Negli anni Cinquanta e Sessanta c’è stata una migrazione dal sud al nord Italia che accompagnava un forte sviluppo economico e industriale del paese. Proprio le politiche abitative nazionali di grande respiro di quegli anni hanno creato il nostro patrimonio abitativo sociale, gestito oggi da Comuni e Regioni. Solo nella mia città, Bologna, interi quartieri nacquero con l’immigrazione e la costruzione delle “case popolari”: la Barca e il Pilastro, fortemente caratterizzati alle radici da questo battesimo. Gli immigrati di allora furono aiutati a costruire una vita e mettere radici dalla sicurezza del lavoro e della casa.
Da ormai più di un decennio assistiamo a un’imponente migrazione dal sud del mondo, ma questi immigrati arrivano in un paese gravato da una situazione economica pesantemente recessiva.
Alla mancanza di lavoro stabile, alla scarsità di reti sociali cui chiedere aiuto, si aggiunge l’inadeguatezza del patrimonio abitativo sociale: ciò vuol dire, in pratica, assenza di futuro (la stessa che pesa su un’intera generazione) e di qualsiasi prospettiva di crescita.
Questa moltitudine aggiunge la sua domanda di casa-lavoro-futuro a quella dell’altra moltitudine: gli espulsi dal mondo produttivo, gli impoveriti che si sommano ogni giorno all’elenco delle vittime di questa crisi, i marginali per così dire “nativi”.
Intanto da anni non si vedono politiche abitative nazionali degne di questo nome, né un programma di nuove costruzioni/acquisizioni, né una stagione di recupero e riqualificazione anzi proprio l’opposto: la cedolare secca sugli affitti impoverisce l’offerta di canoni concordati, l’azzeramento del fondo per l’affitto nazionale ci ha tolto uno strumento fondamentale; il Piano città è un’opportunità ma non è sufficiente.
E sì che di riqualificazione c’è un disperato bisogno, giacché dagli anni “eroici”, che ci hanno regalato la quasi totalità del patrimonio nazionale di edilizia sociale, è passato un cinquantennio. E si sente tutto, abbiamo un patrimonio abitativo vecchio, di cui è indispensabile arrestare subito la lenta rovina: solo a Bologna stimiamo in circa 80 milioni di euro il fabbisogno necessario, innanzitutto per la riqualificazione energetica. Questo ci porta ad un paradosso: l’onere più pesante per gli inquilini dell’Erp attualmente è la bolletta energetica, ben più alta del costo dell’affitto.
Sarebbe interessante calcolare l’intero fabbisogno per la riqualificazione del patrimonio abitativo pubblico italiano; di sicuro si tratta di una cifra enorme, che è impossibile pensare venga dai già stremati bilanci locali. Già, perché intanto le Amministrazioni locali si barcamenano tra i tagli ai bilanci, i mancati trasferimenti, il salasso dell’Imu sulle case dell’Erp.
L’Anci su questo ha dato battaglia e riportato una parziale vittoria: laddove (Emilia Romagna e Toscana) il patrimonio edilizio è in capo ai Comuni e non alle Aziende speciali non si pagherà l’Imu. Questo a mio parere indica una strada, che avrebbe anche molti altri pregi.
En passant: vale la pena riflettere anche su come un vasto programma di riqualificazione porterebbe con sé una forte spinta propulsiva per interi settori dell’economia del paese, creando quel lavoro di cui c’è oggi assoluta necessità.
Che fare, allora? Prendere atto dell’esistente e in base ad esso reinventare le politiche abitative, partendo da tre parole d’ordine: differenziazione, equità e immaginazione.
L’Urbanpromo di Torino mi ha dato occasione (“Nuovi scenari per l’edilizia a canone sociale”) di un confronto con i miei colleghi di città importanti – Torino, Milano, Venezia: è stato per me istruttivo e incoraggiante vedere come tutti autonomamente stessimo lavorando nella stessa direzione, su quelle stesse parole d’ordine. Sono sicuro che da questa sintonia, se messa a sistema e coltivata, possa sortire una moltiplicazione di risorse e progetti.
Differenziare: non possiamo ragionare più solo in termini di Erp e mercato, ma di opportunità abitative diversificate, una “filiera dell’abitare” che vada dagli alloggi di transizione (a permanenza breve, soluzione-tampone per l’immediato) fino all’edilizia residenziale sociale, il social housing, passando attraverso l’Erp.
Qui va fatta la rivoluzione culturale più grande: l’alloggio Erp è percepito nel nostro Paese – anzitutto dall’assegnatario – come “per tutta la vita”, anzi spesso come qualcosa che resti di diritto ai propri figli. Questo è uno stravolgimento della natura stessa dell’edilizia popolare: costruita e mantenuta con risorse della collettività, è lo strumento per rispondere a un diritto collettivo, quello alla casa, e non diventa – con l’assegnazione – un diritto personale; se e quando chi la abita migliora la propria condizione di reddito, è giusto che l’alloggio venga assegnato a chi è ancora in condizione di bisogno. Si tratterà poi di “accompagnarlo” in un percorso adeguato ai suoi nuovi bisogni e possibilità e qui entra in scena il social housing, come dicevamo, una filiera dell’abitare non solo giusta ma necessaria. Altrimenti tra breve i Comuni non riusciranno più a dare risposte al nuovo bisogno, che cresce a velocità vertiginosa, mentre il patrimonio abitativo pubblico nei fatti diventa un privilegio di chi ci è entrato, magari in tempi più fortunati, quando furono stabiliti i criteri di reddito per l’accesso e il mantenimento dell’alloggio pubblico, adesso non più adeguati.
Mi spiego con un esempio: con un Ise entro i 50mila euro circa si ha diritto a restare nell’alloggio Erp, mentre in lista d’attesa (solo a Bologna oltre 10mila famiglie) molti hanno redditi Ise inferiori a 10mila euro. Così siamo arrivati al secondo concetto-chiave, quello di equità.
La terza parola chiave, l’immaginazione, che è ahimè l’unica risorsa gratuita che resta agli Enti Locali per rispondere alla sfida del presente, essa merita un articolo a sé (co-housing, alberghi popolari, etc) e perciò mi fermo qui.