Urbanistica INFORMAZIONI

Città come motore dello sviluppo del Paese

INU - XXVIII CONGRESSO - Salerno 24/26 0ttobre 2013

Pensare alle città come motore dello sviluppo del Paese significa pensare innanzitutto ancora in termini di sviluppo (o di crescita), seppure riferendosi a un diverso modello di sviluppo e ad una diversa crescita rispetto al passato: sono ancora troppi i bisogni non soddisfatti, di lavoro, abitazione mobilità e servizi, per pensare ad una prospettiva diversa, influenzata dalle trasformazioni dell’economia e della società che questi lunghi anni di crisi sembrano voler stabilizzare. Significa far riemergere dalle città la capacità di produzione di ricchezza, pubblica e privata, che esse posseggono, che oggi appare sopita e che può tuttavia essere liberata da un cambiamento radicale del modo di considerare le città e dei conseguenti strumenti d’intervento, mettendo in discussione gran parte delle certezze e dei paradigmi che abbiamo costruito nel passato, anche in quello più recente, sia analitici che progettuali. Ciò significa fare della rigenerazione urbana il punto centrale intorno al quale ridefinire la nuova strumentazione di intervento sulla quale fondare, sia nel medio che nel lungo periodo, un nuovo intervento pubblico e di programmazione delle risorse.
Passare da una prospettiva di trasformazione e riqualificazione ad una di rigenerazione urbana significa, infatti, mettere in gioco da un lato molte più componenti della città e del suo territorio che non i soli circoscritti ambiti oggetto della prima, mentre, d’altro lato, significa considerare tutte le risorse che riguardano l’economia delle città, per rispondere attraverso il loro contributo alle domande di miglioramento della condizione abitativa e dei servizi relativi, di dotazione di spazio pubblico per le parti che ne sono prive e qualificazione e fruizione per quello esistente, di sviluppo dell’economia e dell’occupazione per le popolazioni urbane in crescita. Un approccio finalizzato a liberare innanzitutto le risorse presenti nelle città, che si affida quindi alle potenzialità endogene, sostenute anche da una sostanziale revisione della fiscalità locale, ma che non potrà prescindere da un intervento dello Stato e delle Regioni con uno specifico impegno “esogeno” nelle “politiche per le città”, finalizzato a promuovere e finanziare gli interventi che non possono essere sostenuti dalle Amministrazioni Locali, come quelli relativi alla mobilità, al trasporto pubblico e alle infrastrutture energetiche. Un impegno del quale c’è stata un primo segnale ed una prima parziale anticipazione nel 2012 con il “Piano città”, la cui definizione programmatica è stata consolidata con la costituzione del Comitato Interministeriale per le Politiche Urbane (CIPU) all’inizio di quest’anno; iniziative che devono essere riprese e adeguatamente sviluppate partendo da una Agenda Urbana Nazionale che permetta non solo alle amministrazioni cittadine di essere direttamente coinvolte nell’elaborazione delle strategie di sviluppo legate alla politica di coesione 2014-2020, quanto di sviluppare azioni integrate per lo sviluppo urbano sostenibile legate alle città.
Se nei prossimi anni le strategie urbanistiche per le città dovranno mutare anche in modo sostanziale, come suggerito in queste note, non deve dunque essere attenuata la rivendicazione di una nuova politica per le città a carico del Governo del Paese; una politica che in futuro possa utilizzare tutte le risorse necessarie una volta portata a termine l’operazione di risanamento dei conti pubblici e avviata la riduzione del debito pubblico, ma che già nell’attuale situazione di ricerca di stabilità, possa garantire il necessario sostegno ad uno scenario di sviluppo al quale concorreranno in modo determinante anche le risorse proprie delle città, che comunque si dovrà configurare in termini del tutto diversi rispetto al passato. Solo così, mettendo in campo le proprie energie, politiche e progetti e con il sostegno di una politica nazionale, le città potranno esprimere quella capacità competitiva e di coesione che alla base della loro vitalità e che dovrà essere giocata sulla valorizzazione e liberazione in primo luogo delle proprie risorse specifiche.

