L’enorme espansione delle metropoli nella Cina del “socialismo di mercato” non è frutto di una crescita incontrollata e spontanea provocata da un mercato iperliberista. Essa è piuttosto il risultato di un’attenta e lenta operazione di pianificazione dall’alto, cominciata alla fine degli anni settanta, che ha saputo attrarre gli investimenti esteri proponendo abilmente rassicuranti paradigmi capitalisti, pur conservando intatto un fortissimo ruolo dello Stato.
Se pur le prime aperture al sistema concorrenziale furono sperimentate nelle zone rurali, il grande passo verso il “socialismo di mercato” fu deciso nel 1979 con l’istituzione delle Zone a Economia Speciale (SEZ) all’interno delle quali gli investitori stranieri potevano accedere a tassi di investimento e condizioni eccezionali [1].
Sul delta del fiume delle Perle si realizzò in pochi anni una rete di nuove metropoli che per la rapidità della loro realizzazione, la deregolamentazione della loro forma e l’entità della loro estensione rappresenta, ancora oggi, un modello inedito. La crescita di queste metropoli venne innescata dalla liberalizzazione del mercato del diritto d’uso del suolo e del mercato immobiliare introdotta in via sperimentale dal Governo. La loro regolamentazione urbana venne intenzionalmente ignorata o rimandata al futuro.
In realtà, le SEZ sono soprattutto un’operazione finanziaria, l’enorme agglomerato urbano è un prodotto secondario: si moltiplica la città per moltiplicare il denaro. La notevole percentuale di edifici inutilizzati riscontrata in queste città sembra quasi risultare fisiologica, lasciando intatto l’ottimismo del Governo e dei developers. E difatti, in poco meno di dieci anni la sperimentazione si conclude con risultati stupefacenti e con l’apertura del mercato del suolo e del mercato immobiliare all’intero territorio cinese. Con la riforma del 1988 il Governo, pur rimanendo unico proprietario del suolo, cede i diritti d’uso per una durata massima di 70 anni [2].
Shanghai ha avuto una storia diversa rispetto alle altre metropoli cinesi. Già dai tempi delle Concessioni fu considerata, e non senza rancore, la città cinese più occidentale. In quegli stessi anni in cui vaste zone della Cina vivevano un sorprendente sviluppo urbano, Shanghai faticava a risollevarsi da un lungo periodo di frustrazione economica, dovuto al regime fiscale troppo pressante esercitato dal Governo in espiazione del passato capitalista. Tuttavia il disinteressamento di Mao per la crescita di Shanghai non ha avuto solo effetti negativi. Per esempio ha favorito la conservazione del Bund, i cui edifici vennero utilizzati come edifici rappresentativi in mancanza di risorse per costruirne di nuovi. Inoltre questo periodo di ritardo, ha permesso alla Municipalità di Shanghai il tempo della riflessione e della pianificazione, anche attraverso la consulenza di esperti stranieri.
Nel 1993, Zemin, ex sindaco di Shanghai, sale al potere e allenta la stretta fiscale allo scopo di ricollocare la metropoli all’interno del sistema globale e riportarla ai vecchi splendori.
In questi anni si attua il progetto di sviluppo della città sulla riva destra del Huang pu, denominata Pudong, zona caratterizzata da abitazioni ed edifici e attrezzature portuali. Grazie a Zemin, a Pudong fu attribuito lo statuto di SEZ. Senza alcuna remora, il ministro delle Costruzioni Hou Je annunciava allora che la vendita dei diritti di utilizzo del suolo doveva permettere il sostegno della crescita dei 20 anni a venire. Dopo soli quindici anni l’estensione urbanizzata di Pudong raggiungerà i 520 kmq, rispetto ai 620 Kmq della ‘vecchia’ Shanghai. Il suo skyline diventerà il simbolo dell’intera città, immagine con la quale si presenterà al mondo nella sua nuova veste di città globale.
La redazione del master Plan di Shanghai non fu semplice. Gli esperti stranieri si scontrarono con un sistema decisionale gerarchico molto rigido, una forte ingerenza del Governo centrale, un’invadenza indiscutibile del sindaco sulle decisioni. Inoltre i tecnici dell’Urban Institute troppo spesso non potevano imporre le proprie idee. In questo modo il Master Plan non ha soddisfatto nemmeno gli stessi urbanisti cinesi. Se il lato infrastrutturale del piano è ricco e funzionale, il disegno urbano segue modelli ormai superati: il grande asse centrale voluto dal Governo viene considerato sovradimensionato e afunzionale dall’equipe e viene criticato dai consulenti esterni.
Nonostante le perplessità dei tecnici, ma non della Municipalità, il piano venne realizzato a una velocità insperata dando luogo a una città funzionale, soprattutto sul piano infrastrutturale, ma iperdensa.
