La pandemia ha modificato la vita urbana, limitandola fortemente, ma anche prospettando nuove forme di socialità e aggregazione. Nell’emergenza l’urbanistica non ha avuto un ruolo. Le ragioni vanno cercate in alcuni passaggi mancati del suo recente passato. Ed ora come può contribuire a costruire il nostro futuro?
Essendo i primi in Europa ad essere colpiti dal virus, e quindi costretti ad adottare misure per contrastare il contagio, abbiamo seguito il percorso cinese, con i limiti derivanti dal diverso ordinamento e incertezze dovute alla frammentazione di competenze. Soprattutto è mancata l’attuazione di un piano pandemico, rimasto nei cassetti: una preventiva, programmata, strategia di contrasto, la cui assenza ha causato una sovraesposizione del sistema di cura e di quello ospedaliero in particolare. Si è reso evidente che il ritardato riconoscimento di un pericolo può portare ad un aumento di esposizione al rischio e di danni alle componenti più vulnerabili della società.
Per correre ai ripari è stata, di fatto, delegata la gestione delle città ad esperti in possesso di conoscenze medico sanitarie indispensabili, sperimentando una forma di epistocrazia, di potere delle competenze, che ha medicalizzato e cambiato la vita urbana, “espropriandola” degli spazi pubblici. Esperti che erano però poco consapevoli delle complessità dei sistemi insediativi e che hanno messo in quarantena anche l’urbanistica, comprimendo sino ai limiti aspetti funzionali e diritti fondamentali del vivere urbano.
Per quanto ciò sia stato, forse, inevitabile (l’epistocrazia, dice però Sabino Cassese, può operare come correzione della democrazia, come un suo limite, non al posto della democrazia) si è creata una temporanea verticalizzazione del potere che richiama il Panopticon, la prigione ideale di Bentham dalla cui torre centrale il potere può osservare tutte le celle, isolate tra loro come lo sono i cittadini sospesi nel lock down. Secondo Foucault il Panopticon non è soltanto il progetto di un edificio, ma l’icona della tecnologia specifica del potere negli ultimi secoli in tutte le sue forme, caserme, scuole, ospedali, opifici: la disciplina [1].
Ad aver impedito una completa regressione, salvaguardando frammenti più o meno ampi di vita sociale, è stata internet, l’informazione orizzontale e trasversale che si è rivelata uno dei cambiamenti più potenti che la pandemia ha accelerato. Si sono sperimentate su vasta scala forme di aggregazione on line, decentrate e diverse dalla gerarchia panottica ancora resistente nel nostro Paese, capaci in prospettiva di modernizzare non solo le modalità di lavoro ma anche quelle della partecipazione civile.
La pandemia è un fenomeno ricorrente, un correlato della civiltà umana sin dai tempi della domesticazione. Quando si sviluppano, i nuovi patogeni si diffondono a partire dalle agglomerazioni in cui si concentrano i flussi di scambio, alla velocità dei mezzi di trasporto: nella peste del ‘300 furono le navi, oggi sono stati gli aerei. Seguono una geografia differenziata ben rappresentata dalla mappa diacronica di diffusione. E’ lecito pensare che dopo il coronavirus aggiorneremo i piani pandemici per potere in futuro contenere la diffusione e gli effetti delle epidemie. Ma essi rimangono piani sanitari “tradizionali”, ripartiti a cascata secondo confini amministrativi del tutto estranei alle logiche dei patogeni, mentre manca un’analisi territoriale articolata e pluridisciplinare che per analogia con altri piani (alluvioni ad esempio) sostanzialmente tracci in senso inverso il percorso della fonte di pericolo, individui cluster di possibile esposizione e intervento - trasversali a perimetri e confini e che tecniche dinamiche di gestione dati possono aggiornare in tempo quasi reale.
Se ciò non è accaduto è perché i rischi - che la conoscenza trasla sempre più da ipotetici a misurabili, attrezzandoci quindi, pur con intrinseche aleatorietà, a limitarne gli effetti - sono rimasti a lato della pianificazione e dell’attenzione politica, che ne hanno lasciato la gestione a competenze e leggi settoriali, non accorgendosi della dissimmetria che si allargava tra procedure e tempi propri e quelli di risposta efficace.
Eppure già nel 1986 Ulrick Beck definiva la società postindustriale “del rischio”, come caratteristica fondante del patto sociale, accanto o in sostituzione del modello precedente basato sullo sviluppo per espandere e distribuire ricchezza.
