Nonostante il crescente volume di studi che insistono sull’argomento – e che affrontano in particolare la natura geopolitica, geostrategica e geo-economica della Belt and Road Iinitaitive (BRI) (Pu, 2016) – la dimensione territoriale e multi-scalare dell’iniziativa rimane ancora parzialmente inesplorata (Cotella e Berisha, 2019). Se l’Unione Europea (Ue) ha tentato, pur con scarsi risultati, di formulare una serie di risposte congiunte alla BRI, ai confini dell’Ue l’azione della BRI è meno vincolata e dunque si manifesta più rapidamente, generando impatti maggiori. Questo contributo fornisce una serie di spunti di riflessione circa gli impatti territoriali della BRI, attraverso la presentazione di due casi studio. Il primo ne mette in evidenza la ‘dimensione infrastrutturale’, attraverso l’analisi della linea ferrovia Belgrado-Budapest che, ad oggi, risulta essere il principale intervento a carattere transnazionale finanziato dalla Cina in Europa. Il secondo caso studio, il parco industriale bielorusso a Minsk, fa luce sulla dimensione urbana dell’iniziativa, riflettendo sul modello port-park-city, già ampiamente utilizzato in Asia con il Suzhou Industrial Park o il Chongqing Western Logistics Park, e che è stato adottato anche in Europa come base di sviluppo per nuovi progetti urbanistici all’interno della BRI.
Sin dall’inizio degli anni novanta, il tracciato Belgrado-Budapest è stato oggetto di attenzione per il suo ruolo strategico di connessione tra la regione dei Balcani e l’Europa Occidentale (figura 1). Sebbene rallentato dalle tensioni politiche che hanno fatto seguito alla dissoluzione della Jugoslavia, l’idea di investire e modernizzare tale tracciato è sempre rimasta attuale e parte integrante delle strategie dell’Ue. In particolare, questa tratta è stata incorporata nel progetto della Rete Trans-europea dei trasporti TEN-T, della quale costituisce parte del corridoio X, quale asse fondamentale di connessione tra la Grecia e l’Europa Centrale. Tuttavia, solo con il progressivo avvento dei capitali cinesi l’attenzione attorno alla tratta Belgrado-Budapest torna prepotentemente in gioco. Le ragioni sono tante. Secondo Rencz (2019), la tratta Belgrado-Budapest è strategica per una serie di ragioni principali: (1) connette i paesi Ue con i Balcani, permettendo a questa regione un accesso diretto al mercato comune; (2) è funzionale al collegamento tra Budapest e il porto del Pireo, facilitando e velocizzando così il trasporto dei prodotti cinesi verso l’Europa Centrale, le cui tempistiche passerebbero dagli attuali 30 giorni a circa 20 giorni, portando così un grande beneficio in termini di riduzione dei costi; (3) serve da riferimento per le capacità di costruzione ferroviaria cinese, che potrebbe spianare la strada a futuri progetti cinesi all’interno dei confini dell’Ue.
Il progetto del tracciato ferroviario ad alta velocità Belgrado-Budapest si inserisce nell’ambito della piattaforma di cooperazione 16+1, che vede la partecipazione di Stati Ue ed extra UE e posiziona la Cina quale interlocutore privilegiato per quel che riguarda la localizzazione di investimenti sui territori degli stessi [1]. Secondo i dati del progetto, il tracciato ferroviario rinnovato, avrà una lunghezza totale di 350 km, di cui 184 km in territorio serbo e 166 km in territorio ungherese, e consentirà una velocità massima tra i 160 e i 200 km/h (Gulyás e Kovacs, 2018, trad. propria). Oltre al miglioramento della rete esistente, gli accordi prevedono anche la realizzazione del doppio-binario al fine di aumentare le capacità di trasporto della rete stessa. Così intesa, la tratta Belgrado-Budapest «ha il potenziale per divenire un primo passaggio chiave verso la trasformazione dell’Ungheria nella punta avanzata degli interessi cinesi in UE» (Rogers, 2019: xx, trad. propria).
