che la parte del Decreto che tratta del “Piano nazionale per le Città” sia il Capo III “Misure per l’edilizia”. I cinque criteri di selezione, assai generici, sono: 1) immediata cantierabilità, 2) coinvolgimento di soggetti e finanziamenti pubblici e privati e attivazione di un effetto moltiplicatore del finanziamento pubblico nei confronti degli investimenti privati, 3) riduzione di fenomeni di tensione abitativa, marginalizzazione e degrado sociale, 4) miglioramento della dotazione infrastrutturale e 5) della qualità urbana. Il discorso politico ha dato priorità ai primi due criteri e particolare risalto alla necessità di sostenere il settore delle costruzioni in una fase di grave crisi. Da qualsiasi prospettiva lo si guardi, il “Piano città” ben esemplifica lo scollamento fra l’accezione italiana più consolidata delle politiche urbane, e quella comunitaria invece saldamente fondata, già dal primo programma Urban del lontano 1994, su un approccio che coglie le molteplici dimensioni – ambientale, economica, sociale e culturale – della vita urbana nella loro indissolubile interconnessione.
Nel Mezzogiorno, iniziative come il “Piano città” producono anche effetti perversi. Esse tendono a consolidare vizi radicatisi nei comportamenti politici, amministrativi e imprenditoriali nel lungo periodo dell’intervento straordinario: inducono a coltivare quell’atteggiamento opportunistico che porta a interessarsi della città esistente e dei suoi problemi solo allorquando vi siano occasioni di finanziamento da non perdere, a investire in singoli progetti privi di ancoraggio a una visione strategica di medio-lungo periodo, a focalizzare l’attenzione sul “cantiere da aprire” non valutando costi e benefici sociali dell’opera, e non ponendosi spesso neppure il problema della reale possibilità di gestirla una volta realizzata. Il Mezzogiorno, destinatario di fondi europei in misura ben maggiore delle altre aree del Paese, è pieno di esempi di comportamenti distorti di questo tipo.
Il dibattito sulle politiche urbane in Italia è attraversato da evidente ciclicità: a periodi di entusiasmo seguono momenti di disillusione, a discorsi politici e riflessioni tecnico-scientifiche incentrate (ovviamente in modo selettivo e parziale) sui tentativi di innovazione di obiettivi, strumenti e pratiche di governo delle città, si alterna l’attenzione per esiti negativi, promesse non mantenute, e alcuni limiti intrinseci delle politiche così come disegnate. Per la verità, il carattere (auto)celebrativo della narrazione di alcune esperienze è abbastanza chiaro già al momento dell’esaltazione delle magnifiche sorti e progressive dell’umanità impegnata direttamente nelle politiche urbane o coinvolta nella loro osservazione. Tuttavia, tali alterne fortune non possono essere liquidate in termini così riduttivi. Esse pongono il problema della coerenza e continuità di una politica per le città all’altezza del ruolo svolto dalle città nella società contemporanea e, soprattutto per il Mezzogiorno, nelle politiche di sviluppo e coesione.
Politiche urbane capaci di coniugare misure concernenti la riqualificazione delle “strutture materiali” dell’ambiente urbano con misure tese a promuovere l’istruzione, lo sviluppo economico, l’inclusione sociale e la protezione ambientale, sono necessarie soprattutto nel Mezzogiorno. La condizione che caratterizza le aree urbane in questa macroregione, infatti, come opportunamente evidenzia lo stesso documento per l’uso dei fondi comunitari 2014-2020, è la diffusione, ancorché differenziata, di deficit di cittadinanza (dalla sicurezza personale, alla legalità, alla giustizia, all’istruzione, alla qualità dell’aria e dell’acqua, al trasporto pubblico, alla cura di infanzia e anziani, alla rete digitale) e deficit di attività produttiva privata, in primo luogo manifatturiera, ma anche agricola, commerciale e di servizi del welfare.
Dunque, promuovere nelle città del Mezzogiorno azioni integrate per lo sviluppo urbano sostenibile non significa subire acriticamente un approccio elaborato altrove e adatto ad altri assetti politico-istituzionali, condizioni socio-economiche e tradizioni culturali. Al contrario, significa far crescere la consapevolezza delle interdipendenze fra i problemi e dunque della necessità di smettere di trattarli separatamente: come se il consumo del suolo non incidesse sulla mobilità di persone e merci e questa non fosse a sua volta pesantemente influenzata dalla rendita urbana, come se il degrado dell’ambiente fisico non avesse a che vedere con il disagio sociale e la scomparsa della casa dall’agenda politica nazionale, come se l’insicurezza urbana dipendesse da un’illuminazione troppo fioca e non fosse legata anche alla geografia delle fratture e disuguaglianze urbane, alla disoccupazione giovanile, all’abbandono scolastico, alla carenza di attività ricreative e culturali per le diverse popolazioni della città.
Non si possono trascurare le difficoltà di affermazione di un simile approccio. Chi ha lavorato alla messa in opera di politiche di rigenerazione urbana mirate non solo alla riqualificazione fisica (urbanistica ed edilizia), ma anche alla rinascita culturale, allo sviluppo economico e alla inclusione sociale, sa anche che tali politiche implicano l’apertura dell’arena decisionale agli abitanti delle “aree bersaglio” e a stakeholders diversi rispetto a quelli tradizionalmente mobilitati dalla gran parte dei “programmi complessi” di matrice nazionale, fra i quali è evidente il predominio di interessi legati al settore delle costruzioni. Questo richiede un profondo cambiamento culturale da parte di chi ha responsabilità di governo e la capacità di superare gli inevitabili ostacoli frapposti da gruppi di potere politici, tecnici ed economici. Vi è poi il problema, spesso sottovalutato o volutamente occultato, della settorialità dell’intervento pubblico, che, invece, si rileva particolarmente rilevante e ostinato sia nella elaborazione che nell’attuazione di qualsiasi politica integrata.
Le soluzioni, in entrambi i casi, richiedono una forte tensione verso l’innovazione, una sorta di rivoluzione dei comportamenti istituzionali e amministrativi e, quindi, un investimento politico, culturale e organizzativo ingente e continuativo. Alla scala nazionale non solo manca del tutto tale investimento ma, come si è detto, si è assistito negli ultimi anni a interventi banali e improvvisati come il “Piano città” o addirittura regressivi, che rischiano di provocare conseguenze involutive e degenerative anche nelle regioni e nelle città che di tale investimento avevano fatto un punto di forza dell’azione di governo. E soprattutto nel Mezzogiorno, tali interventi vanificano gli sforzi di quei comuni e regioni che cercano di utilizzare la programmazione dei Fondi comunitari per stimolare l’innovazione e produrre esempi di azioni integrate per lo sviluppo urbano sostenibile.
Sottovalutare o ignorare deliberatamente questi problemi nella loro reale portata che coinvolge tanto la sfera cognitiva quanto scelte politiche, rapporti di potere, capacità di pressione delle lobbies, significa rassegnarsi a registrare il ciclico fallimento delle politiche urbane in Italia, e – cosa ancor più grave – rinunciare a promuovere innovazione produttiva e sociale, se è vero che questa, secondo il documento del Ministro della coesione, ha bisogno di una strategia generale nazionale per le città.

Data di pubblicazione: 23 febbraio 2013