I grandi cambiamenti della città
Questi primi anni del secolo si caratterizzano innanzitutto per i grandi cambiamenti che riguardano la città, il suo territorio e la società che la popola. Circoscrivendo il campo alla città europea e a quella italiana in particolare, da almeno vent’anni registriamo un primo cambiamento, sempre più evidente, relativo ai sistemi insediativi urbani, con l’esplosione della città sul territorio e la formazione di una nuova città, metropolizzata o post-metropolitana lontanissima dal processo di espansione più o meno regolare e continuo nella sua produzione di periferie metropolitane, che ha caratterizzato la città industriale prima e quella moderna poi e che l’urbanistica ha cercato di governare attraverso modalità regolative in un’ottica generale di razionale zonizzazione. La città contemporanea, dove anche in Italia vive la maggioranza della popolazione (circa i 2/3), è una città ormai in buona parte porosa e discontinua, costituita da sistemi costruiti, semi costruiti e aperti, con una grande offerta di aree che nel passato avremmo giudicato potenzialmente trasformabili (aree dismesse, sottoutilizzate, abbandonate, vuoti urbani di varia natura), che insieme formano un offerta di gran lunga superiore a qualsiasi ragionevole domanda immobiliare, non solo pubblica ma soprattutto privata; un aspetto quest’ultimo, che pone anche il problema dei possibili usi temporanei con funzione anche di presidio e sicurezza contro il degrado urbano.
La città contemporanea è caratterizzata da un grave stato di insostenibilità per la continua erosione di risorse ambientali richiesto dal suo metabolismo per gli effetti inquinanti e congestivi determinato da un modello di mobilità ancora troppo dipendente dalla motorizzazione privata e per l’enorme spreco energetico dovuto alle condizione di gran parte del suo patrimonio immobiliare e alle modalità di uso del suolo indifferenti a tale problematica. Una città che va quindi affrontata per quello che è, sapendo che non sarà possibile trasformarla come immaginato dal precedente modello insediativo, con un insieme continuo di spazi urbani costruiti e aperti, contrapposti agli spazi del territorio extraurbano, che non potrà essere oggetto d’interventi di densificazione capaci di occupare tutte le porosità e le discontinuità che la caratterizzano, che dovrà essere trattata per la situazione complessa e più molecolare che la contraddistingue, fatta di spazi urbani con diverse densità e modalità di uso del suolo, di spazi seminaturali e naturali, dove possono essere anche compresenti le principali funzioni insediative urbane con quelle rurali.
Un secondo cambiamento, più recente e reso più evidente dagli effetti della crisi ancora aperta, riguarda l’economia della città, con una caduta verticale del settore immobiliare dovuta all’impoverimento della popolazione ed alla crisi occupazionale, al restringimento del credito, ma anche alla sovraproduzione degli ultimi decenni, che ha determinato un patrimonio edilizio tanto consistente, quanto incapace di soddisfare una forte domanda abitativa ancora presente; mentre si è ridotta anche la capacità produttiva delle città, in parte per la generale riduzione dell’occupazione (la crisi ha fino ad ora provocato la perdita di 1,3 milioni di posti di lavoro e la diminuzione del 9% della ricchezza delle famiglie e tre di valori negativi del Pil), che essendo relativa in buona parte al settore edilizio e a quello delle infrastrutture riguarda in modo specifico quella urbana. La più evidente mutazione nell’economia delle città riguarda però la già ricordata crescente distanza tra la grande offerta di aree potenzialmente trasformabili e la richiesta del mercato immobiliare; una distanza che anche la fine della crisi, quando ci sarà, non colmerà e che è destinata a modificare gli stessi processi di formazione e accumulazione della rendita fondiaria urbana ed anche il suo valore economico complessivo.
Più in generale, si è ristretta la capacità competitiva delle città, non solo per gli effetti della crisi, ma anche per il modello di governo e decisionale fin qui utilizzato, ormai obsoleto e non più corrispondente alle sue nuove dimensioni, che non consente di compiere scelte adeguate e tempestive, attingendo a tutte le risorse potenzialmente disponibili.
Le città inoltre, come tutte le amministrazioni locali, soffrono la radicale riduzione della spesa pubblica determinata dai tagli operati in sede centrale, non compensata da una razionale ed efficiente fiscalità locale, che ne mette pesantemente in dubbio la capacità di mantenere i servizi erogati alla popolazione e di provvedere alla manutenzione delle sue infrastrutture ed ad incrementare il “capitale fisso urbano” come sarebbe necessario. Le stesse ipotesi, in corso di definizione, di modifica del gettito fiscale più consistente, l’IMU, rendono le prospettive delle città ancora più incerte e problematiche e dovrebbero indurre a non modificare il saldo complessivo dell’importo definito dall’ultima manovra finanziaria.