Detto del ruolo strategico della tratta e degli interessi in gioco, è importate capire il funzionamento del progetto. Come precedentemente affermato, questo tracciato fa parte di un più ampio collegamento che mira a connettere Atene (e quindi il porto del Pireo, di proprietà cinese sin dal 2016) con il resto della regione dei Balcani Occidentali. Il progetto consiste nell’elettrificazione di una linea adatta sia al trasporto passeggeri sia al transito merci, e mira a ridurre la durata del viaggio Belgrado-Budapest da otto a tre ore (Liu, 2019. trad. propria). Il costo stimato dell’intero progetto è di Euro 3.2 Mld (in costante crescita), di cui l’85% è finanziato tramite prestiti della China Exim Bank, sia per il tratto serbo (Liu, 2019), sia per quello ungherese (Rogers, 2019), mentre per il restante 15% rimane in capo ai rispettivi governi.
Venendo agli impatti potenziali: le opinioni degli esperti sono contrastanti. Secondo Gulyàs e Kovacs (2018), il progetto avrà sostanziali ricadute territoriali che si estendono ben al di fuori delle due principali città coinvolte, generando importanti benefici economici in tutte le regioni attraversate e in parte delle regioni limitrofe. Al contrario, altri autori sottolineano come tale impatto sarà più limitato, e di come il progetto e la sua attuazione non tengano conto delle conseguenze sociali ed ambientali. Come evidenziato da Cotella e Berisha (2019, 12, trad. propria) «la Cina sembra esclusivamente interessata a garantire una continuità infrastrutturale allo schema della BRI» senza considerare l’impatto sulle comunità locali e le «conseguenze di carattere sociale ed ambientale». Inoltre, secondo Rogers (2019), se si eccettuano i due poli principali, questo progetto mette in rete città di dimensioni relativamente ridotte (la più grande conta circa 27.000 abitanti), generando così limitati benefici in termini di traffico di persone e merci provenienti dall’interno dell’area. Inoltre, nonostante, il tratto Belgrado-Budapest faccia parte della rete TEN-T, esso ad oggi ne contraddice le tradizionali modalità di attuazione, sollevando una serie di dubbi in merito al rispetto delle direttive Ue, in particolare per quel che riguarda la normativa sugli appalti pubblici e gli aiuti di Stato. Nel mirino della Commissione, nello specifico, vi è l’attribuzione dei lavori senza una regolare gara d’appalto, come previsto dal pacchetto dell’Ue sulla competitività. Preso atto di queste incompatibilità, il governo ungherese ha, nel 2018, finalmente indetto ed attribuito, per la tratta di propria competenza, una gara d’appalto, che ha visto la vittoria di un consorzio ungaro-cinese nei primi mesi del 2019. Nonostante ciò, una serie di dubbi permangono in sede europea, in termini di possibili conflitti d’interesse e in relazione agli aspetti manageriali e gestionali dell’appalto stesso.
Se il progetto è dunque considerato di importanza strategica dalla grande maggioranza degli attori nazionali e sovranazionali, ciò che viene messo in dubbio dai suoi principali detrattori sono le sue implicazioni economiche (impatto dei prestiti sui debiti dei due Stati) e geopolitiche (influenza della Cina sulla regione). In particolare, l’Ue teme infatti che la Cina stia sfruttando l’opportunità sorta ad esclusivo interesse nazionale, senza prestare attenzione alle dinamiche economiche, sociali e ambientali che caratterizzano la regione (Rencz, 2019). Tale preoccupazione è condivisa da analisti ed esponenti della società civile ungherese che vedono in questa iniziativa l’ennesimo tentativo di privilegiare alcuni attori locali senza nessun riverbero positivo sul contesto socio-economico nazionale (Rencz, 2019). Se la tratta ungherese sta dunque incontrando qualche resistenza in fase di attuazione, la tratta serba si sta sviluppando con maggiore facilita dato che l’influenza UE, e quindi la pressione verso il rispetto di determinati standard procedurali è certamente inferiore nei paesi candidati rispetto agli Stati membri. In ultima analisi, quello che si percepisce è che, sin dall’inizio, il progetto del tracciato Belgrado-Budapest sia stato caratterizzato da «un approccio top-down, in cui la Cina stabilisce gli obbiettivi e le regole del gioco includendo raramente i partner nel processo di vision making» (Cotella e Berisha, 2019, 11, trad. propria).
