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Federalismo, ascoltiamo i Sindaci

Da alcuni anni è in atto, nella pubblica amministrazione, un lento processo di trasferimento di funzioni, dal centro verso la periferia, che, nelle intenzioni annunciate, dovrebbe comportare una maggiore autonomia gestionale per gli Enti locali.
Sono molte le deleghe effettuate nei confronti dei Comuni, accrescendo la quantità di servizi che questi sono chiamati ad erogare direttamente ai cittadini.
Dal pari, però, non è corrisposto un proporzionale trasferimento di risorse, anzi, molti provvedimenti normativi di questi ultimi anni hanno comportato tagli sui contributi erariali e limitazioni nelle voci di spesa dei bilanci comunali, creando così seri problemi per gli equilibri di bilancio agli Enti.
Gli obblighi previsti dal patto di stabilità da un lato e i tetti massimi posti sull’indebitamento per gli investimenti e su alcune voci della spesa corrente diventano sempre più insostenibili. Se a ciò si aggiunge la politica di riduzione della spesa per il personale, che limita drasticamente la disponibilità degli Enti locali anche in termini di risorse umane, allora la situazione rischia di degenerare.
La conseguenza di ciò sarà l’impossibilità, per i Comuni, di erogare tutti quei nuovi servizi cui sono chiamati, ma anche quelli basilari che da sempre sono stati garantiti ai cittadini, ed in particolar modo alle fasce sociali più deboli.
Certamente viviamo tempi difficili, e i mutamenti intervenuti nel contesto internazionale obbligano tutti, privati cittadini e pubblica amministrazione, a fare la propria parte, cercando di raggiungere una maggiore efficienza nelle proprie gestioni e di eliminare gli sprechi.
Ma non si può chiedere ai Comuni di fare miracoli. E’ inevitabile che queste politiche finiscano per incidere negativamente sulla quantità e sulla qualità dei servizi resi.
Né sembrano rassicuranti le notizie di stampa che giungono in questi giorni sul decreto che il Governo sta mettendo a punto per avviare il federalismo comunale.
Si parla di una partecipazione agli introiti Irpef, prevedendo, però, una quota troppo bassa (2%) perché possa essere in grado di garantire un budget adeguato per le casse comunali.
È stata soppressa l’Ici sulla prima casa ed ora si vorrebbe introdurre l’imposta municipale unica, ma non viene stabilito che i comuni possano determinare autonomamente e preventivamente la relativa aliquota, in modo da poter programmare in tempo i propri bilanci.
L’introduzione della tassa di soggiorno è stata prevista solo per i comuni capoluogo di provincia.
Un impianto normativo che nasce senza concertazione e viene calato dall’alto, in modo indifferenziato, senza tener minimamente conto della diversa realtà e delle peculiarità dei campanili italiani.
I Comuni rappresentano da sempre il riferimento istituzionale più immediato per i cittadini, e, con l’attuale sistema, fanno molta fatica a dare risposte adeguate alle istanze che, ancor più numerose in un periodo di crisi come questo che stiamo vivendo, provengono dalle Comunità.
Da qui, la necessità, da un lato di rivedere urgentemente alcune norme che regolano i bilanci degli Enti, e dall’altro di affinare buone pratiche gestionali, basate su programmazioni avvedute.
Innanzitutto sarebbe più semplice e immediato rendere libera la possibilità di far applicare a tutti i Comuni l’addizionale comunale Irpef, e di far determinare liberamente le aliquote dei diversi tributi locali attualmente vigenti. Ciascuna amministrazione potrebbe, così, prevedere la propria tassazione, calibrando il giusto mix di imposte rispetto alla propria realtà territoriale.
Ma occorrerebbe modificare anche le proposte avanzate dal Ministro alla Semplificazione sul federalismo comunale.
Meglio sarebbe, invece di una partecipazione all’IRPEF, prevedere che una quota parte dell’Iva vada ai Comuni. In tal modo si ha la possibilità di legare l’introito ai luoghi di effettiva realizzazione delle transazioni commerciali, mentre l’Irpef resterebbe legata al Comune di residenza dei titolari del reddito.
Sarebbe auspicabile, in luogo della reintroduzione della tassa di soggiorno, che può essere prevista, ma per tutti i Comuni, la facoltà di applicare un canone di soggiorno. Il pagamento di una somma per la permanenza in un luogo deve avvenire in modo vincolato per il Comune che la incassa, cioè, l’introito dovrà avere una destinazione vincolata al miglioramento o all’implementazione dei servizi resi ai turisti.
Solo così, si avrebbe una maggiore percezione che il canone pagato contribuisce a migliorare i luoghi della vacanza e quindi la qualità di vita che si può godere in un Comune.
Ma la vera scommessa resta la capacità della politica di acquisire una mentalità che sappia tradurre alcuni dei principi imprenditoriali nella gestione della pubblica amministrazione. Occorre essere in grado di stabilire la priorità da dare alle diverse questioni e saper valorizzare al meglio le potenzialità.
Ciò vale maggiormente per quei Comuni a vocazione turistica in cui varie sono le opportunità di introito, ma forte è la richiesta in termini di servizi che è necessario predisporre per governare la presenza dei flussi turistici.
Un’ultima questione che è opportuno trattare è l’uso dei fondi comunitari. Opportunità, questa, indispensabile per realizzare quelle opere pubbliche necessarie per i Comuni, sempre più limitati nella capacità di indebitamento presso la Cassa Depositi e Prestiti.
È intollerabile, oggi più che in passato, veder sprecare risorse finanziare, che spesso ritornano alla Comunità Europea, e che dovrebbero essere impiegate produttivamente sui nostri territori.
Bisogna, quali amministratori della cosa pubblica, avere una chiara visione di sviluppo delle proprie Città che, una volta condivisa, venga tradotta in progettualità cantierizzabile in tempi accettabili.
Solo così si potrà sperare di vedere impegnati tali fondi in modo efficace, affinché possano restituire un concreto ritorno per la collettività.

Data di pubblicazione: 23 marzo 2011