Il terzo grande cambiamento che riguarda la città è quello ambientale. Si è già fatto riferimento all’insostenibilità di una continua erosione delle risorse ambientali fondamentali, anche di quelle non riproducibili come il suolo, che l’attuale modello territoriale sollecita e come ciò debba indurre a perseguire un modello insediativo che comporti una drastica riduzione del consumo di suolo e la rinaturalizzazione delle molte aree libere interne alla città, la cui trasformazione non appare più plausibile a fronte dei possibili trend di sviluppo attesi. L’eccessivo consumo di suolo agricolo e naturale non riguarda solo il paesaggio, ma problematiche ecologiche profonde, legate alla progressiva impermeabilizzazione dei suoli urbani e alla riduzione della copertura vegetale e quindi della capacità di rigenerazione naturale delle risorse ambientali fondamentali aria e acqua; ma è anche causa non secondaria dei cambiamenti climatici in corso e quindi del conseguente frequente susseguirsi di eventi meteorologici estremi che espongono a rischi sempre più gravi le aree urbanizzate, rese fragili da scelte urbanistiche sbagliate, soprattutto quelle relative al sistema idrogeologico superficiale. In questa prospettiva rientra anche il tema del paesaggio e dei beni culturali, troppe volte considerati settoriali rispetto alla pianificazione ordinaria.

Tema 1. La rigenerazione urbana come resilienza
A fronte dei grandi cambiamenti prima sinteticamente descritti, le politiche per le città, in particolare quelle urbanistiche e ambientali, devono anch’esse cambiare radicalmente, non essendo più validi i paradigmi che avevamo guidato, o cercato di guidare, l’espansione prima e la trasformazione urbana poi. L’approccio dovrà necessariamente partire dalle attuali condizioni insediative, economiche e ambientali della città, assumendo quindi una strategia di adattamento al contesto specifico che comporti per una dimensione complessiva di sostenibilità, cioè di una nuova condizione ecologica fondata sulla ricerca di un equilibrio duraturo tra la disponibilità delle risorse ambientali fondamentali e la domanda di utilizzazione delle stesse che una prospettiva di crescita sostenibile, pur quindi del tutto diversa dal passato, comunque comporta. Non si tratta solo di promuovere nuovi interventi di riqualificazione urbana allargandone il più possibile la diffusione, ma di mettere in discussione ogni parte di città il cui funzionamento comporti un deficit tra risorse disponibili e quelle necessarie per una crescita sostenibile, considerando tra le risorse, oltre a quelle ambientali fondamentali, anche quelle energetiche. Una strategia quindi che, per tali ragioni, possiamo definire di rigenerazione urbana come resilienza.
Dal punto di vista urbanistico questo approccio riguarda:
- l’esclusione o il deciso contenimento di ogni nuovo consumo di suolo che possa svolgere una funzione rilevante di rigenerazione ambientale; non solo quindi suoli periurbani o agricoli, ma anche suoli inedificati interni alla città (le porosità e le discontinuità a cui si è fatto riferimento in precedenza);
- la rinaturalizzazione dei tracciati idrografici superficiali, incanalati artificialmente durante tutto il Novecento (pratica tuttora in corso) e l’aumento della copertura vegetale sugli spazi aperti permeabili, pubblici e privati, urbani e seminaturali presenti all’interno dei tessuti urbani; misure e entrambe necessarie per contribuire alla sicurezza e alla stabilità del territorio;
- la selezione prioritaria delle nuove trasformazioni nelle aree già costruite (aree da trasformare, tessuti da ricostruire), con modalità (indici, parametri) che consentano l’innalzamento del potenziale di rigenerazione ambientale delle stesse aree;
- la rigenerazione delle rilevanti quote di patrimonio edilizio esistente non più in grado di fornire prestazioni ambientali ed energetiche positive (oltre che di garantire condizioni decenti di abitabilità alle popolazioni insediate) mediante interventi di sostituzione e/o di radicale ristrutturazione edilizia;
- la rigenerazione attraverso azioni di integrazione funzionale e di densificazione delle grandi attrezzature specializzate a scala sovralocale, oggetto di scelte di decentramento correttamente immaginate, ma non commisurate alle reali possibilità di sostegno garantire da un lato dal mercato e, dall’altro lato, alle risorse pubbliche effettivamente disponibili;
- la manutenzione, il potenziamento e l’innovazione della dotazione infrastrutturale, a partire da quella già esistente della città, in parte trascurata nel passato per puntare su grandi opere per le quali si sono però resi disponibili solo finanziamenti parziali e comunque non adeguati per garantirne la completa realizzazione; non ci si riferisce solo alle infrastrutture della mobilità, ma in generale a tutte le reti tecnologiche urbane, alcune delle quali possono svolgere un ruolo fondamentale verso la sostenibilità urbana, come la rete fognaria in rapporto al sistema delle acque superficiali e di falda o quella di approvvigionamento idrico in rapporti ai diversi usi non idropotabili dell’acqua; senza dimenticare le reti energetiche e la loro integrazione con le nuove produzioni di energie rinnovabili e le reti per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti.