Tra i progetti più rilevanti finanziati da capitali cinesi in territorio europeo, c’è sicuramente il Great Stone industrial park in Bielorussia. Il progetto ha mosso i primi passi nel 2012, ma è solo tra il 2015 e il 2017 che sono stati attivati i primi cantieri. Inteso come uno dei progetti principali della Belt and Road Initiative Cinese (BRI)2, il Great Stone industrial park ha ottenuto la diretta approvazione da parte del presidente cinese Xi Jinping, durante la vista di stato in Bielorussia nel 2015. Tale importante endorsement ha acceso i riflettori degli attori internazionali ed in particolare è stato il via libera, tanto atteso dalla classe politica bielorussa ed in particolare dal Presidente Alexander Lukashenko, primo promotore di questa iniziativa. Politicamente, infatti, tale riconoscimento ha permesso a Lukashenko di smarcarsi dagli interessi economici dei partner tradizionali (in primis la Russia), rivolgendo la propria attenzione verso la Cina e i capitali cinesi. A tal proposito, alcuni osservatori internazionali (Mardell, 2019) sottolineano come il progetto abbia sì una connotazione economica, in quanto permetterà di mobilitare significative somme di investimento, ma ha anche altrettanto valore politico e strategico, visto la posizione geografica della Bielorussia nello scacchiere Eurasiatico.
Fatte alcune prime considerazioni di carattere geopolitico, è importante comprendere meglio la natura del progetto e i suoi possibili risvolti territoriali. In sostanza, il Great Stone industrial park è un grande parco industriale volto ad ospitare aziende Bielorusse e Cinesi, e a integrare diverse tipologie di servizi e comparti residenziali (figura 2). Geograficamente, il progetto si posiziona sulla linea nord della BRI, che collega Xi’an a Londra e, secondo i dati ufficiali, occuperà in totale un’area di 112 km2, di cui 800 ettari sono già in costruzione ed altri 3500 partiranno con la seconda fase del progetto. Dal punto di vista prettamente infrastrutturale, l’area scelta è strategica in quanto può sfruttare la presenza di un aeroporto e di una città di circa 2 milioni di abitanti come Minsk, fornendo all’iniziativa una dimensione urbana rilevante e le necessarie connessioni internazionali. Il modello del parco industriale, secondo Mardell (2019, trad. propria), «trova similitudini con alcuni parchi industriali asiatici come il China-Singapore industrial park a Suzhou» e si pone come ponte di connessione tra il mercato dell’Ue ad ovest e il mercato euroasiatico-russo ad est. Così facendo, mira a favorire opportunità congiunte di business, grazie all’attribuzione di status legali e fiscali molto vantaggiosi tramite free economic zones: strumento già ampiamente sfruttate lungo le diverse linee della BRI.
Osservando il masterplan approvato e realizzato dal governo bielorusso congiuntamente alla società cinese, emerge un programma di sviluppo da effettuarsi in due fasi con orizzonti temporali 2020 e 2030. Questo progetto, figlio di un preciso piano di ‘zonizzazione’ si pone l’obiettivo di insediare 150.000 persone per una densità di circa 22 persone/ha (figura 3). Secondo le autorità, le previsioni del masterplan tengono conto dei limiti ambientali, del rispetto della diversità biologica, della distanza delle costruzioni anche nei confronti dell’aeroporto e soprattutto fissa un limite minimo di standard. Dal punto di vista geostrategico-infrastrutturale, è interessante notare come, analogamente alla tratta ferroviaria Belgrado Budapest, il parco sia connesso ai principali corridoi di trasporto TEN-T. Anche qui la BRI si sovrappone al tracciato di collegamento dell’UE sfruttando il tracciato europea E-30, che arriva fino a Londra passando per Duisburg, punto di arrivo del corridoio nord della BRI.
Il progetto segue le logiche di in un modello che la Cina sta applicando lungo tutto il tracciato della BRI, denominato port-park-city. Questo modus operandi consiste nella realizzazione di un parco che comprende al suo interno: (i) una speciale zona economica e/o di libero scambio; (ii) un porto che può diventare un punto di svolta per gli investimenti e gli scambi e (iii) una rete infrastrutturale interna per migliorare l’accessibilità ai mercati nazionali ed internazionali. In questo senso, il porto consente la connettività alle catene di approvvigionamento globali, mentre il parco aggiunge valore con input locali ai prodotti stessi e contribuisce alla generazione di merci (Ghosh, 2018, trad. propria). Secondo Ghosh (2018) l’adozione di questo modello rende la mega infrastruttura logistica sostenibile nel lungo periodo, oltre che accessibile alle piccole e medie imprese grazie anche agli importanti sgravi fiscali.
