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Griglie amministrative, tra decentramento e neo-centralismo

Tempo di bilanci

Gli interventi di riforma dell’assetto amministrativo operati dalle Legge 56/2014 "Disposizioni sulle Città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni" hanno agito con parzialità e con scelte subordinate ad altri obbiettivi (come la successiva abolizione delle Province!) che, nel lungo periodo, hanno fatto della questione delle autonomie locali uno dei punti di maggiore criticità contemporanea.
Tale situazione ha animato intensi dibattiti e discussioni (tra gli altri si rimanda a Giannino 2024, sulla pagine di questa rivista) a partire da coloro (Dini e Zilli 2023) che hanno oculatamente osservato che quando le Camere si sono apprestate ad approvare la Legge 56 la geografia amministrativa italiana era territorialmente inefficiente a causa della "dannosa incongruenza tra la forma territoriale della regolazione amministrativa e il mutamento della vita associata, degli investimenti privati e pubblici e del lavoro per come materialmente si sono andati organizzando sul territorio" (ivi: 7). Cioè da tempo la griglia amministrativa della Repubblica non rispondeva più alla fisionomia territoriale della società e dell’economia. Come ampiamente descritto e commentato, il fenomeno urbano aveva assunto la dimensione della metropolizzazione (quale condizione nella quale la dimensione d’area vasta delle interdipendenze territoriali e di taluni fatti urbani nelle aree metropolitane si unisce ad una grande dilatazione del sistema infrastrutturale e insediativo, dominato dalla frammentazione e dispersione della forma urbana), perdendo ogni contatto con i limiti amministrativi e si trovava gestito da più enti mutuamente indipendenti, mentre al contrario territori fra loro drasticamente diversi potevano essere amministrati dal medesimo ente.
La griglia amministrativa, rigida per definizione, è entrata chiaramente in contraddizione con il territorio che muta, anche in modo accelerato.

