Quando questo numero di Urbanistica Informazioni verrà pubblicato, sarà in pieno corso di svolgimento il XXXI Congresso dell’Inu ma, a differenza di altri testi che ho elaborato in vista di questo importante appuntamento, ho deciso di indirizzare le mie riflessioni verso una questione che riguarda solo indirettamente la nuova legge di principi per il governo del territorio.
Tale scelta è legata alla consapevolezza che il successo di un approccio riformista alle politiche pubbliche, e più in particolare ad una nuova cultura del progetto della città e del territorio, non può scaturire unicamente dall’aggiornamento del quadro normativo e degli strumenti di pianificazione. In misura assai rilevante, e forse decisiva, l’apertura di una nuova stagione urbanistica può derivare, anche nel nostro Paese, dalla nostra capacità di dimostrare che la riforma del governo del territorio è in grado di favorire il raggiungimento di quei risultati che la società ritiene ormai irrinunciabili, ma che l’attuale ordinamento e le pratiche urbanistiche correnti non sono finora riusciti a realizzare.
Nel definire in poche battute lo ’scarto’ esistente tra una lettura procedurale ed una maggiormente sostantiva delle innovazioni nel governo del territorio, è sufficiente ricordare le vicende che, dopo gli studi di Stiglitz, Fitoussi e Durand (2018), hanno ruotato intorno al tema della valutazione delle performances di una comunità nazionale, e quando la necessità di andare “oltre il Pil” si è diffusa a livello planetario (Germani e Pierini 2022). Muovendosi in questa stessa direzione, anche l’Italia ha sviluppato una propria definizione di benessere (il Benessere equo e sostenibile - Bes) su cui fondare una misurazione multidimensionale degli effetti dello sviluppo economico che avrebbe dovuto affiancare – e, in prospettiva, sostituire – il calcolo del prodotto interno lordo.
Ebbene, nonostante le migliori intenzioni, e sebbene l’approvazione della Legge 163 del 2016 ha consentito di introdurre gli indicatori del Bes nel Documento di economia e finanza (Def) e ha fatto sì che l’Italia potesse tenere sotto controllo variabili quali la disuguaglianza del reddito disponibile, l’incidenza della povertà assoluta o l’uscita precoce dal sistema di istruzione e formazione, dobbiamo prendere atto che la misurazione del benessere occupa ancora un ruolo molto marginale nel policy-making tanto a livello nazionale, quanto a scala regionale.
Non solo; l’impressione che si ricava dalla considerazione dell’insieme degli strumenti e delle politiche che sono stati concepiti per mitigare il ’tasso d’ingiustizia’ che caratterizza le società urbane è che si proceda in ordine sparso, e senza disporre dei necessari strumenti di previsione e di controllo. Agli indubbi avanzamenti ’metodologici’ che sono stati compiuti in questo campo, andrebbero affiancate iniziative più concrete, in grado cioè di integrare gli sforzi per riuscire finalmente a modificare il modo in cui le differenti misure vengono concepite, armonizzate e valutate. È dunque necessario fare un ulteriore passo in avanti, creando un più efficace collegamento tra gli indicatori di benessere e gli interventi normativi, nella convinzione che solo in questo modo sarà possibile adottare un approccio multidimensionale al benessere delle comunità urbane.
Si può sostenere a questo punto che la messa in discussione della capacità descrittiva delle definizioni tradizionali dello sviluppo coincida in molti casi con l’affiorare di dubbi crescenti sulla efficacia delle politiche economiche più convenzionali, e che entrambe queste debolezze minano alla base l’influenza esercitata dai provvedimenti del settore pubblico in vista di un rinnovamento del welfare. Ne consegue pertanto la necessità di puntare l’attenzione di ricercatori, amministratori e planners nei confronti di sistemi produttivi e di modelli insediativi che non sono stati finora in grado di impedire che la città contemporanea, proprio mentre favorisce il successo dell’economia globale, non riesce ad ostacolare un ulteriore aumento delle disuguaglianze e dell’esclusione sociale.
A fronte di questo evidente paradosso, è necessario considerare la possibilità che i processi di urbanizzazione siano responsabili, almeno in molti casi, della nascita di rilevanti problemi di esclusione, e della costruzione di autentiche barriere che attraversano e segmentano il tessuto urbano. Ma se risulta evidente che i processi di separazione non sono in alcun modo un’invenzione della modernità, negli ultimi decenni la morfologia dell’esclusione si è senza dubbio trasformata soprattutto in Occidente, imprimendo un cambiamento radicale non solo nelle forme dell’antagonismo e del conflitto sociale, ma anche nella qualità della risposta dei partiti e delle forze di governo alle tensioni che si manifestavano nella società.
