Commemorazione del Prof. Ing. Mario Ghio al Consiglio Direttivo Nazionale dell’Istituto Nazionale di Urbanistica
Roma 25 novembre 2011
Mario Ghio vale la pena di ricordarlo nei suoi scatti di ira. Perché serve a connotare il personaggio come uno degli ultimi di una generazione irripetibile, fatta di “caratteri”. Caratteri forti, unici, generosi e battaglieri, lavoratori instancabili ed irriducibili. Come altrimenti spiegare un “curriculum vitae” che sembra essere stato praticato da molte persone, e non da una sola? Mario ha dato tutto sé stesso in qualunque cosa facesse, per questo è riuscito a moltiplicare una attività straordinaria, che va dal grande disegno di territorio alla cellula abitativa portata alla scala dell’1:20, come usavano fare tutti i grandi protagonisti della sua generazione (che in realtà appartengono per lo più ai primi anni del ’900, mentre Mario era del 1920).
La prima grande esperienza di lunga durata in cui usava lavorare a tutte le scale, è la fertile stagione dell’INA-CASA. È l’esperienza feconda, piena di ottimismo e di speranze, della ricostruzione del primo dopoguerra. Mario pone un impegno enorme nel disegnare quartieri-modello, ma, a differenza dei tanti altri colleghi architetti, oltre alle capacità inventive porrà a disposizione la sua competenza di ingegnere-costruttore. La passione per l’urbanistica nasce da questa esperienza, e trova campo nei primi piani regolatori (Schio, Mercato San Severino 1959-61) e, più tardi (1971-73) nel Piano di Area Vasta della Provincia di Siracusa.
Mario non ha mai amato la deriva dell’urbanistica “burocratica”, anche se, assai a torto, può essere confusa, e connessa a tale deriva la sua ricerca sugli standard, intesa come mera applicazione di indici e tabelle. Mentre fu una liberazione dagli schemi dello “zoning” applicato pedissequamente. Fino al decreto del 1968 si costruiva senza verde, senza parcheggi (!), senza servizi.
Mario trova in questo tema degli standard la sua strada di innovatore, e si muove fra i grandi della disciplina (Piccinato, Astengo, Samonà) in modo autonomo. Il decreto sugli standard è un risultato caparbiamente ottenuto, essendo maturati i frutti di una sua precedente permanenza al MIT (fine degli anni ’50), in cui si può ritrovare il germe del suo grande tema degli spazi aperti, del verde e del paesaggio, che è il germe degli standard.
Mario aveva un vantaggio sui suoi colleghi: il rapporto con il mondo anglosassone, che era l’unico a praticare fra quelli della sua generazione. Dalla sua permanenza negli USA (1954-55), dove lavora con Kevin Lynch, in avanti, con i lavori fatti in Iraq, Arabia Saudita, Etiopia, Marocco, operando con la Collaborative Architects di W. Gropius, e con l’organizzazione del Convegno Internazionale a Pistoia nel 1982, egli coltiva relazioni a tutti i livelli mantenendosi costantemente aggiornato su ciò che si realizza nel mondo e questo spiega il suo punto di vista costantemente distaccato dal dibattito estremamente politicizzato dell’urbanistica italiana.
Chi ha conosciuto Mario sa bene che si trattava di un vulcano in eruzione: un suo straordinario pregio, ed al tempo stesso un suo limite.
Pregio perché il suo entrare in ogni cosa, si trattasse di musica, di architettura, di filosofia, di arti figurative, di città e di paesaggio ecc., era nel contempo il frutto della sua profonda cultura e della sua straordinaria curiosità/apertura verso il mondo e verso le idee. Le idee sue e quelle degli altri, per le quali ultime dimostrava un’attenzione straordinariamente generosa.
Limite perché era un gran sperperatore del suo incessante patrimonio di idee. Concepitane una, veniva subito superata da un’altra, venendosi così a combinare insieme la sua fertilità ed il suo continuo spirito autocritico, alimentato da un rigore più esercitato verso sé stesso che verso gli altri.
Mario aveva un altro vantaggio sui suoi quasi coetanei: poteva contare sulla solidale, forte, piena e solidissima unione con Vittoria, che si intuiva solo al vederli insieme, ma i cui frutti sono opere che hanno lasciato segni, come il piano per il Parco Nazionale degli Abruzzi (anni ’70) o il volume Verde per la città (1961), che aprì una nuova stagione di studi e di interessi nel corpo della disciplina. Un testo, quest’ultimo, anch’esso irripetibile per il sondaggio delle fonti e per l’architettura insolita, fatto di precisi riferimenti e di altrettanto precise proposte, nato da un suggerimento di Adalberto Libera al Coni.
Il contributo di Mario alla disciplina è fatto di militanza, nella attività professionale e nella attività didattica. L’insieme dell’una e dell’altra (Mario è stato sempre professore a tempo determinato anche se operò esclusivamente per enti pubblici) hanno connotato la sua vita perché credeva del tutto necessaria, come tutti i nostri padri, l’unità fra l’operare nella professione e l’insegnamento.
Militanza nell’INU, di cui fu animatore instancabile senza mai rivestire cariche non ambite, se non la presidenza dell’INU laziale tenuta non più di tre anni. Ne viene fuori una personalità le cui contraddizioni hanno connotato il suo fascino: Mario nel lavoro coltivava la razionalità con grande rigore, ma la spinta del fare era quella di un idealista.
All’inizio ho richiamato alla memoria il Mario nei suoi scatti d’ira. Montava, questa ira, da una profondissima carica etica, inestinguibile e persino dolorosa: richiamarla oggi vuol dire quanto necessario sia il suo esempio per noi e per le giovani generazioni. Una testimonianza necessaria, si ripete, in tempi oscuri per l’etica, fondamento irrinunciabile dell’urbanistica.