Emergenze ambientali e emergenze sociali continuano a segnare i nostri territori e le nostre città. Continuano perché è dal dopoguerra che le città italiane non hanno risolto il problema del fabbisogno abitativo per ampie fasce di cittadini, che molti quartieri non hanno infrastrutture adeguate di fognature, strade, reti tecnologiche, ma anche di asili, scuole sicure e servizi sanitari. Continuano perché la difesa del suolo da terremoti, frane, alluvioni non è stata affrontata con piani e investimenti strutturali.
Chiamano emergenze gli esiti dei disastri sociali e ambientali che si sono creati proprio come conseguenza di una messa a regime dell’emergenza, e quindi della deroga, come politica di governo del territorio.
In nome di una domanda abitativa generata dai flussi di migrazione da sud al nord, da est ad ovest e dalle campagne alle città proseguita fino agli anni ’70 e di sostegno ai processi di diffusione insediativa negli anni ’80 e ’90 e poi con la “necessità” di sostenere il settore edilizio in crisi negli anni 2000 con il cosiddetto Piano Casa, si sono di volta in volta prodotte politiche che in ragione della necessità di rispondere all’emergenza hanno consentito di costruire tanto, male e spesso dove non si poteva.
La programmazione, il piano urbanistico, la difesa del suolo venivano presentate e percepite come processi burocratici, intoppi che non consentivano di affrontare le emergenze che di volta in volta venivano indicate.
L’esito sono città senza spazi pubblici, che non siano luoghi di transito, senza servizi, trasporto pubblico e quindi congestionate da un traffico privato costante e pericoloso. L’esito per il territorio è il degrado ambientale che diventa rischio e danno in occasione degli eventi atmosferici sempre più frequenti.
L’esperienza del “buon governo” di poche città e di poche regioni, quelle che negli anni ‘70 venivano chiamate “rosse” è sicuramente una eccezione con segni positivi nella gestione dei problemi e dei conflitti sociali legati all’abitare e alla qualità urbana, così come nel governo delle acque e nella tutela delle montagne e dei territori a rischio.
Oggi anche quella esperienza sembra persa, mentre si inseguono soluzioni legislative (per ogni problema in Italia ci vuole una legge) e si cercano risorse pubbliche che non ci sono.
La stagione delle riforme urbanistiche regionali, in assenza e nell’incapacità di affrontare da parte dello stato la difesa del territorio e la risposta alle domande di qualità urbana, si è caratterizzata come una occasione in gran parte perduta, perche sono arrivate troppo tardi, quando cioè i grandi processi insediativi erano già stati realizzati e perché comunque non sono state in grado di produrre un cambio di rotta, una discontinuità con la politiche di premio della rendita. Ne sono prova e testimonianza la sovrapproduzione edilizia residenziale, produttiva e terziaria del decennio 1998 -2008, l’incapacità di avviare processi di risanamento ambientale e rigenerazione urbana per il mantenimento degli equilibri eco sistemici: forestazione urbana, opere di sistemazione idrogeologica per la messa in sicurezza degli insediamenti, corridoi ecologici.
Dal 2000, periodo intorno al quale le più importanti leggi regionali di riforma urbanistica sono state varate, molte cose sono cambiate sia nel contesto locale che globale. Oggi ci si deve misurare con la complessità dei cambiamenti che continuamente scompongono e ricompongono la realtà socio economica e territoriale, processi che indicano la necessità di riconsiderare politiche e azioni nel quadro dei nuovi scenari che si vanno a delineare e tra questi in primo luogo:
l’allarme sui cambiamenti climatici;
i processi di metropolitanizzazione; la continua espansione che genera alti consumi di suolo, diseconomie di scala e una progressiva disarticolazione delle funzioni urbane;
la minore disponibilità di fondi per gli investimenti sia da parte pubblica che da parte privata.
Ormai da decenni si va affermando che il territorio è una risorsa limitata, che la priorità è il recupero e la riqualificazione urbana, e che servono nuovi strumenti in quanto quelli a disposizione sono stati pensati in un’altra epoca in un altro scenario: quello della crescita per diffusione. Da decenni però i processi urbanistici hanno fatto registrare il proseguimento indisturbato di quel modello che nonostante i costi, ambientali e infrastrutturali, risultava più semplice, più condiviso.
Questa nuova condizione ripropone il tema di come il piano (e altri strumenti di governo del territorio) possano garantire difesa del suolo, qualità ambientale, servizi pubblici e case in affitto, in assenza di interventi pubblici diretti e di operatori in grado di trovare sostenibilità economica per finanziarli.
Il piano con la sua possibilità/capacità di delineare le scelte strutturali di assetto e di “regolare” interessi pubblici consente di ripensare interventi ed investimenti di sostegno alle famiglie e alle imprese tutelando gli spazi naturali, creando reti ecosistemiche che innervano il territorio e la città e bloccando il consumo di territorio, abbandonando la cultura della deroga che non solo non da risposte alle domande di casa, lavoro e mobilità, ma serve solo (e spesso anche attraverso piani che hanno la mera funzione di condoni) a legittimare piccole e gradi speculazioni per nuove aree residenziali e produttive.