Fra chiari e scuri

La Legge 56/2014 sostanzialmente mirava a creare una maggiore interdipendenza tra comuni ed enti di area vasta, riorganizzando le funzioni amministrative sulla base delle esigenze locali e dei principi costituzionali di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, intendendo perseguire due obbiettivi chiave: da una parte il rafforzamento dell’autonomia comunale e la promozione della cooperazione tra comuni; dall’altra la ridefinizione del ruolo delle Province e la istituzione delle Città metropolitane come nuovi enti di governo territoriale.
I dieci anni di applicazione della legge sembrano consegnarci alcuni
fallimenti ad esempio in relazione al fatto che, prevalentemente, non si è verificato né un rafforzamento effettivo dell’autonomia comunale né un potenziamento della cooperazione intercomunale, anche rispetto agli enti locali e di area vasta che sono rimasti separati e poco coordinati, privi di una visione esplicita e condivisa di decentramento infra-regionale.
Diversi riconoscono tra le criticità strutturali il fatto che la coincidenza delle Città metropolitane con i confini provinciali ha generato ambiguità, ignorando le caratteristiche socio-economiche e geografiche locali e che la scelta di un governo di secondo livello, con il sindaco metropolitano nominato ex lege coincidente col sindaco del comune capoluogo, ha sollevato dubbi sulla rappresentatività e sull’effettiva accountability degli enti. Le criticità sostanziali si cui si registra ampia convergenza si riferiscono al sostanziale insuccesso sia della ’collaborazione interna’ nella misura in cui molte città metropolitane non sono riuscite a promuovere un’effettiva cooperazione tra i comuni del loro territorio, assumendo un assetto verticalizzato dominato dal capoluogo; sia della ’collaborazione esterna’ laddove le relazioni con altri enti territoriali sono state spesso deboli e limitate a protocolli d’intesa non strutturati. A ciò si aggiunge una limitata capacità pianificatoria: i piani strategici metropolitani, che dovevano rappresentare la guida per lo sviluppo territoriale, sono arrivati in ritardo e si sono rivelati spesso poco incisivi, non riuscendo a coordinare le politiche locali.
Quella che, piuttosto, sembra essere emersa (Orlando 2024) è una sorta di ri-centralizzazione accompagnata da carenza di risorse: il trasferimento di funzioni alle regioni, unito a tagli finanziari e di personale, ha limitato la capacità operativa tanto delle province quanto dei comuni, così come la progressiva centralizzazione delle competenze a livello regionale (in diverse situazioni) ha ulteriormente ridotto l’autonomia locale. Non sfugge infatti come, in alcuni casi, la regione abbia assunto un ruolo dominante non solo e propriamente legislativo ma soprattutto (e meno propriamente) gestionale; un fatto aggravato dalla persistente frammentazione comunale e dal sostanziale declino delle unioni intercomunali.
Di fatto, il fenomeno che maggiormente si è registrato è la mancanza di coordinamento ovvero l’assenza di strumenti efficaci di concertazione tra comuni e province (comprese le stesse Città metropolitane) ha probabilmente indebolito la pianificazione regionale (e l’equità territoriale) e le decisioni sulle politiche e i finanziamenti sono rimaste concentrate a livello regionale, con i comuni relegati a un mero ruolo esecutivo finale. Quindi il tentativo di decentramento si è trasformato, nei fatti, in un neo-centralismo regionale.
Si rende necessario un ripensamento di responsabilità e ruoli degli enti locali, bilanciando decentramento e supervisione regionale, per garantire un sistema di governance più efficace e sostenibile.
In aggiunta, è altresì rilevabile una sorta di ’tecnocrazia implicita’ nel modello previsto dalla Legge Delrio in relazione al ruolo predominante assunto dalle regioni e alle limitazioni imposte agli enti locali, che sono stati privati di un’autentica capacità decisionale e relegati a un ruolo esecutivo subordinato.
Gli aspetti critici riferibili alla tecnocrazia consistono in:
centralizzazione delle decisioni: riferita alla progressiva ricentralizzazione delle funzioni presso la regione, che ha assunto sia la programmazione sia la gestione amministrativa, sottraendo potere decisionale agli enti locali; un assetto in cui le decisioni strategiche sono state accentrate in mano a organi regionali e agenzie tecniche;
ruolo marginale dei comuni e degli enti di area vasta: in quanto gli enti locali sono stati destinatari di mere attività endo-procedimentali di natura istruttoria o di data-entry anziché di intere funzioni di decentramento; le decisioni politiche e i finanziamenti sono rimasti nelle mani di strutture centralizzate, con il coinvolgimento degli enti locali ridotto a un processo puramente tecnico;
debolezza della rappresentanza politica locale: l’assenza di un indirizzo politico coordinato tra comuni e enti di area vasta ha impedito il funzionamento di meccanismi virtuosi di governance locale e le scelte politiche sono state dominate da organi tecnici regionali e da rappresentanze di secondo grado, così (forse?) riducendo il peso della rappresentanza democratica diretta degli enti locali;
frammentazione delle competenze: che ha visto privilegiare un approccio tecnico-gestionale piuttosto che politico-strategico; le regioni hanno assunto un ruolo quasi esclusivo nella programmazione e nella gestione, creando una disparità tra la capacità decisionale delle regioni e la marginalizzazione dei comuni e delle province.
Questi elementi evidenziano una criticità implicita nel carattere tecnocratico della Legge 56, in cui il potere decisionale è stato accentrato in strutture regionali e tecniche, a discapito del coinvolgimento politico e democratico degli enti locali.
Anche questa deriva tecnocratica sembra essere stata un limite del modello, che ha impedito lo sviluppo di una governance territoriale realmente partecipativa e bilanciata.

