Elena Dorato
“Some thirty inches from my nose
The frontier of my Person goes,
And all the untilled air between
Is private pagus or demesne.
Stranger, unless with bedroom eyes
I beckon you to fraternize,
Beware of rudely crossing it:
I have no gun, but I can spit. [1]”
L’emergenza globale che stiamo vivendo in queste settimane contribuirà indubbiamente a modificare – ancora una volta – la percezione collettiva del corpo umano in relazione allo spazio che quotidianamente occupa, vive, fruisce e crea. Il diffondersi del virus COVID-19, oltre alle gravissime ripercussioni sullo stato di salute della popolazione, sui sistemi sanitari locali e sulla stabilità dei mercati nazionali, sta infatti innescando una serie di dinamiche socio-spaziali che, fino a pochi giorni fa, non avremmo potuto immaginare. La prossemica ai tempi del coronavirus vede infatti sospeso quel codice antropologico complesso che individua nello spazio il suo canale di comunicazione privilegiato, uniformando distanze e comportamenti. Quella “quarta dimensione dello spazio” di natura prettamente culturale, così come individuata da Umberto Eco [2], si piega e soccombe a ragioni sanitarie di pubblica urgenza.
Muta lo spazio del singolo corpo, completamente isolato in quarantena o quantomeno distanziato per prevenzione dagli altri di almeno un metro (o più, a seconda delle teorie). La “distanza personale” introdotta da Hediger [3] come la norma che separa gli animali e ne regola le interazioni sociali e di potere, cresce e si standardizza. Si trasforma e si adatta anche la dimensione privata all’interno delle nostre case, forzatamente condivisa con famiglie più o meno numerose; una sorta di nuovo urbanesimo che sposta significati e significanti dagli spazi aperti della città agli interni delle abitazioni.
In ultimo, si cancella lo spazio pubblico urbano. Non un’eliminazione in senso stretto, fisico, bensì una negazione quasi totale di relazione: la città costruita esiste, resiste, ma non può essere vissuta. Una delle uniche manifestazioni visibili – ma non tangibili! – dell’uomo nello spazio urbano sono oggi le lunghe file militaresche sui marciapiedi, fuori dai supermercati. Questa cosiddetta “distanza sociale” [4], secondo la definizione dell’antropologo americano Edward Hall, padre della prossemica, è compresa tra 1 e 3 metri e non prevede contatto fisico, globalmente intesa e utilizzata come forma di isolamento dei singoli nello spazio.
A partire dalla metà del secolo scorso, la nostra “distanza sociale” è progressivamente aumentata, complice la diffusione di dispositivi elettronici e mezzi di comunicazione di massa quali la televisione, il telefono, il computer, gli smartphone.
L’uso sempre più imponente di internet e, più in generale, della tecnologia oltre a modificare radicalmente la percezione del contesto e i nostri comportamenti sociali, sta avendo anche forti impatti su abitudini, stili di vita e sulle condizioni di salute della popolazione a livello mondiale (basti pensare, per fare un esempio, alla “pandemia di sedentarietà” specie nella popolazione occidentale, identificata come il quarto fattore di rischio di mortalità globale), nonché sulla struttura stessa delle nostre città. «L’abolizione della distanza tra casa e lavoro, la diminuzione dell’interazione faccia a faccia tra i soggetti [...] influenzerà/infetterà sempre più tutti i dettagli della vita quotidiana e dell’esistenza corporea [5]», scriveva la filosofa Elizabeth Grosz. Quello cui l’autrice fa riferimento non sono solo le possibili alterazioni sociali derivanti da simili cambiamenti (“l’implosione dello spazio nel tempo”, “la trasmutazione della distanza in velocità”), ma anche e soprattutto «[...] i principali effetti che queste modificazioni avranno sulla forma e sulla struttura della città [6]».
I modi in cui gli individui vivono, agiscono e interagiscono all’interno dello spazio pubblico urbano sfidano l’Urbanistica così come le politiche di salute pubblica, ponendo nuove condizioni e il bisogno di nuove prospettive sulla città. Come sottolineato da Louis Wirth, «L’urbanizzazione non è più solamente quel processo che attrae le persone verso un luogo chiamato città, incorporata nei suoi sistemi di vita. Si riferisce anche […] al modo di vivere associato con la crescita delle città, e in ultimo ai cambiamenti negli stili di vita riconosciuti come urbani, sotto l’incantesimo delle influenze che la città esercita in virtù del potere delle sue istituzioni e delle personalità che operano attraverso i mezzi di comunicazione e trasporto [7]». Il significato di “urbanità” va reinterpretato, dunque, attraverso i mezzi di comunicazione e trasporto, una riflessione quanto mai attuale in queste settimane. Se la tecnologia ha permesso una sorta di annientamento delle distanze fisiche tra le persone – nel bene e nel male – in un momento di isolamento forzato ci saziamo troppo in fretta di contenuti e relazioni virtuali, rimpiangendo la dimensione sociale, fisica, umana non solo del rapporto con gli altri, ma anche del nostro rapporto con il contesto urbano.