Avvertiva che i rischi odierni, tra cui quelli ambientali, sono perlopiù invisibili se non ad occhi esperti, producendo quindi una loro scientifizzazione e una differenza tra l’interpretazione probabilistica, scientifica, e quella soggettiva, manipolabile o strumentalizzabile dall’informazione e suscettibile di interpretazioni dominate da paure ancestrali. In tutto questo l’urbanistica, certamente non da sola, ha tra i suoi potenziali una funzione di svelamento e di mediazione tra competenze, popolazione e sue rappresentanze; tra presente e futuro, anche in relazione a principi di democrazia e consenso, dato che solo una cittadinanza consapevole può assumere decisioni appropriate, instaurare legami collettivi, sostenere una partecipazione che non sia solo di avallo di accordi tra poteri. E perché ciò avvenga servono riferimenti autorevoli.
La maggiore frequenza e velocità di diffusione delle pandemie è un sintomo, balzato all’evidenza, della fragilità della nostra traiettoria ecosistemica nel rapporto mutante tra nicchia di specie e ambiente terrestre.
Una fragilità già emersa ben prima della pandemia col riconoscimento di rischi di scala globale potenzialmente irreversibili - a partire dal binomio energia clima ma non solo – che hanno delineato obiettivi e finestre temporali limite per conseguirli, nuovi ordini di misura e nuove direzioni strategiche di forte impatto sui sistemi insediativi (emissioni, informatizzazione, flussi metabolici, biodiversità, etc.). Con ulteriori difficoltà quando gli orizzonti si proiettano nei tempi lunghi, anche oltre le nostre vite. Su tutto ciò la pandemia ha però gettato nuova luce e generato una diversa e più estesa comprensione.
Le crisi accelerano fenomeni in atto, producono mutazioni, non sono indolori: c’è chi sale e chi scende. Non hanno un ritorno rapido allo status quo ante, raramente un andamento a V come vorrebbero gli economisti. La pandemia avrà impatti sia transitori che definitivi sulla città, sui trasporti, sulle attività e le modalità di lavoro, sulle relazioni sociali, sul rilievo degli spazi collettivi, sulla pianificazione dell’urbano.
Ma la città ha anche una storia profonda, una traiettoria mossa da forze operanti prima e dopo la pandemia. Segue leggi biologiche e fisiche, è una complessa forma evolutiva ed entropica a noi favorevole. L’idea che cambi radicalmente solo per la nostra esperienza odierna è una proiezione fallace. Dobbiamo resistere alla tentazione di cercare nella crisi conferma di tutte le nostre precedenti, pur lodevoli, iniziative e aspirazioni. D’altra parte però la pandemia ha rivelato che cambiare è possibile, che la città si riorganizza persino in condizioni estreme, che i principi solidali sono anch’essi fondanti del patto sociale, che le trasformazioni digitali sono ed entreranno ancor più in gioco.
La domanda su cosa cambierà dopo la pandemia si tramuta allora in se e come sapremo riconoscere e governare la svolta critica che investe la città, a cui l’emergenza ci ha richiamato, ma che è ben più ampia, e tracciare in positivo una visione di convivenza ecosistemica equilibrata, non autodistruttiva e capace di innovazione.
Per essere vissuta come una transizione e per il suo carattere globale, la pandemia è l’occasione, e forse l’ultima chiamata, per mettere queste problematiche in capo alle agende. E’ una scelta escludente, binaria, sì o no, ma è un bit che pesa, a valle del quale si articolano scenari complessi. Nell’un caso al governo di città e territori è chiesto di modificare i comportamenti che incidono sui consumi di risorse, sui bilanci di energia e informazione, sulla biosfera e sulla atmosfera. Finalità che, riconoscendole fondanti, pongono l’urbanistica su un terreno sperimentale, anche inesplorato, che impegna a una gestione plurale delle innovazioni, affiancando al principio normativo quello della responsabilità.
Nell’altro caso queste scelte sono demandate ad altri livelli: una “tentazione disciplinare” che restringe l’ambito di competenza dell’urbanistica e si affida alla sapienza di altre “mani” più o meno “invisibili”, dell’economia, del legislatore, della tecnologia, della natura stessa.
Tra le due posizioni possono realisticamente stabilirsi diversi livelli di mediazione e di efficacia, che tuttavia non eludono i termini della questione e implicano comunque un aggiornamento dell’attuale assetto del governo del territorio e del modo di funzionare degli apparati che lo concretizzano. Nodi su cui il cantiere dell’urbanistica è aperto e sollecitato a formulare risposte, per volgere la crisi in progetto e indirizzare il futuro a nostro vantaggio.
[1] Dice Foucault: L’individuo è anche “una realtà fabbricata da quella tecnologia specifica del potere che si chiama disciplina. Bisogna smettere di descrivere sempre gli effetti del potere in termini negativi: esclude, reprime, respinge, astrae, maschera, nasconde, censura. In effetti il potere produce: produce il reale; produce campi di oggetti e rituali di verità. L’individuo e la conoscenza che possiamo assumerne derivano da questa produzione”. Sorvegliare e punire, 1975