Non esiste un concetto che sfidi e provochi l’urbanistica più di quello di beni comuni: lo slogan con cui spesso vengono definiti, in negativo, è “né pubblici, né privati”. Ma la definizione in positivo che alcuni ne danno, molto appropriatamente, corregge la definizione in “più che pubblici, più che privati”.
Ancor prima di essere qualcosa, i beni comuni sono un modo di (tornare a) considerare le risorse. L’economista francese Benjamin Coriat preferisce parlare di Retour des communs (Le retour des communs: la crise de l’idéologie propriétaire, Les Liens qui Libèrent, Paris, 2015), riprendendo di fatto gli studi di Rodotà (Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Il Mulino, Milano, 2013).
Risorse comuni sono quei particolari beni di interesse generale, il cui accesso deve sempre essere garantito a tutte le donne, a tutti gli uomini, a tutti i non umani animali e vegetali. Per quanto estrema possa sembrare questa definizione e assai diffusa e consolidata nella comunità (non solo scientifica).
Il titolo del saggio fondamentale La tragedia dei beni comuni pubblicato nel 1968 dall’ecologo americano Garrett Hardin su Science riassume la celebre tesi secondo cui la libera iniziativa nella gestione dei beni comuni avrebbe portato alla rovina di tutti: se ad esempio un pascolo o un parco nazionale restassero aperti all’uso di chiunque voglia fruirne, la loro capacità di carico andrebbero inesorabilmente in crisi. Crescerebbe in continuazione il numero di pastori, costruttori, turisti che vorrebbero estrarne risorse aumentando attività, costruzioni, greggi eccetera. Perciò, che fare di fronte a una questione di pianificazione posta alla fine degli anni Sessanta da uno studioso ante litteram dell’equilibrio tra popolazione umana in aumento e risorse ambientali in esaurimento? Le risposte fornite prevedevano o di vendere i beni comuni ai privati, o di mantenerli pubblici, cercando sempre di regolarne l’accesso e la fruizione. Sul ‘come’, Hardin avanzò diverse ipotesi tentative ma soprattutto evidenziò che la domanda certa riguardava la gestione.
E proprio agli studi su diverse forme di governo e gestione dei beni comuni – Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action, 1990 – venne consegnato il premio Nobel per l’economia nel 2009 alla politologa Elinor Ostrom. Le sue ricerche intorno al mondo, tra contesti democratici e non, dimostravano che un numero consistente di comunità stavano maturando una visione e molte pratiche basate sulla libertà di prendersi cura dei beni comuni, auto-governando in modo virtuoso la gestione di risorse comuni, intesi anche come beni creati dall’uomo. Emerge chiaramente il tradizionale paradigma bipolare e antagonista amministratori/amministrati che, oggi, ha invece un’alternativa possibile nel paradigma collaborativo: i beni comuni possono essere oggetto di alleanze tra soggetti pubblici, privati, gruppi informali e associazioni, in nome dell’interesse generale e secondo il principio di sussidiarietà orizzontale enunciato nell’art. 118 della nostra Costituzione. Una norma profondamente innovativa, introdotta nel 2001, che nel nostro Paese riconosce di fatto le “comunità di interesse generale”, capaci di attivarsi autonomamente e non per interessi particolari.
In Italia, nel 2011, si è votato un referendum per l’acqua come bene comune (e non come servizio pubblico); ed ancora, i cittadini italiani hanno la possibilità di stipulare Patti di collaborazione con gli amministratori pubblici locali (Bologna è stato il primo Comune ad adottare nel 2014 il Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni) e regionali (la Regione Lazio è stata la prima ad approvare nel 2019 la Legge quadro sull’amministrazione condivisa dei beni comuni). Parlare di amministrazione condivisa dei beni comuni, come propone Gregorio Arena dal 1997, significa sottolineare che l’amministrazione pubblica ci deve essere: Stato, Regioni, Città metropolitane e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa degli abitanti quando questi svolgano azioni di interesse generale.
Labsus, il laboratorio per la sussidiarietà attivo in Italia dalla metà degli anni Duemila, ha recentemente pubblicato l’ultimo report dell’Italia che si prende cura dell’Italia attraverso i Patti di collaborazione (su https://www.labsus.org/rapporto-labsus-2021/ [https://www.labsus.org/rapporto-labsus-2021/]) che mostra 252 Comuni dotati di Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni e un’elevata numerosità di Comuni nella fascia da 5.000 a 19.999 abitanti.
Ma chi si prende cura dei beni comuni? Al primo posto le associazioni formali (40%), seguite da cittadini singoli (21%), gruppi informali (13%) e scuole (7%). Sul lato amministrazione, i patti vengono firmati nel 70% dei casi dai dirigenti e solo nell’8% dei casi da responsabili politici (nel 22% dei casi da dirigenti con passaggio politico). I beni comuni di cui i cittadini italiani si stanno prendendo cura, favoriti dalle proprie pubbliche amministrazioni locali, riguardano: ambiente e verde urbano (48%), arredo urbano (19%), beni culturali (7%), attività educative (7%), inclusione sociale (7%).