A proposito di unità amministrative

Diverse tradizioni filosofiche, giuridiche e politiche testimoniano la complessità del pensiero sulle unità amministrative. L’idea di definire un’unità amministrativa minima nasce dall’esigenza di organizzare la governance in modo efficiente, rispettando una sussidiarietà non ancora enunciata e bilanciando autonomia e centralizzazione.
Ci si può cimentare nel rammentarne le più emblematiche.
Se ne ritrovano radici nel pensiero di Aristotele (nella Politica) che considera la città-stato (polis) come l’unità minima di governance, basata sull’interazione tra famiglie e villaggi, come l’espressione naturale dell’organizzazione umana, in cui l’autosufficienza e la partecipazione politica sono centrali. Ed anche in Platone (nella Repubblica), che propone un’unità amministrativa ideale fondata sull’armonia tra i diversi gruppi sociali e sull’idea che l’amministrazione debba partire dal piccolo per servire il grande. I romani formalizzarono l’idea dell’unità amministrativa minima attraverso il municipium, una città con autonomia limitata e subordinata a Roma, con funzioni amministrative locali ma come parte integrante dell’impero. Persino le curiae erano piccole unità amministrative e religiose che gestivano la vita locale, anticipando l’idea di entità amministrative radicate nelle comunità.
Successivamente, il principio della sussidiarietà emerge nel pensiero cristiano medievale, in particolare con San Tommaso d’Aquino che afferma che le decisioni dovrebbero essere prese al livello più basso possibile e solo delegate a livelli superiori se necessario, con ciò influenzando profondamente il pensiero amministrativo moderno.
Anche i comuni medievali, specialmente in Italia, rappresentano un’unità amministrativa autonoma: erano spesso basati su accordi collettivi e autogoverno, anticipando le moderne amministrazioni locali. In periodo illuminista, l’importanza attribuita alle comunità locali come base della sovranità popolare esprime una visione che ispira il decentramento amministrativo come strumento per garantire la partecipazione dei cittadini. Più tardi il modello napoleonico formalizza l’idea di divisioni amministrative uniformi, i dipartimenti, che rappresentano unità minime razionalizzate per il controllo statale.
Rispetto al XX secolo, si è già avuta occasione di commentare (Giaimo 2022) il percorso del principio di sussidiarietà formalizzato nel Trattato di Maastricht (1992), che lo include come principio guida dell’Unione europea. Nel pensiero contemporanee Elinor Ostrom, Nobel per l’economia, ha sviluppato il concetto di policentrismo, secondo cui le decisioni amministrative dovrebbero essere prese a diversi livelli, bilanciando unità locali e coordinamento centrale.
Un pensiero che ben si sposa con la teoria della governance multilivello (Hooghe and Marks 2001) che descrive un sistema in cui le unità minime (municipalità) collaborano con enti superiori (province, regioni, stati) in una rete integrata multi-attoriale.
Ciò che oggi sembra non aver perso attualità è la necessità di saper concepire unità amministrative in grado di condensare i caratteri di autonomia, per la capacità di gestire le esigenze locali; integrazione, quali parti di un sistema più ampio; flessibilità, l’indispensabile adattabilità alle peculiarità locali ma funzionale al coordinamento con livelli superiori.
Il valore aggiunto dell’unità amministrativa, di cui la pianificazione ha certamente bisogno, risiede nella capacità di bilanciare autonomia e interdipendenza, garantendo efficacia amministrativa e partecipazione democratica.

Riferimenti bibliografici

Dini F., Zilli S. (2022), “Legge 56/2014 e geografia politica dell’Italia: valutazione d’impatto ambientale”, in F. Dini e S. Zilli (a cura di) “Territori amministrati. La geografia politica dell’Italia dopo la legge 56/2014”, Geotema, no. 70, p. 6-23.
Giaimo C. (2022), “Trent’anni di sussidiarietà”, Urbanistica Informazioni, no, 302 p. 5-6.
Giannino C. (2024) (a cura di), “Città metropolitane: nodi critici e buone pratiche a 10 anni dall’istituzione”, Urbanistica Informazioni, no. 317, p. 9-42.
Hooghe L., Marks G. (2001), Multi-Level Governance and European Integration, Rowman & Littlefield Pub, Lanham.
Orlando M. (2024), “A dieci anni dalla “legge Delrio”, una riflessione sul decentramento piemontese”, Il Piemonte delle Autonomie, no. 3, p. 338-342.

Data di pubblicazione: 30 dicembre 2024