Mentre la ricerca scientifica e le innovazioni tecnologiche stanno registrando un’accelerazione senza precedenti, che ha decretato l’aumento della complessità che si rende necessaria per interpretare – grazie anche alla intelligenza artificiale – i risultati che vengono conseguiti dagli studiosi, il modo in cui gli individui, i gruppi, le istituzioni e gli stessi governi nazionali strutturano le proprie immagini della realtà sta tradendo al contrario una tendenza repentina alla semplificazione, che tende ad assumere una dimensione planetaria.
Soprattutto nel corso degli ultimi anni molte forze politiche sembrano puntare infatti ad un linguaggio più comprensibile e coinvolgente, e al tempo stesso ad una riduzione sempre più marcata della profondità concettuale e delle sfumature della comunicazione istituzionale, che pure dovrebbe favorire il confronto tra le differenti rappresentazioni della realtà che il dibattito pubblico tende a contrapporre. Grazie ad una “indomita tendenza” a semplificare il mondo, sembra affermarsi in questo modo il disegno di disporne a piacimento, e di assoggettare l’ambiente e i propri simili ad una rappresentazione e ad una continua manipolazione della realtà (Ceruti 2015).
Accade così che la contesa tra le forze economiche e sociali costituisca un fertile terreno per l’ascesa al potere del sovranismo e del dispotismo; che la crisi del parlamentarismo e delle forme più tradizionali di governo metta in discussione gli istituti più consolidati della democrazia liberale, quali la separazione tra le funzioni dello Stato e il bilanciamento dei poteri; ed infine che la contesa tra gli Imperi e la politica di potenza non arretrino di fronte al ricorso, nel cuore dell’Occidente, a strumenti ritenuti off limits da oltre settant’anni, quali l’invasione di uno Stato sovrano e il ricorso alla guerra tradizionale sul campo.
Anche se pochi sembrano averne piena consapevolezza, l’opposizione tra semplice e complesso tende dunque a caratterizzare sempre più apertamente la scena pubblica e il confronto tra gli attori. Con dinamiche che si riflettono con evidenza nella differente velocità dei processi che caratterizzano da un lato la trasformazione della società, e dall’altro il cambio di paradigma tecnologico in corso, ne consegue un progressivo allargamento del solco esistente tra la complicatezza dei cambiamenti in atto e la capacità di comprendere a pieno quanto sta avvenendo. In un quadro siffatto non ci si deve dunque stupire se il sistema democratico viene percepito sempre più spesso come una efficace rappresentazione dei problemi derivanti dalla presenza di un eccesso di complessità in politica, con la conseguenza di motivare in molti casi la rinuncia ad una quota non trascurabile di democrazia e di trasparenza in cambio di una promessa di efficienza e di velocità nella formazione delle decisioni (Di Gregorio 2019).
È ragionevole supporre che questa incapacità di comprendere pienamente l’importanza del mutamento di prospettiva che è in atto da tempo nei dispositivi della valorizzazione economica e della organizzazione del lavoro sia ulteriormente accentuata dalla frammentazione che riscontriamo da tempo non solo nei legami familiari e nell’assetto dei nostri insediamenti, ma più in generale nella cultura e nella società contemporanea.
Ora che siamo di fronte all’annebbiamento dei nostri principali tratti identitari, sembra dunque avverarsi una lontana ‘profezia’ di Margareth Thatcher, che in una intervista del 1987 aveva postulato l’eclissi della società moderna (“There is no such thing as society”). Un annuncio, quest’ultimo, che in molti avevano etichettato come un semplice auspicio, ma che alla luce di quanto sta accadendo in questi giorni giustifica la crescente e preoccupante asimmetria tra l’intricata topologia del mondo reale e l’impotenza interpretativa di chi tenta di comprenderne i cambiamenti. D’altronde già nel 1981 Prigogine e Stengers avevano affermato che “la separazione tra il reale semplice e l’aspetto complesso operata dalle scienze naturali e classiche giustifica la separazione autoritaria tra quelli che sanno, che hanno accesso ai «fatti» elementari, e quelli che restano prigionieri delle illusioni” (Prigogine e Stengers 1981: 727).