Guardiamo strade, piazze e giardini dalle finestre e sono paesaggi statici, immobili, svuotati di quella caotica vita che, in condizioni ordinarie, li caratterizza e vi attribuisce significato.
I quotidiani incalzano e, a turno, titolano “Deserti Urbani”, rimarcando quel senso di spaesamento che il silenzio e l’assenza di altri esseri umani provocano nel passante solitario. Ci affacciamo alle finestre e – con uno sforzo di immaginazione – troviamo il parallelo con le vedute tardo medievali ammirate nei musei. Ponendosi in completa rottura con la tradizione artistica del tempo, la Città Ideale dell’Anonimo Fiorentino (1480-1490 circa) restituisce un’utopia urbana basata sulla razionalità e sulla supremazia delle regole geometriche invece che su quelle derivate dalle proporzioni del corpo umano.
In una costante dicotomia tra corpo umano e corpo urbano, l’architettura e l’urbanistica “antropomorfe” così come descritte nelle opere Vitruviane e poi largamente riprese dai trattati Rinascimentali – dal De Re Aedificatoria di Leon Battista Alberti (1452), al Trattato di Architettura di Filarete (1460-64), ai Trattati di Architettura, Ingegneria e Arte Militare di Francesco di Giorgio Martini (1479-1482 circa) – si trasformano, nella città ideale, in scene urbane senza corpi, senza vita [8].
E il parallelo è ancora più calzante poiché, allora come oggi, questo cambiamento è dovuto a ragioni di salute pubblica. Come discusso da diversi autori, i progetti e gli ideali di città perfettamente ordinate, organizzate, pulite e prive di corpi del tardo XV secolo sono stati una risposta all’immagine caotica e malsana della città medievale, cresciuta a dismisura all’interno delle proprie mura senza attenzione alle condizioni igieniche né tantomeno alle conseguenze del sovrappopolamento [9]. Dopo secoli, l’unica forma di prevenzione possibile rimane la sospensione della vita – e dello spazio – pubblico, sociale, relazionale.
D’altra parte, la disciplina Urbanistica stessa, così come la conosciamo e concepiamo oggi, nasce come tentativo di “curare la città malata” [10], contrastando gli effetti devastanti che il processo di industrializzazione stava avendo sulla salute e sulle condizioni di vita delle popolazioni a metà del XIX secolo. Le radici del dibattito sul legame tra corpo, salute e città sono quindi da ricercare nella cultura igienista che portò, in Europa, alla riforma della città industriale, dando origine ai modelli relativisti precursori della metropoli contemporanea. L’urbanistica e la salute pubblica – le due discipline cardine nella creazione, mantenimento e possibilmente miglioramento delle condizioni di salute dei corpi sia umani che urbani – in un ipotetico albero genealogico sarebbero “cugine di sangue” [11], con le stesse radici nei movimenti di riforma sanitaria degli anni ’40 del 1800 e due illustri antenati comuni: l’architettura e la medicina.
È solo dall’inizio del XX secolo che pratiche e obiettivi fino ad allora condivisi iniziano a divergere e le due “scienze” si sviluppano in maniera autonoma, grazie al progresso dell’ingegneria nel curare la città e all’affermazione della batteriologia e della “teoria dei germi” (cioè delle cause biologiche di malattia) sulla “teoria della sporcizia” (che adduceva invece a cause ambientali) [12]. Un simile cambiamento è stato accompagnato da modificazioni sostanziali sia nelle prassi della salute urbana che nelle pratiche urbanistiche. Da un lato, la salute pubblica è passata da interventi di miglioramento infrastrutturale a livello urbano a ricerche di laboratorio su microbi e azioni focalizzate su specifici piani di vaccinazione, con i medici a rimpiazzare gli urbanisti come nuova classe di professionisti della sanità pubblica [13]. Le preoccupazioni mediche hanno così iniziato a spostarsi dal corpo urbano a quello umano, trattandolo clinicamente attraverso la quarantena, l’immunizzazione e l’educazione sanitaria. Contemporaneamente, la pianificazione si è progressivamente concentrata sulla zonizzazione funzionale e spaziale come metodo per "immunizzare" le popolazioni dai prodotti indesiderati dell’economia [14], primo tra tutti l’inquinamento industriale.