Ritornando al caso bielorusso, il Great Stone è organizzato su tre livelli di management, che ne guidano la strategia, lo sviluppo e l’organizzazione. Sebbene tutti e tre i livelli siano co-gestiti dal governo bielorusso e da una società di Stato cinese, la gestione non è tuttavia paritaria; infatti secondo Mardell (2019, trad. propria) «la società che gestisce il progressivo sviluppo e la costruzione del parco è per il 68% di proprietà cinese». Inoltre, come accade nel caso della tratta ferroviaria Belgrado-Budapest, i vincoli contrattuali costringono il governo bielorusso ad appaltare la quasi totalità dei lavori ad aziende cinesi. Infatti, nonostante i finanziamenti concessi per $170 milioni dalla China Exim Bank e $110 milioni dalla China Development Bank siano cofinanziati da imprese locali, che condividono così parte del rischio di attuazione del progetto, lo sviluppo dell’area viene principalmente gestito dalla Società cinese, che vincola la maggior partegli appalti a favore delle imprese della madrepatria (Mardell, 2019).
I due casi precedentemente illustrati sono l’esito di una serie di iniziative di carattere geo-economico e geopolitico, messe in atto dal governo cinese negli ultimi 15 anni. La più importante di queste iniziative è la cosiddetta Belt and Road Initiative, le cui ragioni principali, caratteristiche e possibili conseguenze e impatti sono presentate qui di seguito. La BRI si pone l’obiettivo di migliorare la connessione infrastrutturale della Cina con il resto del pianeta, sia via mare sia via terra, unendo Asia, Oceania, Africa, Europa e progressivamente interessando anche l’America Latina (Amighini e Sciorati, 2019). L’iniziativa fa parte della cosiddetta going out strategy che sta caratterizzando l’approccio geopolitico cinese negli ultimi vent’anni, ossia da quando, nel 2013, il Presidente Xi Jinping ha annunciato per la prima volta l’intenzione della Cina di investire in iniziative di sviluppo al di fuori dei propri confini territoriali.
Nel corso degli anni, numerosi osservatori internazionali si sono posti interrogativi in merito alle reali caratteristiche e alle ricadute dell’iniziativa. Sono emerse questioni di carattere: (i) economico – chi finanzierà e cosa; (ii) normativo – l’implementazione dei progetti è strettamente legato a quadri normativi specifici che variano da contesto a contesto; ed infine (iii) gestionale – l’individuazione delle responsabilità. Secondo Van der Putten et. al (2016, 3 , trad. propria) «la Belt and Road Initiative non è una politica di tipo formale, né una ben definita strategia; si tratta piuttosto di una ‘cornice’ per una serie di politiche che contribuiscono ad una integrazione economica tra i paesi che ne fanno parte». Ad oggi l’implementazione dell’iniziativa si basa principalmente sulla sottoscrizione di Memorandum of Understanding con i singoli paesi aderenti – tra cui, a partire dal 2019, anche l’Italia – senza che però sia stato definito alcun indirizzo comune circa gli interessi da perseguire. Sempre Van der Putten et. al (2016) sottolineano come al centro della visione geostrategica della BRI vi sia lo sviluppo di progetti infrastrutturali, sia legati al tema dei trasporti, sia di carattere energetico. In questo senso, l’infrastruttura – come termine di accessibilità, connessione e, quindi, di visibilità dei territori – gioca un ruolo fondamentale quale attrattore di investimenti, siano essi di provenienza pubblica o privata. In sostanza, l’iniziativa è parte delle strategie che, secondo (Hu, 2012), puntano a costituire una comunità globale per un futuro condiviso. Attualmente coinvolge 68 paesi (dato in costante crescita) appartenenti a Asia, Africa, Europa, Pacifico del Sud e Sud America e ospitanti oltre il 40% della popolazione mondiale (Zou 2017). Si tratta di un ambizioso programma di investimenti – al momento prevede circa 4 trilioni di dollari da mobilitare entro il 2049, data prevista per la sua conclusione – che mira a sviluppare una maggiore e migliore connettività tra la Cina e tutti i paesi coinvolti, in una logica di win-win cooperation (Li, 2016).