Sembra in definitiva che per quanto il pianeta Terra sia ormai entrato in una lunga stagione caratterizzata dall’aumento esponenziale della complessità, i suoi abitanti non sembrano consapevoli della necessità di effettuare un cambiamento così radicale, e manifestano piuttosto una volontà esplicita di secessione dalla responsabilità di provvedere alla soluzione dei problemi che ne deriveranno. Basti pensare alla tendenza alla globalizzazione, che solo pochi anni fa sembrava destinata a disegnare per lungo tempo le trame del nostro futuro, ma che sembra essersi ormai arenata nelle secche del nazionalismo e del sovranismo.
La resistibile ascesa della semplificazione urbanistica
Se a questo punto proviamo a rileggere gli effetti prodotti nella nostra disciplina dall’opposizione tra semplice e complesso non possiamo fare a meno di rilevare che la diffidenza manifestata nei confronti della complessità dall’agenda politica e da larghi strati dell’opinione pubblica ha trovato in questo caso un’applicazione ancor più precoce e convinta. Senza il pericolo di incorrere in un eccesso di generalizzazione possiamo affermare infatti che ogni volta che gli studi e la ricerca di settore hanno provato ad introdurre nelle pratiche professionali e nel nostro sistema di pianificazione formule innovative, spesso già sperimentate in altri contesti nazionali, tali cambiamenti hanno incontrato la fiera opposizione di quanti ritenevano, a seconda dei casi, che le peculiarità dei nostri modelli insediativi non avrebbero accolto positivamente le innovazioni proposte, ma anche che il nostro ordinamento non era ancora maturo per recepire mutamenti così radicali, o ancora che i lunghi tempi necessari per la sperimentazione delle novità che venivano proposte avrebbero comportato costi insostenibili per il sistema economico e per le comunità urbane.
Ragioni di spazio ci impediscono di rileggere più in dettaglio la storia dei frequenti insuccessi che hanno caratterizzato i tentativi, spesso generosi, di aggiornare il nostro apparato normativo, ma alcuni brevi richiami potranno aiutarci a chiarire i motivi per cui nello scontro tra il principio della complessità e quello della semplificazione quest’ultimo ha finito per prevalere nella maggioranza dei casi. Si pensi ad esempio al lungo e tortuoso percorso intrapreso dal governo delle grandi aree urbane, che è stato ostacolato per troppi anni dalla ricerca infruttuosa e frustrante di una metodologia rigorosa che avrebbe dovuto guidare la delimitazione delle aree metropolitane. Ma che invece ha finito per privilegiare nella maggioranza dei casi il principio elementare, e al tempo stesso rassicurante, della contiguità amministrativa.
Oppure si ricordino gli esperimenti, che in molti casi sono tuttora in corso, di coniugare la dimensione strutturale e quella strategica del piano, con esercizi che puntavano soprattutto su di un corretto allineamento degli obiettivi, sul ricorso sistematico agli strumenti del monitoraggio e della valutazione, e sulla partecipazione e il coinvolgimento degli stakeholders e delle comunità urbane, ma che hanno finito in molti casi per condurre più semplicemente alla elaborazione di documenti di indirizzo distinti e scarsamente integrati.
O, ancora, si rammenti la difficoltà, per gli esercizi di rigenerazione territoriale e urbana, di uscire dal vago e fondare un nuovo paradigma, laddove questa modalità d’intervento è ancora priva di una definizione normativa, che non le consente di legarsi agli altri strumenti di pianificazione e di puntare insieme a questi ultimi ad uno sviluppo sostenibile e inclusivo. Sempre nel nome della semplificazione questo movimento confuso ed incerto verso obiettivi di rigenerazione ha fatto sì che ci si avvicinasse a questa categoria d’intervento tradendo la ricchezza dei suoi elementi costitutivi, e si finisse per privilegiare strumenti parziali, o addirittura a prevalente contenuto edilizio, quali la ristrutturazione edilizia e la demo-ricostruzione.