A partire da quel passaggio cruciale, il corpo umano e la città sono divenuti elementi a tutti gli effetti capaci di definirsi a vicenda, condividendo un linguaggio – quello anatomico – e venendo interpretati attraverso analoghe prospettive psicologiche e socio-politiche. La città, così come la disciplina urbanistica, hanno assunto e fatto propri sostantivi e attributi originariamente utilizzati nella definizione del corpo umano: crescita, tessuti, arterie, funzioni (urbane) [15] e, più recentemente, termini come rigenerazione o metabolismo.
Usando nuovamente le parole di Grosz, «[...] la città è prodotta e riprodotta nel simulacro del corpo, e il corpo, a sua volta, è trasformato, “urbanizzato” come un corpo inconfondibilmente metropolitano [16]». La “urbanizzazione” del corpo (citification) e la “corporalizzazione” della città (bodification) fanno riferimento, secondo l’autrice, a due diversi modelli. Il primo vede la città come il prodotto diretto del corpo, riflesso della volontà e della determinazione dell’uomo. Il secondo, di più recente concezione, stabilisce la relazione inversa: «[...] le città sono diventate (o forse sono sempre state) ambienti alienanti, che non garantiscono al corpo un contesto “naturale”, “salutare”, o “favorevole” [17]».
Cosa succede, dunque, quando il corpo, i corpi, vengono eliminati dall’equazione?
Le città, oggi, si riscoprono in parte più sane, grazie a un importante calo dei livelli di inquinamento acustico e dell’aria, logica conseguenza del blocco quasi totale di attività, aziende e della circolazione degli autoveicoli; svuotate non solo fisicamente dei loro abitanti, se non socialmente del loro significato più arcaico. Se a causa di questa orribile pandemia ci siamo definitivamente convinti che l’uomo – a prescindere dagli strumenti tecnologici di cui dispone – è a tutti gli effetti un animale sociale, stiamo anche riscoprendo il valore di quella quarta dimensione “culturale” dello spazio urbano che, finita la quarantena, torneremo ad affollare e condividere, più consapevoli ed entusiasti di prima.
[1] W. H. Auden (1976), "Thanksgiving for a Habitat. Prologue: The Birth of Architecture", in Collected Poems, Faber, Londra, p. 687.
[2] U. Eco (1996), La struttura assente, Bompiani, Milano.
[3] H. Hediger (1961), "The Evolution of Territorial Behavior," in S. L. Washburn, ed., Social Life of Early Man, Viking Fund Publications in Anthropology, New York, n. 31.
[4] E.T. Hall (1966), The hidden dimension, Doubleday New York, (trad. it. Milano, Bompiani, 1996).
[5] E. Grosz (1992), “Bodies-Cities”, in B. Colomina, ed., Sexuality and Space, Princeton Papers on Architecture, New York, p. 251.
[6] Ibid.
[7] L. Wirth (1938), “Urbanism as a way of life”, in American Journal of Sociology vol. 44(1), p. 5.
[8] E. Dorato (2020), Preventive Urbanism. The role of health in shaping active cities, Quodlibet Studio, Macerata.
[9] L. Mumford (1961), The City in History. Its origins, its transformations, and its prospects, Harcourt Brace and World, New York.
[10] D. Calabi (1979), Il “male” città: diagnosi e terapia, Officina Edizioni, Roma.
[11] M. Hebbert (1999), “A City in Good Shape: town planning and public health”, in The Town Planing Review vol. 70(4).
[12] D. Coburn (2006), “Medical dominance then and now: critical reflections”, in Health Sociology Review 15(5), pp. 432-443.
[13] D. Porter (1999), Health, Civilization and the State: a history of public health from ancient to modern times, Routledge, New York.
[14] J. Corburn (2004), “Confronting the challenges in reconnecting urban planning and public health”, in American Journal of Public Health vol. 94, pp. 541-546.
[15] M. Roncayolo (1997), La ville et ses territoires, Gallimard, Parigi.
[16] E. Grosz, “Bodies-Cities”, cit., p. 242.
[17] Ivi, p. 245.