Risulterebbe tuttavia incompleto esaminare le dinamiche della crescita della città senza aver compreso l’influenza che gli investitori hanno potuto esercitare sul suo sviluppo. Se è vero che la loro influenza poteva, almeno in teoria, influire debolmente sulle decisioni del piano, la libertà d’azione e di progetto era intatta all’interno dei lotti a loro concessi.
Lotti, la cui estensione, avrebbe potuto facilmente mettere in seria discussione le direttive del master plan: per intenderci sulle dimensioni in gioco a Pudong, la compagnia Cheng Kong ottenne la cessione per 50 anni di 5,6 ettari, su cui erano previsti un centro commerciale e finanziario, spazi ricreativi e abitazioni.
I developers hanno inoltre il diritto di cedere parte o l’intero lotto creando diversi livelli di mercato. La Municipalità non è riuscita a costruire una rete adeguata e capillare di controllo e ha lasciato ampio spazio alla speculazione permettendo, e spesso favorendo, la costruzione di torri ed enormi centri commerciali che rendono banale e ripetitivo il paesaggio urbano.
Nemmeno gli sconvolgenti fatti di Tien an Men riuscirono a turbare i flussi di investimenti esteri verso la Cina [3]. Le statistiche mostrano che essi aumentarono da 17. 5 bilioni di dollari nel 1990 a 289 bilioni di dollari nel 1995 [4]. La predominanza di investitori esteri, per la maggiorparte composta da cinesi d’oltremare, ha alimentato una peculiare forma di sviluppo urbano incurante delle condizioni locali, creando uno scollamento tra la produzione della struttura urbana e gli effettivi bisogni della città, chiamato da alcuni “delocalization of properties” [5]. La Municipalità ha assunto un ruolo ambiguo davanti a questo fenomeno. Avendo posto come fonte di ricavo privilegiato il profitto proveniente dalle transazioni fondiarie e dall’apporto dei capitali esteri, la municipalità non può controllare in maniera adeguata le regole del gioco [6].
I distretti della città, spesso in competizione tra loro nel procacciarsi investimenti, hanno indotto la speculazione artificialmente per poi cercare di mettere in atto timidi tentativi di controllo. Inoltre lo Stato é strettamente legato alle imprese che investono nel settore immobiliare. La liberalizzazione del mercato dell’uso del suolo non solo ha permesso l’afflusso di capitali stranieri, ma rappresentava lo strumento per favorire la creazione di joint-ventures di imprese a partecipazione statale con imprese estere. In questo quadro, lo Stato non poteva assumere una posizione neutra nella gestione dello sviluppo della città. La crescita urbana sembra quindi alimentata dal mercato immobiliare e fondiario e guidata dalle direttive del piano, ma allo stesso tempo sembra prescindere da entrambi a causa dell’ingerenza dello Stato.
L’immagine della città iper-densa, infine, non dispiace affatto ai dirigenti del Partito, anzi ne sembrano compiaciuti. Basti pensare al favoloso plastico della città esposto orgogliosamente in una grande sala ai piani alti del Centro d’esposizione di Architettura e di Urbanistica.
Tuttavia, se è vero che Shanghai vuole misurarsi nella sfida della città sostenibile e della “Better City”, sarà il problema del mercato e della speculazione edilizia, oltre alle urgenze ambientali e alla violazione dei diritti umani, a rappresentare la sfida da dover affrontare in maniera sistematica.
[1] Gli investitori stranieri beneficiavano di una tassa tributaria del 15%, di un esenzione delle imposte per due anni, più altri tre anni in cui dovevano pagare solo la metà delle imposte, e altri importanti incentivi fiscali
[2] Alla fine del contratto, secondo la legge, la terra ritorna allo Stato con le strutture sopra costruite senza compensazione alcuna, a meno che non sia rinnovato. Non è ancora chiaro come si comporterà il governo allo scadere dei limiti temporali.
[3] Ciò può essere in parte spiegato dal sostegno fondamentale degli investimenti dei cinesi d’oltremare (non solo di Hong Kong, Taiwan e Singapore, ma anche della Thailandia, dell’Indonesia e dell’Australia), che mantengono una notevole e salda presenza nel mercato finanziario cinese anche nei periodi più incerti.
[4] China statistical yearbook, 1992; 1996
[5] Haila, A. Why is Shanghai Building a Giant Speculative Property Bubble?, International Journal of Urban and Regional Research, n.23, pp. 583-588, 1999
[6] Per il direttore dell’Amministrazione dei Terreni di Stato, dove il controllo è efficace, le tasse sull’immobiliare contribuivano per un quarto sui ricavi complessivi Statali. In alcune città arrivavano fino l’80%.