E si prenda atto, infine, che la stessa ampia materia del governo del territorio è ancora in attesa di una definizione più accurata, dopo che la riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 (art. 117) non solamente l’ha introdotta nel nostro ordinamento, ma l’ha sostituita di fatto all’urbanistica. Ancora una volta, dunque, le ambizioni del legislatore, o il carattere visionario della ricerca territoriale, finiscono per giocare un brutto scherzo alla implementazione delle politiche pubbliche, tanto che per evitare le intollerabili complicazioni di un nuovo costrutto normativo si preferisce puntare piuttosto sulla tradizione, se non addirittura sulla delegificazione.
Nel lungo periodo il rifiuto di investire su disegni più ambiziosi di riforma ha visto tuttavia numerose eccezioni. Un certo numero di regioni italiane, non pochi programmi di ricerca soprattutto accademica e alcune iniziative promosse dall’Inu hanno provato nel corso degli anni ad introdurre gli ‘enzimi’ di un possibile cambio di rotta, ma le tendenze omeostatiche espresse dal nostro sistema di pianificazione hanno avuto comunque la meglio, perlomeno a livello centrale, o in molte realtà del Paese nelle quali il ricorso alle politiche di piano continua ad apparire del tutto occasionale.
Soprattutto per effetto del timore diffuso della complessità, supposta o reale, dell’agire urbanistico, molti sono portati a ritenere che “parlare di urbanistica oggi in Italia significa alludere ad un’attività amministrativa che si basa su un apparato normativo e burocratico pesante e poco amichevole che si avvale di strumenti formali, per i quali la pura redazione sembra spesso più rilevante della implementazione effettiva” (Palermo 2022: 74).
Proposte e suggerimenti per agire in controtendenza
Anche alla luce delle considerazioni che abbiamo appena sviluppato, è forse il caso di partire dalla consapevolezza che in un contesto profondamente segnato da sfide così impegnative un progetto riformista dovrà muoversi con destrezza tra la consapevolezza di affrontare questioni particolarmente complesse e le lusinghe offerte dalla semplificazione. Evitando cioè di adottare un approccio eccessivamente riduzionista, che rischierebbe di farci perdere di vista le fondamentali suggestioni di un pensiero sistemico, che sia in grado cioè di interpretare i molteplici intrecci tra ambiente, economia e società. Ma ricordando al tempo stesso che congetture particolarmente ricche ed articolate risulterebbero respingenti per interlocutori che non fossero abituati a sostenere un ‘costo cognitivo’ così elevato.
Almeno a mio parere le cronache urbanistiche più recenti offrono alcuni riferimenti di un certo interesse per chi voglia operare in questa prospettiva. Limitandoci ad effettuare una rilettura delle iniziative che l’Inu ha promosso nell’arco degli ultimi sei anni, emergono infatti alcuni temi che si candidano ad offrire una chiara esemplificazione delle questioni che abbiamo passato precedentemente in rassegna.
È questo il caso, ad esempio, del nostro tentativo di partecipare alla difesa dell’autorevolezza e del prestigio della disciplina urbanistica, che è stato affidato alla valorizzazione delle nostre migliori tradizioni culturali, e che abbiamo promosso nel 2020 in occasione del novantesimo anniversario dell’Istituto (Talia 2022). Subito dopo ci siamo misurati con il compito gravoso, ma essenziale, di contribuire a sbloccare il percorso della riforma del governo del territorio, che sembrava ormai finito in una strada senza via di uscita, presentando una proposta di “Legge di principi fondamentali e norme generali per il Governo del territorio e la pianificazione”, [1] che poi avremmo esposto al Senato il 16 luglio 2024. Ed ora siamo finalmente in procinto di effettuare un nuovo, ultimo passo, mettendo al centro della discussione del nostro prossimo XXXII Congresso (Roma, 22-24 maggio 2025) il tema del Piano utile, che ci dovrebbe consentire di chiudere (almeno provvisoriamente) il cerchio della incessante ricerca di un punto di equilibrio tra la consapevolezza di vivere in un mondo sempre più complesso e la necessità di ispirare le nostre mappe concettuali alla ricerca della semplicità.