Tema 2. Quale forma di piano e i nuovi compiti della pianificazione
Il processo di profondo cambiamento che coinvolge la città e il suo territorio, al contrario di quanto potrebbe apparire con un’interpretazione superficiale legata ai parametri dei trend di sviluppo, assegnano all’urbanistica e al suo strumento fondamentale d’intervento, il piano, un ruolo maggiore e più importante che nelle passate fasi di espansione e trasformazione urbana, perché richiedono una maggiore capacità sia d’interpretazione dei fenomeni in corso, sapendo “anticipare il futuro”, sia di ricerca delle soluzioni più adeguate per governare una situazione così difficile, caratterizzata da una generalizzata scarsità di risorse.
L’Inu si è più volte espressa nel recente passato sulla necessità di una semplificazione ed innovazione del nostro sistema di pianificazione ed è una richiesta che continuerà a fare al legislatore nazionale e regionale, insieme con le altre Associazioni che l’hanno condivisa, anche se si tratta, senza dubbio, di un passaggio necessario ma non sufficiente della riforma. Semplificare una materia di per sé complessa non è facile e non può essere ridotto ad uno slogan. Quelle che potrebbero essere semplificate sono le procedure di formazione e approvazione dei piani, che rappresentano, peraltro, gran parte dei contenuti delle più recenti riforme regionali. La semplificazione più rilevante ed efficace che modificherebbe sostanzialmente il nostro sistema di pianificazione è la copianificazione, cioè il coinvolgimento preventivo ed in progress di tutti gli enti e le agenzie che hanno una responsabilità e competenze nel governo del territorio, evitando quindi la sequenza di pareri prevalentemente successivi alla formazione dei piani e poi nella fase attuativa, che complicano e rallentano l’intero processo. Si tratta di una rivendicazione ormai storica dell’Inu che ha trovato un certo spazio nelle riforme regionali, soprattutto con l’introduzione delle conferenze di pianificazione, che se da un lato hanno in parte superato le tradizionali procedure gerarchiche con percorsi più cooperativi e processuali, dall’altro non hanno tuttavia mai svolto un effettiva attività di copianificazione perché non hanno coinvolto, se non a livello volontario, tutti gli enti statali interessati (Sovrintendenze, Autorità di Bacino, ecc.) il cui funzionamento risponde a specifiche leggi istitutive.
Più in generale, l’Inu deve riconsiderare con maggiore spirito critico l’intera esperienza delle leggi regionali riformiste approvate dopo il 1995 e poi dopo il 2001 (post modifica del Titolo V della Costituzione), che siamo abituati a considerare come la “riforma urbanistica”. Una riforma incompiuta perché non tutte le Regioni hanno sviluppato adeguatamente il “modello Inu”, basato essenzialmente su il nuovo piano strutturale programmatico, non conformativo e portatore di una visione strategica, il piano operativo prescrittivo e conformativo, ma di durata limitata, con decadenza dopo cinque anni dei diritti edificatori non utilizzati e, infine il Regolamento Urbanistico, cioè la componente regolativa relativa agli insediamenti esistenti. Alcune Regioni, infatti, hanno utilizzato le nuove denominazioni senza cambiare la sostanza giuridica dei piani, altre hanno confermato la vecchia forma regolativa del Prg, completamente inefficace di fronte alle attuali trasformazioni territoriali. In molto casi si registra un ritorno al passato, con la conferma della vecchia forma regolativa, a volte sotto le mentite spoglie del piano strutturale. Significativo è in questo senso il recente caso della Regione Piemonte , con l’ultima versione della gloriosa “legge Astengo” oggetto di numerose e non sostanziali modifiche ma rinunciataria nel percorrere innovazione e riforma, mentre sono minoritarie le proposte più innovative, come quelle avanzate, ma non ancora approvate, in Friuli Venezia Giulia e nelle Marche. Anche il nuovo modello attuativo proposto dall’Inu, perequazione, compensazione, nuova disciplina dei diritti edificatori, adottato quasi dovunque, non ha però trovato sviluppi pienamente soddisfacenti, per l’assenza di una normativa nazionale in una materia che riguarda competenze esclusive dello Stato, trattate impropriamente dalle leggi regionali e che alcune esperienze hanno evidenziato, in ordine all’eccessivo consumo di suolo delle pratiche perequative – compensative basate su superfici ed edificabilità e non sui valori delle trasformazioni ipotizzate; una soluzione quest’ultima che sembra più adeguata alla situazione attuale.