Laddove in democrazia la conflittualità è stata canalizzata almeno in parte all’interno delle istituzioni, e ha dato vita più recentemente alla formazione di movimenti politici di stampo populista, la ’gestione’ dei processi di esclusione è stata delegata al funzionamento dell’economia di mercato, che ha sostituito i ghetti, divenuti ormai obsoleti, mediante la contemporanea espulsione nelle frange sub-urbane delle famiglie a basso reddito e la gentrification dei vecchi quartieri popolari.
In questa rivisitazione del rapporto centro-periferia e nella conseguente accentuazione dei divari (di reddito, culturali, etnico-religiosi, politici, ecc.) tra le due popolazioni, tende a manifestarsi quella ’tolleranza repressiva’ che, secondo Marcuse, offriva potenzialmente a tutti i cittadini una piena libertà di scelta, e di iniziativa, mentre ad alcuni di essi non forniva gli strumenti per esercitarla in maniera indipendente (Marcuse 1968).
In linea con questa interpretazione dell’emergenza sociale che caratterizza molti contesti insediativi, credo sia necessario prendere atto che la nuova agenda urbana – come peraltro il World Urban Forum ha messo in evidenza nel giugno di quest’anno – debba aggiungere alle sfide impegnative decretate dalla pandemia, dal cambiamento climatico e dalla transizione ecologica, anche quella derivante dall’acutizzarsi dei problemi determinati dall’aumento delle disuguaglianze e dall’affiorare di preoccupanti fenomeni di esclusione.
Anticipando un tema che sarà al centro della XIII Biennale delle città e degli urbanisti europei, (“Inclusive Cities and Regions”) – che si svolgerà a Napoli dal 28 novembre al 2 dicembre 2023 con il contributo scientifico e organizzativo dell’Inu – il riferimento alla città inclusiva costituisce una prospettiva privilegiata per discutere del futuro della città; e per evidenziare come tale concetto sottintenda la presenza di una complessa e fitta rete di molteplici fattori spaziali, sociali ed economici, che è necessario analizzare attentamente, e che conviene governare con la più ampia partecipazione delle comunità interessate.
Nella prospettiva che abbiamo indicato, sono almeno tre le declinazioni che la città inclusiva tende ad assumere [1]:
l’inclusione spaziale, che tende ad enfatizzare le forme assunte dalla accessibilità ai servizi e ai beni di prima necessità;
l’inclusione sociale, che richiede che vengano concessi a tutti i cittadini pari diritti e l’accesso alle pratiche della partecipazione diretta;
l’inclusione economica, che prevede che venga assicurata a tutti i residenti l’opportunità di godere dei benefici della crescita economica. Se a questo punto proviamo a confrontare i punti di debolezza che abbiamo evidenziato in questa breve riflessione – e che riguardano rispettivamente la dimensione macro dell’intervento pubblico e la scala più minuta delle iniziative di trasformazione urbana quando vengono indirizzate verso il miglioramento del benessere della popolazione – non possiamo fare a meno di sottolineare che tanto nel primo, quanto nel secondo approccio si rivelerà decisiva la ’territorializzazione’ delle scelte operate dalla pubblica amministrazione.
Quest’ultimo termine, dopo essere risultato decisivo nel dibattito, molto intenso, che ruotava intorno alla valutazione della fattibilità dei progetti finanziati dal PNRR, si presenta nuovamente alla nostra attenzione e può indirizzare l’applicazione in senso riformista della nuova disciplina del governo del territorio.
Conviene a questo punto segnalare che questo percorso accidentato di uscita dalla povertà, e verso il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, può agire, al tempo stesso, come un attivatore di un processo virtuoso di sviluppo, sempre che le politiche pubbliche che verranno messe in atto facciano parte di un disegno più generale, tendente a favorire l’integrazione delle differenti articolazioni della società urbana.
Se gestiti sapientemente, i processi di urbanizzazione e di rigenerazione urbana a cui abbiamo fatto riferimento possono contribuire alla creazione delle opportunità di una vita migliore, indicando un percorso di uscita dalla povertà che può diventare esso stesso un motore di crescita economica e sociale.
Germani L., Pierini F. (2022), “Oltre il PIL: indicatori di benessere e processo politico”, Menabò, no. 174, 14 giugno.
Marcuse H. (1968), “La tolleranza repressiva”, in R. P. Wolff, B. Moore jr., H. Marcuse, Critica della tolleranza, Einaudi, Torino, p. 97-105.
Stiglitz J. E., Fitoussi J. P., Durand M. (2018), Beyond GDP. Measuring What Counts for Economic and Social Performance, OECD.
[1] The World Bank, Inclusive Cities: Development news, research, data, 2015 (https://www.worldbank.org/en/topic/...).