Pur nei termini succinti di questo rapidissimo compendio, dovrebbe apparire ormai evidente che l’idea di fondo che tiene insieme le iniziative più recenti dell’Inu punta a schierare gli urbanisti italiani in difesa del paradigma della complessità, nella consapevolezza che tale scelta possa tutelare la nostra disciplina dalla minaccia rappresentata dal diffondersi di un’acritica fiducia nel ricorso alla semplificazione, o addirittura alla deregolamentazione. Sembra infatti che rievocare i momenti più significativi della storia del nostro Istituto possa permetterci di abbandonare una concezione lineare e omogenea della cultura della pianificazione, e di proporre in alternativa una interpretazione ‘duale’ del confronto/scontro che si è progressivamente innescato tra i suoi protagonisti principali. Ne consegue pertanto il manifestarsi della opportunità di individuare la presenza, in questa narrazione, del susseguirsi di percorsi uniformi e di momenti di svolta, in cui queste ultime possono costituire altrettante opportunità per mettere in discussione convinzioni e stereotipi che abbiamo troppo a lungo alimentato.
Per quanto riguarda invece la nostra proposta di una “Legge di principi”, qui l’apporto offerto ad una corretta interpretazione degli elementi di complessità presenti nel sistema di pianificazione appare ancora più evidente, soprattutto laddove l’elaborazione di una concreta proposta dell’articolato di una legge quadro contribuisce a colmare una grave lacuna nel nostro ordinamento, e che comporta un evidente ampliamento dei temi oggetto della nostra disciplina. Non solo; nella misura in cui il progetto dell’Inu si caratterizza come una legge di natura multifunzionale, lo sforzo di tenere insieme i principi fondamentali e le finalità del governo del territorio con le norme generali sulla rigenerazione urbana e territoriale, sul consumo di suolo e sul piano urbanistico comunale e le sue funzioni, sulla durata delle previsioni edificatorie, sulla perequazione urbanistica, ed infine con le indicazioni relative alla immediata disciplina delle dotazioni urbanistiche e territoriali e alla delega al governo per quei contenuti che riguardano competenze esclusive o compiti dello Stato (come nel caso della fiscalità urbana), rappresenta un tentativo, forse pionieristico, di affrontare una materia indubbiamente complessa, e che sconta tuttora un’ assenza assai prolungata di precedenti iniziative legislative.
In ultimo il più recente impegno che abbiamo assunto in vista del prossimo appuntamento congressuale – e che richiama l’attenzione delle amministrazioni locali, dei tecnici e della cittadinanza attiva sull’utilità dell’agire urbanistico – utilizza una ‘parola d’ordine’ che punta a ricondurre ad una sintesi estrema una relazione assai articolata, e scarsamente indagata, che tende a stabilirsi tra il requisito della “necessità” e quello dell’“utilità” del piano. Laddove il primo attributo si afferma a partire dalla implementazione delle prescrizioni contenute nel quadro normativo della pianificazione del territorio a scala nazionale e regionale, il secondo costituisce l’obiettivo di fondo delle pratiche urbanistiche, e fino a quando verrà preso in considerazione in modo indipendente dal precedente sarà difficile rispondere alle principali obiezioni formulate dai detrattori delle politiche di piano, che ci ricordano sempre più spesso che i processi e gli strumenti del governo del territorio sono troppo lenti, costosi ed eccessivamente complessi, e che proprio in quanto ostacolano in molti casi le iniziative dei principali stakeholders dovrebbero essere drasticamente semplificati.