Più nello specifico, la BRI combina due diversi assi: uno terrestre e uno marittimo (figura 4). Il primo, denominato anche Silk Road Economic Belt, si sviluppa lungo sei corridoi economici: 1) il nuovo ponte terrestre euroasiatico – un collegamento ferroviario internazionale che ha già trovato parziale sviluppo grazie alla realizzazione di parte della ferrovia Ungaro-Serba; [2]) il corridoio Cina, Mongolia, Russia – che ha trovato attuazione grazie al potenziamento delle linee infrastrutturali stradali e ferroviarie transfrontaliere, avvalorando maggiormente le relazioni economiche tra i paesi sulla scia di quanto già previsto dalla Greater Tumen Initiative di cui è membro anche la Corea del Sud3; [3]) il corridoio economico Cina, Asia Centrale e Asia Occidentale – che ha lo scopo di connettere la provincia dello Xinjang con le coste meridionali dell’Arabia Saudita stringendo anche accordi commerciali con Kazakistan, Uzbekistan, Turchia, Kirzighistan; 4) il corridoio Cina e Penisola Indocinese – che unirà il Paese a Singapore, contribuendo allo sviluppo degli Stati localizzati lungo il fiume Mekong (Myanmar, Thailandia, Laos, Cambogia e Vietnam) e favorendo l’implementazione di altri strumenti di cooperazione come il China-AESAN cooperation programme [4]; 5) il corridoio tra Cina e Pakistan e 6) il corridoio Bangladesh-Cina-India-Myanmar: entrambi in corso di realizzazione grazie ai progetti per investimento congiunto nello sviluppo ed ampliamento di porti, linee ferroviarie e metropolitane nonché ad azioni di valorizzazione e cooperazione culturale. Il secondo asse, chiamato anche 21st-century Maritime Silk Road, invece, prevede il collegamento della Cina all’Europa passando per il canale di Suez. Questo tracciato si sviluppa principalmente dai porti del Mar Cinese Meridionale fino ai porti africani orientali, per poi raggiungere l’Europa con accesso privilegiato dal porto del Pireo e proseguendo verso nord attraverso la rotta adriatica.
Secondo alcuni esperti, così strutturata «la BRI può diventare il più grande programma di diplomazia economica dopo il Piano Marshall, interessando differenti paesi con una popolazione complessiva di oltre tre miliardi di persone» (Pu, 2016, 116, trad. propria). Essa fa affidamento su tre differenti tracciati geo-economici (Hilgefort, 2019): (i) il primo interessa le economie più forti, passando attraverso la Mongolia e la Russia, per poi raggiungere il cuore dell’Ue, ed in particolare passando per la Polonia al fine di raggiungere l’Europa centrale; (ii) il secondo, attraversando i paesi centro-orientali, termina ad Istanbul, e coinvolge nazioni caratterizzate dalla massiccia presenza di materie prime; (iii) il terzo, il cosiddetto ‘filo di perle’ «mette in collegamento alcune delle più grandi aree abitate al mondo, tutte con un potenziale di crescita rapida [5]»(Hilgefort, 2019, 250). Tuttavia, secondo Pu (2016), la BRI è tanto ambiziosa quanto incerta, sia per ragioni finanziarie ma anche e soprattutto per le condizioni politiche che caratterizzano le numerose regioni attraversate. A tal proposito, uno degli esempi richiamati in letteratura concerne l’intenzione della Cina di costruire più di 800.000 chilometri di ferrovia, coinvolgendo 65 paesi (Pu, 2016 trad. propria), spesso in aree politicamente instabili tra cui Afghanistan, la regione dello Xinjiang e alcuni territori del Pakistan. In questo senso, non è chiaro come si intenda garantire la sicurezza di lavoratori impegnati e, successivamente, delle infrastrutture realizzate. Lo stesso si può dire in relazione alla realizzazione della tratta Balkan Silk Road che si sviluppa dal Pireo a Budapest, e dove la stabilità politica è ancora almeno in parte da verificare.
