"Rigenerare la città esistente" è il nuovo imperativo disciplinare che deriva dall’esigenza di risparmiare suolo e dalla presa di coscienza dell’ineluttabile contrazione del mercato immobiliare.
Ma rigenerare tessuti insediativi centrali è cosa differente dal rigenerare periferie urbane. Ambedue sono operazioni virtuose e auspicabili, ma differiscono in termini di condizioni di fattibilità e soprattutto di valore strategico dei risultati conseguibili. La rigenerazione delle periferie tende a restituire una dimensione vivibile a tessuti urbani comunque marginali, mentre la rigenerazione delle aree centrali può introdurre nell’azione urbanistica il valore aggiunto di una nuova attribuzione di senso ai luoghi simbolici dei sistemi insediativi diffusi.
Rigenerare gli spazi urbani centrali che hanno progressivamente perso l’originaria funzione di aggregazione sociale e di autoidentificazione collettiva è, dunque, un’azione che assume straordinario valore strategico perché finalizzata ad una nuova caratterizzazione dei luoghi di riferimento identitario per i cittadini e i city-user.
Nella stringente logica della redditività economica delle azioni di sviluppo, però, un programma di rigenerazione urbana delle aree centrali deve presentare profili di convenienza che ne determinino la “fattibilità”. Si tratta, quindi, di individuare i possibili rientri economici per motivare la convenienza economica delle azioni di intervento.
Forse nei programmi di rigenerazione delle periferie la ricerca della convenienza economica può essere semplicemente affidata a norme urbanistico-edilizie che rendano remunerativo l’intervento: premi di cubatura, agevolazioni fiscali, semplificazioni delle normative. Nel caso della rigenerazione delle aree centrali questo non basta. Perché?
Nel modello espansivo che ha caratterizzato lo sviluppo urbano della seconda metà del secolo scorso, il meccanismo spontaneo di crescita era garantito da tre fattori in concomitanza seriale: (i) un’idea di città chiara e condivisa; (ii) regole certe garantite dal piano urbanistico; (iii) investimento pubblico in capitale fisso. Fino agli anni novanta, infatti, era chiaro e condiviso un modello espansivo della città (vagamente ispirato ad una distorta applicazione delle teorie urbanistiche del movimento moderno), piani regolatori (tutti uguali) ne definivano acriticamente le regole di applicazione e la mano pubblica predisponeva (a sue spese) l’infrastrutturazione di base. Era fin troppo facile per il capitale d’impresa rispondere con coerenza e tempestività ad una domanda di un mercato che non presentava incognite.
Entrata in crisi la semplicità di quel modello, oggi l’attenzione del mercato immobiliare si rivolge alla rigenerazione urbana chiedendo di applicare le stesse regole a situazioni e contesti profondamente diversi. Si pretende di ripetere lo schema tradizionale degli anni sessanta auspicando la riproduzione delle stesse condizioni: chiarezza e standardizzazione degli obiettivi, regole urbanistiche certificate dal piano, investimento pubblico in infrastrutturazione di base. Ma nella complessità della città contemporanea, nella assoluta incertezza degli scenari e (per altro) in assenza di un modello condiviso, non è altrettanto facile affidare alla politica urbanistica la funzione di regolarizzare gli interventi e minimizzare le incognite del mercato.
Di sicuro non sono più sufficienti i soli interventi normativi (piani casa, agevolazioni fiscali, e simili) per garantire l’automatico innesco di processi di sviluppo immobiliare sul tessuto urbanistico esistente, sostanzialmente perché nella rigenerazione urbana delle aree centrali non è più applicabile un’idea di città unica e generalizzata. Il piano (di conseguenza) non può più essere lo strumento sempre uguale per la sua realizzazione. E soprattutto l’intervento pubblico non può limitarsi alla semplice predisposizione delle infrastrutture urbane di base, ma deve agire in chiave strategica e spesso anche con azioni immateriali.
L’esito del programma d’azione, in assenza di un’idea di città forte e condivisa, non può più essere semplicisticamente affidato ad una strumentazione tecnica che si assume il compito di tradurre in norme attuative un modello dato, ma deve essere riferito ad un progetto ad-hoc per le specifiche situazioni locali. Ogni specifica realtà urbana di tipo diffuso e policentrico deve costruire una sua particolare visione di sviluppo strategico, fondata sulle peculiarità delle condizioni date (place-based), ma soprattutto sulla concertazione degli interessi plurimi che nella città si sovrappongono (concertata).
Il progetto urbanistico diventa strumento utile solo se pensato “su misura” per uno specifico luogo e per un determinato tempo. Esso soprattutto deve essere declinato con riferimento ai temi che interessano oggi la città diffusa: la sicurezza urbana (reale e percepita), la sostenibilità ambientale della città, la funzione sociale dello spazio pubblico.
La sicurezza urbana è senz’altro la nuova frontiera di tipo tattico per le politiche urbane: garantire città sicure e (in particolare) dare ai cittadini la sensazione della sicurezza dei luoghi urbani è la prima condizione per rilanciare l’interesse verso le zone centrali in ambiti insediativi diffusi.
La sostenibilità ambientale della città è un’altra questione che emerge chiara e forte nelle aspettative dei cittadini. Mobilità sostenibile, abbattimento delle polveri sottili, penetrazione del verde in città, percorsi a priorità ambientale, qualità dei luoghi, sono tutti requisiti che ormai si richiedono alla nuova condizione dell’abitare. E sono più difficili da garantire nella città compatta di impianto tradizionale.
Infine, gli spazi della socialità. Questi sono presenti (per definizione) nella città storica. Ma si tratta di difenderne e spesso recuperarne l’attitudine alla vita di relazione urbana, lottando contro usi impropri (parcheggi e altro) e riconfermandone il valore sociale attraverso una gestione urbanistica attenta alla funzione pubblica del vuoto.