Emerge quindi un quadro di una riforma incompiuta e di un “federalismo urbanistico” alquanto improbabile (forse ridicolo), con tante denominazioni diverse per la stessa cosa e molte contraddizioni giuridiche che hanno spesso indebolito le leggi regionali di fronte alla giurisprudenza amministrativa. Le Sezioni regionali e l’Inu nel suo complesso dovrebbero, quindi, giudicare questa “riforma incompiuta” per quello che è, con un’attenzione disciplinare adeguata, ma anche con il necessario rigore scientifico, senza benevolenze per l’ispirazione in qualche misura riconducibile alla proposta del 1995. Su tutto spicca l’assenza dello Stato con la legge sui principi fondamentali del governo del territorio, una legge indispensabile per correggere le soluzioni impazzite del mosaico regionale, che l’Inu deve continuare a rivendicare, anche se non può essere l’argomento principale della sua iniziativa. Peraltro, su questo tema si può oggi nutrire qualche speranza in più: recentemente è stata depositata alla Camera la proposta di legge Norme per i contenimento del consumo di suolo e la rigenerazione urbana una proposta per molti aspetti positiva, che, fra l’altro, risolverebbe molti aspetti della citata legge di principi, tranne quelli fondamentali di una vera copianificazione e della nuova forma del piano; stante che tale strumento, il piano, profondamente innovato come dall’Inu più volte indicato, appare insostituibile per governare i cambiamenti in atto della città contemporanea e del suo territorio. Sul tema del contenimento del consumo di suolo la proposta di legge ricordata non è peraltro l’unica: ad essa si aggiungono quella del Governo presentata nell’ambito del “Decreto del fare” e quelle presentate da altri gruppi parlamentari: tutte testimoniano della maturazione di questo tema anche per quanto riguarda l’opinione pubblica e fanno ben sperare in una rapida ed adeguata soluzione legislativa.
Quanto alla forma ed efficacia giuridica del piano, un tema fondamentale che non può essere trattato in modo contrastante nelle diverse Regioni, va abbandonata definitivamente e con grande nettezza la forma regolativa e tutta conformativa della proprietà, per sviluppare quella strutturale con maggior coerenza di quanto non si sia fatto fino ad ora, introducendo un’innovazione che qui si propone, che cambierebbe sostanzialmente la nostra maniera di fare i piani: la rinuncia a qualsiasi “rappresentazione sinottica di un presunto stato finale” per puntare a documenti programmatici che non contengano tutte le trasformazioni possibili, come invece avviene oggi, anche quando non si tratta di situazioni oggettive e di indiscutibile utilità pubblica. Operando, cioè. una selezione preventiva delle tante aree di possibile trasformazione, anche sulla base delle condizioni ricordate nel punto precedente a proposito del rapporto da instaurare tra offerta e domanda effettiva disponibile; rendendo quindi operative solo le trasformazioni mature e condivise dalla società locale.
Costruire un Piano Strutturale significa ridurre all’essenziale le sue previsioni articolate nei tre sistemi fondamentali infrastrutturale, ambientale e insediativo; si tratta di previsioni programmatiche, data la natura giuridica non conformativa della proprietà dello strumento, salvo quelle derivanti da “vincoli ricognitivi” derivanti da normative statali e regionali e da progetti, anche locali, definiti in ogni loro parte, che nelle migliori esperienze regionali, sono state definite come “invarianti”, dato il loro carattere più duraturo e stabile nel tempo e riguardanti intere categorie di beni o territorio. Alla definizione delle “invarianti” contribuisce il sapere tecnico dell’urbanista e degli specialisti che contribuiscono alla formazione dei vari aspetti del piano; un sapere importante, costruito nel tempo, ma troppo spesso vilipeso dalla politica, anche per qualche responsabilità degli stessi urbanisti. “Invarianti” che vanno rivendicate come non negoziabili, dato lo spessore tecnico alla base della loro definizione e la conseguente piena responsabilità nelle scelte di merito che va attribuita agli urbanisti e ai loro consulenti.
Alla forma strutturale dovrà associarsi anche una nuova scala della pianificazione che tenga conto del diffondersi del processo di metropolizzazione, mentre la scala municipale potrà essere praticata solo nei casi particolari, oggi minoritari, dove non si registra la nuova dimensione post – metropolitana della città. Non va anche dimenticato che dal 2014 saranno istituite ed opereranno le dieci Città metropolitane previste dalla legge 135 del 2012 (coincidenti con le attuali Province), mentre proseguirà il percorso di abolizione delle stesse Province. Per le Città metropolitane non sarà evidentemente possibile adottare altra forma di piano che non sia quella strutturale e così dovrà essere anche per tutte le altre coalescenze territoriali prodotte dalla metropolizzazione, riportando la pianificazione strategica e strutturale a livello sovracomunale.