Anche la dimensione economica della BRI costituisce un aspetto fondamentale per la sua realizzazione. Infatti, fondando nuove istituzioni finanziarie, tra cui la AIIB (Asian Infrastructure Investment Bank), la Cina ha iniziato a sollevare una serie di preoccupazioni tra gli attori internazionali – ed in particolare per gli Stati Uniti – che temono di concedere troppo spazio in termini di competizione globale (Pu, 2016). L’implementazione degli interventi previsti dalla BRI solleva così una serie di questioni in relazione ai meccanismi di supporto finanziario messi in campo. Ad oggi, molti dei memoranda sottoscritti con i paesi interessati non hanno reale valenza legale, né prevedono precisi tempi di programmazione degli investimenti e delle opere, sancendo semplicemente l’adesione dei paesi all’ambizioso progetto economico. Per via della dimensione e della portata della BRI, non esiste un piano economico preciso, e il tutto si basa semplicemente sulla volontà cinese di contribuire alla realizzazione di determinate opere, secondo differenti modelli di finanziamento. In particolare, prevalgono tre principali linee di finanziamento (Cotella e Berisha, 2019): i) investimenti diretti, che vedono in prima linea l’acquisizione di aziende di punta da parte di società cinesi; (ii) prestiti per la realizzazione di interventi infrastrutturali, generalmente utilizzati unitariamente agli investimenti previsti, con particolari vincoli in fase di attuazione dei bandi come ad esempio la necessità di far riferimento ad aziende cinesi, l’utilizzo di manodopera e di materiali cinesi; (iii) acquisizione di titoli di Stato e segmenti del debito pubblico dei Paesi coinvolti, strumento molto delicato che rischia di condizionare fortemente le relazioni tra la Cina ed i singoli Stati. In particolare, Amighini e Sciorati (2019) fanno luce su questo ultimo delicato aspetto, affermando come tale indebitamento debba essere considerato in relazione a tre possibili situazioni: i) elevato livello di debito estero in rapporto al PIL cresciuto ulteriormente con prestiti Cinesi; (ii) basso livello di debito estero in rapporto al PIL ma con elevata esposizione verso la Cina e; (iii) elevato rapporto debito/PIL ma con scarsa esposizione verso la Cina. Dei tre casi, il secondo merita più di attenzione in quanto pone alcuni paesi in una condizione di elevata dipendenza finanziaria, potendo dunque sfociare in quello che gli esperti chiamano ‘trappola del debito’ (Stumvoll and Flessenkemper, 2018; Hurley et al., 2018).
Come abbiamo visto, la BRI ha un’impronta dichiaratamente globale sia nelle ambizioni geopolitiche che nel suo impatto economico. Data la sua natura, è utile quindi fare un rapido quadro di come le istituzioni UE, i paesi membri e i paesi in via di integrazione si stiano relazione con la BRI. Infatti, sebbene la BRI coinvolga numerosi paesi localizzati in diversi continenti, trova però nell’Europa la sua destinazione principale. Nonostante ciò, ad oggi, essa non trova una specifica definizione all’interno delle visioni e dei principali programmi che caratterizzano l’azione dell’Unione Europea, ma ricade all’interno di una più ampia EU-China 2020 Strategic Agenda for Cooperation (risalente al 2013) e della nuova strategia Connecting Europe and Asia - Building blocks for an EU Strategy (adottata nel 2018). Le relazioni UE-Cina si fondano su un concetto di competizione e cooperazione: competizione per garantire un alto standard di qualità dei progetti; cooperazione nel quadro normativo e nell’ambito dei patti multilaterali. Tuttavia negli ultimi anni, ed in particolare con l’accelerazione degli interventi legati alla BRI, l’attitudine dell’UE e di alcuni Stati membri sta progressivamente mutando. In questo senso, Liu (2019, trad. propria) ha individuato quattro fasi successive che caratterizzano le relazioni tra UE e la Cina rispetto all’implementazione della BRI: (i) una prima fase di attesa; (ii) una fase di collaborazione; (iii) il ritorno ad una maggiore prudenza ed infine (iv) il consolidamento di un quadro di cooperazione-competizione.