La necessità di un impegno comune a favore dell’utilità del piano
A fronte di critiche come queste, che hanno ormai acquisito la forza d’impatto del luogo comune, le cronache urbanistiche hanno dovuto registrare le conseguenze negative di una progressiva perdita di contatto tra i contenuti del progetto urbanistico e la funzione normativa del piano, e tra quest’ultimo e i suoi destinatari. Gli effetti più significativi di questo declino si possono rintracciare in un progressivo decadimento del potere di regolazione e di indirizzo della legislazione di settore, ma tale fenomeno preoccupante ha innescato altresì un’allarmante deriva, leggibile ormai da tempo non solo in un ricorso sempre più sporadico agli strumenti della progettazione urbanistica, ma anche in un declino delle iscrizioni ai corsi di laurea in pianificazione che sembra irreversibile.
Nel tentare di ricucire questi legami spezzati, la proposta che l’Inu intende presentare in occasione del prossimo Congresso punta a dimostrare che nonostante la presenza di convincimenti radicati (e sostenuti da diverse discipline) – che sembrerebbero muoversi in un’altra direzione – il paradigma della necessità e quello della utilità non sono altro che le due facce di una stessa medaglia, ed è proprio questa coincidenza a fare in modo che la pianificazione non si configuri semplicemente come un obbligo normativo, ma sia in grado di tradursi in risultati tangibili, tali cioè da produrre miglioramenti significativi nella qualità della vita, nella sostenibilità ambientale e nell’efficienza delle prestazioni che le dotazioni urbanistiche sono in grado di offrire.
Sia detto per inciso che, anche in questo caso, il sentiero che intendiamo presentare, e che successivamente ci impegniamo a percorrere, lega il successo di questa proposta alla capacità di dominare una materia ben più complessa di quanto può trasparire dalla apparente semplicità della precedente enunciazione. Si tratta infatti di analizzare una pluralità di temi che spaziano dallo studio della forma del piano e dei compiti della governance all’esame di questioni riguardanti la rigenerazione territoriale e urbana, il contenimento del consumo di suolo e il disegno delle reti infrastrutturali, l’offerta della accessibilità, la lotta al cambiamento climatico, la promozione dei processi partecipativi e la sperimentazione degli strumenti dell’intelligenza artificiale.
Grazie agli approfondimenti offerti da queste differenti angolazioni di ricerca, in occasione del prossimo Congresso dovremmo essere in grado di affrontare il tema della utilità del piano mettendo in campo tutte le principali risorse del nostro Istituto, quali le Sezioni regionali, le Communities, il Rapporto dal Territorio, le Riviste, INU Edizioni e la piattaforma web. In questo modo intendiamo raccogliere i materiali di ricerca e di approfondimento che proporremo alla discussione congressuale, ma cercheremo altresì di impiegare a regime questo articolato organigramma per monitorare l’efficacia delle politiche pubbliche non solo ‘a legislazione vigente’, ma ipotizzando la graduale transizione verso un nuovo ordinamento, che speriamo possa somigliare a quello che abbiamo proposto nel nostro incontro al Senato del 16 luglio 2024.
Dare continuità alla riflessione sul piano utile non solo può offrire un fondamentale contributo conoscitivo alla promozione e al successo delle politiche pubbliche di nuova generazione, ma molto probabilmente è in grado di impedire che la complessità di una determinata questione – che nel frattempo non viene illuminata da flussi informativi e indagini specialistiche – cresca nel tempo e possa trasformarsi in una barriera insuperabile.
[1] Vedi a tale proposito l’Appendice del n. 313/2024 di Urbanistica Informazioni, dedicata alla presentazione integrale della proposta di legge dell’Inu.
Ceruti M. (2015), La fine dell’onniscienza, Studium, Roma.
Di Gregorio L. (2019), Demopatia: sintomi, diagnosi e terapie del malessere democratico, Rubbettino, Catanzaro.
Palermo P. C. (2022), Il futuro dell’urbanistica post-riformista, Carocci, Roma.
Prigogine I., Stengers I. (1981), “Semplice/complesso”, Enciclopedia Einaudi, Torino.
Talia M. (2022), “Il senso della nostra storia”, Urbanistica, no. 165-166, p. 4-7.