La nuova strategia generale di rigenerazione urbana che si è prima proposta per affrontare le problematiche della città contemporanea comporta anche una revisione non secondaria delle tecniche di pianificazione operativa rispetto a quelle utilizzate in passato. Si tratta di un campo nel quale l’Inu, per la sua storia, la sua composizione sociale, il suo imprinting culturale e disciplinare può meglio di chiunque altro rappresentare un punto di riferimento, anche a livello di formazione. Di seguito si citano alcuni dei più rilevanti aspetti della rigenerazione urbana che comportano un’evoluzione delle tecniche della pianificazione operativa:
- la rigenerazione del patrimonio edilizio esistente sia in un approccio di conservazione, sia di sostituzione; nel primo caso l’ipotesi e quella di migliorare le prestazioni di abitabilità ed energetiche del patrimonio edilizio, mantenendo la popolazione insediata ma, al contempo, adeguando la dimensione degli alloggi alle caratteristiche della stessa;
- la rigenerazione dei brownfields urbani (aree dismesse, abbandonate e interstiziali), un aspetto già praticato ma con interventi prevalentemente e pesantemente condizionati dalla rendita fondiaria e da aspettative molto alte di rendimento immobiliare, con densità e funzioni che non hanno, proprio per questo, determinato effetti positivi anche per i tessuti urbani nei quali sono inseriti; al contrario vanno ricercate quelle soluzioni che oltre ad essere portatrici di effetti di rigenerazione ambientale naturale, garantiscono anche dotazioni e spazio pubblico per la città circostante;
- la rigenerazione dello spazio pubblico, con l’inserimento di funzioni compatibili (commerciali, direzionali, servizi, a parchi e verde ecologico); questo aspetto, già largamente sperimentato, comporta la ricerca dell’equilibrio economico che consente la fattibilità degli interventi;
- l’uso del suolo per il contenimento dello spreco energetico, con soluzioni urbanistiche che rispondono a precise tecniche progettuali (densità, altezze, tipologie insediative, caratteristiche ecologiche, ecc.) determina comportamenti energetici positivi degli stessi insediamenti, riducendo i fabbisogni:
- la riconsiderazione degli standard urbanistici rappresenta una necessità sia per quando riguarda una mobilità urbana sostenibile non dipendente dall’auto, sia per lo sviluppo di adeguate reti ecologiche urbane, collegate a quelle territoriali; nel primo caso si tratta di ridurre le quote obbligatorie di parcheggi in presenza di sistemi di trasporto alternativi all’auto o in aree sottoposte a limitazione del traffico automobilistico; nel secondo caso nell’aggiungere al tradizionale “verde pubblico” tutti quegli spazi aperti, pubblici e privati, che garantiscono continuità alla rete ecologica, considerandoli ad ogni effetto come standard urbanistici; in ogni caso l’aggiornamento del Decreto del 1968, elaborato in un epoca caratterizzata da condizioni urbanistiche e ambientali e soprattutto socio-economiche, del tutto diverse da quelle odierne, rappresenta una necessità oggettiva.
Il nuovo modo di fare urbanistica, infine, deve instaurare fin da subito un percorso di progetto e di conoscenza della città divenendo non solo il luogo in cui attribuire diritti e delineare trasformazioni, ma anche dove far uscire le idee che possono fin da subito guidare le scelte della politica. Vanno insomma riscoperte e reinterpretate le politiche urbane integrate trovando risposte in tempi brevi, del tutto diverse da quelle tradizionali, soprattutto perché attinenti alla nuova condizione urbana che si sta delineando per gli effetti non riassorbibili della crisi.

Tema 3. Le risorse per il governo del territorio, la città pubblica e il welfare urbano
Questo tema è stato al centro del dibattito del precedente XXVII Congresso dell’Inu di Livorno: tuttavia, nonostante si trattasse di temi e argomenti di notevole interesse, ad oggi non si sono registrati progressi né teorici nella nostra elaborazione o in quella di altri, né nelle pratiche di pianificazione, peraltro sempre più ridotte e condizionate dalla crisi, che si sono sviluppate da allora. Ciò è stato anche condizionato, a livello di Governo e legislazione del Paese, da una azione tutta mirata al prelievo di risorse ed ad una contemporanea sottrazione lineare di esse dalle città, viste come oggetti di facile spending rewiew invece che come potenziali laboratori della crescita.