L’atteggiamento di attesa adottato durante la prima fase, che ha inizio con l’annuncio della BRI nel 2013, vede i principali paesi europei relativamente allineati, ed è motivato dall’attenzione destata dal crescente numero di investimenti messi in atto da parte di aziende cinesi in Europa da prima di tale data. È solo a partire dal 2015 che alcuni paesi optano per una partecipazione più attiva: Germania, Francia, Regno Unito e Italia (quest’ultima unica a sottoscrivere anche il Memorandum of Understanding nel 2019), sottoscrivono parte del capitale della AIIB, ponendo le basi per un solido supporto allo sviluppo della BRI. È in questa fase che alcuni Stati europei iniziano a guardare alla BRI come una cooperazione vision-oriented invece che policy-based (Liu, 2019). Una risposta comune da parte dell’Ue ha invece tardato ad arrivare, con Junker che nel 2015 ventilava una possibile coerenza fra le intenzioni della BRI e il programma di azione della Commissione da lui guidata, senza però prendere in considerazione in alcun modo le iniziative di cooperazione già in atto. Il principale esempio di tale mancato allineamento è dato dalla nascita della piattaforma di cooperazione 16+1 che, a partire dal 2012, riunisce ad uno stesso tavolo la Cina e 16 paesi dell’Europa orientale (A. Budeanu, 2018 trad. propria). Tale piattaforma condivide sostanzialmente gli obiettivi della BRI e rappresenta di fatto un’iniziativa satellite di quest’ultima, che riveste grande importanza soprattutto per via della posizione geografica delle nazioni coinvolte. Secondo Budeanu (2018, 6, trad. propria) «nella scelta strategica dei suoi partners, la Cina non contempla i confini dell’Ue, né quelli dell’Euro zona». Infatti, la geografia del sistema 16+1 comprende paesi con differenti status, tra cui Stati membri, candidati ufficiali (Serbia, Montenegro, Albania e Macedonia) e candidati potenziali (Bosnia Erzegovina), di fatto interferendo almeno in parte con le dinamiche del processo di integrazione (Cotella e Berisha, 2019). Ad oggi gli Stati del gruppo 16+1 hanno adottato politiche di apertura nei confronti del mercato cinese, facilitando il rilascio dei visti e l’attività delle imprese, al fine di favorire gli scambi economici e commerciali. Tale strategia inizia a produrre i primi risultati, principalmente sotto forma di progetti infrastrutturali (Gorski, 2016) [6].
Anche a causa della portata degli interventi realizzati, a partire dal 2016 alcuni paesi Europei hanno iniziato a porre dubbi circa il reale valore degli investimenti infrastrutturali cinesi in Europa, oltre che in relazione all’acquisizione di aziende in settori strategici e più in generale circa i reali rapporti di forza che caratterizzano la cooperazione 16+1. In questa fase emerge dunque la necessità di comprendere con maggior attenzione le implicazioni e gli impatti della BRI, soprattutto in relazione allo slogan di win-win co-operation che ne aveva accompagnato il lancio. Una serie di paesi iniziano dunque a richiedere all’UE di assumere una posizione univoca a riguardo, proponendo di vincolare le relazioni commerciali fra Stati membri e Cina o almeno l’impostazione di un ‘quadro comune’ a tutti i paesi membri che regoli tali azioni. In particolare, da più parti viene sottolineato come: «quando Stati membri stipulano i loro accordi bilaterali con la Cina – sia come singolo Stato che come gruppo, ad esempio il gruppo 16+1 – devono cooperare con la Commissione e gli altri Stati membri, per assicurare che aspetti rilevanti all’ UE siano in linea con i regolamenti europei e le politiche europee» (European Commission, 2016: 4) [7].
Mentre in Europa si discute della necessità di governare la partecipazione alla BRI, durante il China-UE summit del 2017 viene finalmente instituito un fondo d’investimento partecipato dal Silk and Road Fund e dal European Investment Fund, quale primo tentativo di inquadrare le iniziative cinesi all’interno di regole condivise con le istituzioni dell’Ue e garantire così una trasparenza e un beneficio ai programmi di sviluppo europei (come ad esempio i corridoi trasportistici TEN-T) [8] (Gleave, 2018). Nonostante ciò, la risposta alla BRI da parte dell’Europa rimane relativamente frammentata e rispecchia maggiormente le esigenze nazionali rispetto a quelle comunitarie. Infatti, al di là della posizione dell’UE, ogni Stato assume una differente strategia nei confronti dell’iniziativa, per lo più legata alla sua collocazione geografica e alla sua situazione economica (figura 5).
