La mossa del distanziamento è stata una componente centrale della strategia per il contenimento della diffusione di epidemia del Coronavirus e sarà ancora parte della seconda fase come una delle precauzioni essenziali da adottare nel progressivo rientro alle attività precedenti ed ordinarie. Questo criterio della distanza, ovvero della prossimità, è stato semplificato al suo profilo geometrico e fissato tra il metro e mezzo e i due metri, sulla base della capacità di trasmissione attraverso l’atmosfera.
Da urbanisti ci dobbiamo sentire legittimati ad intervenire in questa questione perché la nostra cultura tecnica si è costruita in parte ragguardevole sul concetto di prossimità e, cosa ancora più importante, quel concetto a noi proveniente dagli studi sociali, è stato tradotto in forma urbana proprio nei momenti di crisi, di varia natura, come una soluzione.
Per essere più esplicito, faccio qualche riferimento storico. Il processo di urbanizzazione ha generato giustamente grandi allarmi sulla tenuta di società urbane eterogenee dove si assemblavano genti reciprocamente sconosciute e creavano quell’ambiente anonimo che poteva generare tanti pericoli per la salute, l’ordine ed il benessere. Se in primo momento gli igienisti puntarono sui criteri di soleggiamento e ventilazione, successivamente venne suggerito da sociologi come Mumford, il consolidamento di comunità urbane costruite sul criterio della prossimità. Ovvero, di sviluppare le relazioni e la solidarietà tra i vicini come strategia di sicurezza sociale. Questa idea si fece spazio nel Piano regionale dell’area metropolitana di New York e generò il modello del neighborhood unit dell’architetto Clarence Perry, universalmente seguito. Fu ripreso in quello della Grande Londra di Abercrobie dell’immediato dopoguerra generando una struttura urbana a cellule (coniugandosi con la tradizione organicistica di Geddes).
Riaffiorò negli studi sulla sicurezza contro la criminalità di Newman traducendosi in un movimento di controllo sociale per la difesa delle comunità coese, come aveva già avvertito la Jacobs (la sicurezza degli spazi pubblici assicurata dalle finestre che vi si affacciano), fino a giungere ai nostri giorni con quelle misure che impropriamente presero il nome di “tolleranza zero” ma che nella versione comunitaria si chiamerebbero piuttosto “riparate le finestre rotte”. Ancora si tratta di garantire la sicurezza basandosi sull’autovigilanza delle comunità coese. Chiama subito la polizia se vedi aggirarsi nel tuo quartiere uno straniero e sospetti che possa compiere atti illegali.
A questo filone l’Italia non è estranea perché l’urbanistica del nostro dopoguerra si apre con un articolo di Munford su Metron che propaganda le medesime idee, fatte proprie da Adriano Olivetti, presidente INU, che le ritiene utili, anche per l’assonanza a certi indirizzi cattolici, per accompagnare la transizione alla società industriale, in sicurezza. L’indirizzo di creare comunità coese trova molte applicazioni nell’urbanistica italiana e maggiormente nei quartieri neorealisti dell’edilizia a basso costo, coniugandosi con le tradizioni popolari e riscoprendo comunità autoctone. Visto che l’abbiamo appena celebrata come città della cultura europea, conviene ricordare quanto l’Unra-casas, sempre guidata da Olivetti, fece a Matera riproponendo i vicinati dei Sassi nei nuovi quartieri.
Anche gli economisti sono ricorsi alle comunità (ed alla sociologia) quando hanno voluto spiegare il miracolo della Terza Italia e lo hanno codificato in modello per politiche di sviluppo locale innescando la stagione dei Patti Territoriali, delle politiche negoziate. In questo caso, le relazioni interne di coesione e fiducia erano valorizzate negli aspetti positivi di cooperazione per il benessere comune, riducendo i costi di transazione, consentendo l’esternalizzazione di segmenti della produzione e formando distretti industriali competitivi, in controtendenza rispetto ai processi di agglomerazione in multinazionali.
La conclusione di questa rapida rassegna conduce spontaneamente ad una domanda, come mai, data la complessità del rapporto di prossimità con tutte le molteplici valenze a cui finora abbiamo appena accennato, la vediamo ridotta adesso alla semplice misura di un metro? Come mai la comunità che ha strutturato lo spazio delle nostre città è dimenticata?
La risposta che mi so dare riconduce alla pervasiva diffusione dell’idea neoliberale di città e dello spazio pubblico, dove l’unica realtà concettualizzabile è quella dell’individuo e qualsiasi altra organizzazione in gruppi non ha cittadinanza: famiglie, classi di alunni, team di lavoro, villaggi, …
Allora assistiamo a proposte sulla città futura in cui gli appartamenti devo essere più grandi per distanziare i membri della stessa famiglia, gli edifici plurifamiliari saranno ridotti a unifamiliari, è riscattata la dispersione insediativa da tutte le accuse che si erano accumulate nei suoi confronti tra cui quella della sua insostenibilità, alimentiamo miti di ripopolamento delle zone interne. Questa guerra alla densità, proprio quando si era trovata la densificazione come uno dei mezzi per la sostenibilità urbana, rischia di fare cadaveri non solo in ambito spaziale, ma anche in quello economico. Eppure c’è una ricetta antica con cui da molto tempo abbiamo rimediato ai mali della densità con quelli della comunità a cui potremmo ancora rivolgerci nella fase due con il vantaggio che questa soluzione prefigura un sistema permanente di prevenzione. Infatti, l’avvertenza degli epidemiologi che la politica e gli urbanisti dovrebbero tenere in maggior conto è che le pandemie non si combattono negli ospedali ma sui territori. Abbiamo bisogno di comunità sane e vigili.
È vero che la società moderna ha una maggiore complessità di quella rimpianta da Tönnies, le comunità sono aperte e fortemente intercomunicanti e apparirebbe una costrizione delle libertà rafforzarne i perimetri e controllare gli ingressi ma mi chiedo se si può rimediare con conoscenza e tecnologia. Se accertiamo che una comunità è sana (i suoi membri sono immuni) non c’è necessità di mantenere le distanze. Pensate ai vantaggi per i ristoranti dove gli impiegati di un ufficio vanno a pranzo durante la settimana di lavoro. Se un gruppo di turisti è sano non devono rispettare le distanze in areo, negli alberghi ed al ristorante. Il distanziamento è necessario tra il gruppo e gli altri. Il vantaggio della libertà interna si dovrà pagare con il controllo nell’interazione con l’esterno. Tuttavia, i benefici non ci saranno solamente per il quartiere sano ed i suoi spazi pubblici dove i membri della comunità saranno liberi nelle reciproche relazioni, ma per l’economia più in generale. Sempre a costo che l’impegno etico sia quello di preservare la salute della comunità con il controllo, il che prefigura un modello di prevenzione capillare e partecipato, dove l’educazione del cittadino ed il suo senso di responsabilità e messo alla prova.