Comunque, anche a causa dello scenario che la crisi ha determinato in questi ultimi anni con una ulteriore riduzione delle risorse necessarie, appare sempre più chiaro come in futuro ogni piano dovrà misurarsi con la presenza o meno di risorse disponibili e attivabili, evitando (o rinviando) ogni previsione la cui attuazione non sia garantita da un quadro certo delle risorse reali. E questo dovrà essere anche lo “stile” delle future azioni urbanistiche, all’insegna della sobrietà e, se si vuole, di una nuova austerità, che garantisca concretezza e condivisione alle scelte dei piani.
Tra le risorse economiche possibili sulle quali puntare va sempre considerata la rendita fondiaria, una “ricchezza” prodotta dalla città e dal territorio fino ad oggi quasi esclusivamente privatizzata. Sull’ipotesi, avanzata nel XXVII Congresso Inu ma non approfondita successivamente, di una ridistribuzione sociale della rendita concordano ormai varie forze, dagli imprenditori ai Sindacati, dall’Ance, agli Ordini professionali interessati. Colpire la rendita in quanto fattore non produttivo, d’altronde, è sempre stato un principio dell’economia liberale, anche se in Italia lo stesso è stato pesantemente disatteso dalla proposta di “riforma urbanistica Sullo” in poi e solo parzialmente ripreso nel 1977 dalla “legge Bucalossi”, attraverso l’onerosità della concessione edilizia. Così non avviene, invece, in altri Paesi europei che si rifanno esplicitamente all’economia liberale, come, per esempio, nel caso della Confederazione Elvetica che ha recentemente approvato (e confermato con un referendum popolare) una legge federale che consente ad ogni Cantone di tassare con un’imposta dal 30 al 50%, il plusvalore immobiliare causato da una formale sanzione di edificabilità (una decisione di piano) che “aumenta notevolmente …. senza che il proprietario abbia fatto alcuno sforzo” (così recita la relazione della legge). I proventi di tale tassazione sono destinati ad un fondo comunale, per essere utilizzati per compensare i proprietari di aree per le quali una nuova scelta di piano cancella un’edificabilità assegnata in precedenza (“dezonazione”), ovvero per realizzare spazi pubblici come piazze parchi. Si tratta di una scelta sostenuta da una logica stringente e chiara, che l’Inu valuta come un esempio da approfondire, pur considerando le differenze nelle legislazioni fondiarie e di pianificazione in atto nei due Paese, oltre che il diverso peso della rendita (il “plusvalore immobiliare”) negli stessi (per questo, la legge svizzera nella sua versione definitiva è pubblicata sul sito web dell’Inu).
Se una legge di questo tipo andrebbe, infatti, proposta anche in Italia per recuperare la principale risorsa potenziale per finanziare la “città pubblica” (lo spazio pubblico, le opere pubbliche locali e l’edilizia sociale) non possono essere sottovalutate le differenza di accumulazione della rendita nelle nostre città e i conseguenti diversi margini economici consentiti dall’ipotizzata ridistribuzione. Inoltre, la crisi, insieme all’enorme dimensione del patrimonio edilizio e la diffusione della proprietà della casa, hanno profondamente modificato il mercato immobiliare italiano, al punto che molti esperti ritengono sia impossibile ritornare, anche in un tempo lungo, ai valori immobiliari precedenti e, comunque, ad un mercato ricco e dinamico come quello che si è sviluppato per dieci anni fino all’inizio della crisi stessa. Un mercato che ha consentito la sperimentazione di parziali forme di ridistribuzione sociale della rendita, attraverso la realizzazione di opere pubbliche (“standard qualitativi”) o l’imposizione di “contributi straordinari”. Comunque, per consentire di reperire nuove risorse per la “città pubblica” sembra necessario proseguire in questa direzione, evidenziando in modo sempre più chiaro la fattibilità di una soluzione di redistribuzione della rendita urbana attraverso una nuova fiscalità.
Come dovrà essere sanzionata per legge la possibilità di recuperare quote di rendita significativa, anche attraverso la realizzazione di opere pubbliche, fino ad oggi sperimentata da qualche piano urbanistico e avallata da alcune leggi regionali. Una misura che comunque dovrebbe essere applicata nelle situazioni di maggiore forza e ricchezza del mercato immobiliare, senza contraddire la più generale imposizione fiscale sulla rendita.
Si è già sottolineato il contributo positivo che nuove forme di fiscalità possono garantire per affrontare politiche impegnative che la pianificazione da sola non può risolvere, come il contenimento del consumo di suolo o la rigenerazione urbana, una strategia che richiede risorse aggiuntive rispetto alle normali pratiche d’intervento.