Nonostante la BRI sia un’iniziativa relativamente recente, il suo piano infrastrutturale ha da tempo iniziato a generare molteplici impatti politici, economici e territoriali. Progetti come il parco industriale a Minsk e la ferrovia Belgrado-Budapest rappresentano solo alcuni degli interventi diretti localizzati sul continente europeo. La prossimità ai confini dell’Ue li rende strategicamente rilevanti e spinge a riflettere sulle eventuali sinergie e contrasti potenzialmente verificabili in relazione alle politiche messe in atto dall’Union, come ad esempio i corridoi TEN-T. Nonostante i progetti descritti siano tra loro molto diversi, è possibile notare come entrambi pongano l’infrastruttura al centro delle prospettive di sviluppo: il primo per velocizzare i tempi di trasporto delle merci; il secondo come HUB di collegamento e produzione di merci. Secondo Liu (2019), questo è insito nel fatto che la BRI è prima di tutto una iniziativa a carattere connettivo, finalizzata a riorientare le relazioni commerciali fra Europea e Cina a vantaggio di quest’ultima, mentre pone scarsa attenzioni agli impatti economici, sociali e territoriali generati nei paesi attraversati (Cotella e Berisha, 2019). Nel caso dell’intervento nelle vicinanze di Minsk, il sistema infrastrutturale è un modo di collegare un territorio e renderlo più accessibile, allo stesso tempo agendo quale generatore di sviluppo urbano. Qui l’infrastruttura è infatti parte di un sistema più grande, in cui ogni comparto è fondamentale alla crescita e alla sostenibilità del progetto: (i) l’aeroporto e la ferrovia come amplificatori di accessibilità; (ii) il parco industriale come spazio della produzione e quindi di sviluppo; (iii) l’area residenziale e del tempo libero per realizzare un modello attrattivo non solo per i lavoratori del parco ma per l’intera regione.
Se la breve analisi di questi primi progetti messi in atto quale diretta emanazione della BRI non può necessariamente fornire risposte esaustive, solleva però la questione dell’impatto complessivo di quest’ultima sui territori che coinvolge, suggerendo allo stesso tempo la necessità di una maggior attenzione da parte delle istituzioni Europee e dei diversi governi nazionali. Diversamente da quanto fino ad ora considerato, l’impatto territoriale della BRI pone infatti una serie di quesiti rilevanti, che richiederebbero la definizione di misure di contenimento e, eventualmente, di (ri)orientamento degli investimenti da parte delle istituzioni sovranazionali. In mancanza di ciò, i paesi e le regioni europee rimangono in balia delle sirene cinesi, e dunque sia dei vantaggi economici che l’iniziativa presenta, sia ai tranelli che essa nasconde. È dunque prioritario che, a livello nazionale e sovra-nazionale, vengano al più presto definite regole e misure condivise, al fine di consentire una più equa ridistribuzione degli impatti della strategia cinese fra i diversi territori.
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[1] I 16 paesi che originariamente hanno sottoscritto la piattaforma di cooperazione multilaterale con la Cina sono: Albania, Bosnia, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Macedonia del Nord, Montenegro, Polonia, Romania, Serbia, Slovacchia e Slovenia. Nel 2019 ha aderito anche la Grecia.
[2] Maggiori dettagli sulla natura della BRI, sulle ragioni della sua istituzione e sulle caratteristiche sono presentate nei paragrafi successivi.
[3] La Greater Tumen Initiative è un’iniziativa intergovernativa di cooperazione tra Cina, Russia, Mongolia e la Repubblica Coreana supportato dal United Nations Development Programme (UNDP) a partire dal 2006.
[4] La zona di libero scambio ASEAN-Cina, è una zona di libero scambio tra i dieci Stati membri dell’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico e la Repubblica Popolare Cinese risalente al 2002.
[5] Questo tratto mette in relazione i territori del: Myanmar, Bangladesh, India – via Sri Lanka, Pakistan, Medio Oriente, Africa Orientale ed Europa Orientale
[6] Oltre ai progetti presentati, è interessante menzionare la realizzazione dell’autostrada del Montenegro da Bar a Boljare, la centrale termica a Stanari in Bosnia e il ponte di Peljesac in Croazia
[7] Secondo Hanemann (2019), a seguito di ciò alcuni Stati (Francia, Germania e Regno Unito) hanno adottato politiche di screening sugli investimenti esteri in determinati settori reputati strategici per lo sviluppo nazionale.
[8] Rimangono però una serie di nodi da risolvere. Ad esempio, diversamente da quanto fino ad ora proposto dalla Cina, l’UE intende far partecipare al programma anche capitali privati in modo da stimolare l’iniziativa privata, ripartendo così il rischio finanziario delle singole operazioni (China Economic Information Service, 2017).