In generale il tema della fiscalità e in particolare di quella locale deve entrare con maggiore organicità nell’attuazione urbanistica e nel reperimento delle necessarie risorse per la “città pubblica”, mentre non tutte le necessità del governo del territorio e quindi non tutte le previsioni di piano possono rientrare in tale dimensione. Il finanziamento delle grandi infrastrutture, della sicurezza idrogeologica del territorio e di quella sismica, tutti temi che hanno una parte fondamentale nella pianificazione strutturale non possono, infatti essere caricati sulla fiscalità locale, ma appartengono agli impegni generali dello Stato e devono essere finanziati direttamente dal suo bilancio. Peraltro, una oculata utilizzazione delle risorse pubbliche consiglierebbe di muoversi in questa direzione (come anche suggerito da alcune norme impostate nel 2012 dal precedente “Governo tecnico”), dato l’alto costo annualmente pagato per riparazioni non risolutive al nostro territorio e al nostro patrimonio edilizio.

Un discorso a parte merita quello dell’Edilizia Residenziale Sociale, che l’Inu ha considerato negli ultimi anni come “città pubblica” mentre nel passato è stato l’oggetto di finanziamenti assai consistenti dello Stato, in quanto relativo al soddisfacimento di un diritto fondamentale al pari della scuola o della giustizia. Da oltre quindici anni è cessato il finanziamento pubblico di quella che abbiamo sempre chiamato Edilizia sovvenzionata (e fortemente ridotto quello dell’edilizia agevolata), cioè edilizia pubblica in affitto a canone e sociale, sia per quanto riguarda la costruzione di nuovi alloggi, sia per quanto riguarda la manutenzione di quelli esistenti (il che ha comportato la colpevole alienazione di una parte di tale patrimonio), mentre non si è affatto esaurito il fabbisogno di tale edilizia (oggi calcolato in circa 500.000 alloggi). Di fronte a tale situazione, che colpisce soprattutto tre categorie sociali, i giovani con un lavoro precario, gli anziani soli e gli immigrati, in Italia si è fatta di necessità virtù, sperimentando nuove forme di Social Housing, importate dall’esperienza di altri Paesi. Si tratta, com’è noto e in via molto generale, di politiche di negoziazione pubblico – privato (Inclosiunary Housing) per sviluppare un’edilizia a prezzi controllati, sia per l’affitto che per la vendita; un’edilizia diretta quindi a soggetti solvibili (Affordable Housing, in Italia Edilizia convenzionata e agevolata), in grado di produrre, in una quota più ridotta, anche edilizia pubblica in affitto a canone sociale cioè Social Housing, che in inglese significa “pubblica”, mentre in Italia comprende tutte le varie tipologie, compresa la prima rivolta alla fascia solvibile.

Se questa nuova forma di Social Housing si è sviluppata nel nostro Paese con un segno positivo attraverso alcune esperienze concrete, le condizioni strutturali del nostro Paese non consentono però di immaginare la soluzione definitiva del problema della casa attraverso questi strumenti. L’altissima percentuale di abitazioni in proprietà (il doppio che negli Stati Uniti o in Gran Bretagna) e le dimensione della fascia sociale non solvibile, unitamente alle semiparalisi del mercato immobiliare e alla pesante restrizione del credito nel dopo crisi, rendono infatti poco praticabile questa ipotesi e impongono di ricercare altre strade. Una di queste può essere quella suggerita da Campos Venuti nel breve saggio pubblicato, fra l’altro, sul sito web dell’Inu (Patrimonio edilizio: Rigenerazione vs Espansione), nel quale si propone di intervenire sulla rilevante quota (oltre il 30%) del patrimonio edilizio nazionale che presenta alloggi che oltre ad essere poco efficienti ed energivori, hanno dimensioni non più compatibili (e quindi insostenibili per la gestione) con la dimensione attuale delle famiglie; un intervento di rigenerazione che renderebbe disponibile per l’affitto una quantità di alloggi ben superiore al fabbisogno attuale senza aumentare le dimensioni del patrimonio in termini di stanze, ma solo nel numero degli alloggi, garantendo ai proprietari attuali il recupero di un valore oggi inutilizzato e il sollievo da costi di gestione oggi non più sostenibili. Una politica generale, che lo Stato potrebbe gestire senza le consuete difficoltà legate alla carenza di risorse, garantendo i risvolti sociali dell’intera operazione, anche se, una volta rimessi realmente a posto i conti pubblici, lo Stato dovrà necessariamente reinvestire direttamente anche nella casa sociale, come per il soddisfacimento di tutti gli altri diritti fondamentali dei cittadini.

Approvato nel Consiglio Direttivo Nazionale
Roma, 28/29 giugno 2013

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Data di pubblicazione: 3 settembre 2013