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Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese

L’Italia in letargo

Quella descritta dal Rapporto Censis 2015 è un’Italia in «letargo esistenziale», in attesa di una ripresa continuamente annunciata, ma che per ora resta “dello zero virgola”. In un contesto in cui sono ancora minime le variazioni congiunturali degli indicatori economici, la politica fatica a trasmettere coinvolgimento e vitalità al corpo sociale, e quindi fatica a riaccendersi la propensione al rischio. Al contrario prevale il timore per il futuro e continua a gonfiarsi la bolla del risparmio, che rappresenta ancora la scialuppa di salvataggio nel quotidiano, visto che nell’anno trascorso 3,1 milioni di famiglie hanno dovuto mettere mano ai risparmi per fronteggiare gap di reddito rispetto alle spese mensili.
Naturalmente non mancano i segnali contrastanti. Da un lato, ad esempio, si registrano segnali di un po’ di ritrovata fiducia che premia i beni durevoli, con auto ed elettrodomestici che registrano una ripartenza. Da questo punto di vista le analisi previsionali presentano uno scenario incoraggiante. Tra coloro che in famiglia assumono la responsabilità degli acquisti principali, la quota di chi dichiara di avere fiducia nel futuro (il 39,8%) supera quella di chi non vede segnali positivi (il 22,4%), mentre la parte restante (il 37,8%) è ancora incerta. Riguardo agli investimenti, il mattone ha ricominciato ad attrarre risorse. Lo segnala la forte crescita delle richieste di mutui (+94,3% nei primi 10 mesi del 2015 rispetto allo stesso periodo del 2014) e la parziale inversione di tendenza delle transazioni immobiliari (+11% di compravendite di abitazioni nel terzo trimestre 2015 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente). Ma soprattutto si diffonde la propensione a mettere a reddito il patrimonio immobiliare: 560.000 italiani dichiarano di aver gestito una struttura ricettiva per turisti, come case vacanza o bed & breakfast, generando un fatturato stimabile in circa 6 miliardi di euro, in gran parte sommerso Di contro il restringimento del welfare alimenta ulteriormente gli squilibri sociali. La spesa sanitaria pubblica, cresciuta dal 2007 al 2010 da 101,9 miliardi di euro a 112,8 miliardi, negli ultimi anni ha registrato una inversione di tendenza, con una riduzione tra il 2010 e il 2014, attestandosi nell’ultimo anno a 110,3 miliardi.
La spesa sanitaria privata delle famiglie, invece, dal 2007 al 2014 è passata da 29,6 a 32,7 miliardi, raggiungendo il 22,8% della spesa sanitaria totale. La percentuale di famiglie a basso reddito in cui nell’ultimo anno almeno un membro ha dovuto rinunciare o rimandare prestazioni sanitarie è elevata: il 66,7%. E sono 7,7 milioni le persone che si sono indebitate o hanno chiesto un aiuto economico per pagare cure sanitarie.

Una piattaforma di ripartenza

In questo quadro secondo il Censis è possibile individuare una “piattaforma di ripartenza” del Paese, una “geografia dei vincenti” che gioca sul driver dell’ibridazione di settori e competenze tradizionali, che in questo modo si trasformano. Primo fattore di riposizionamento il rapporto con la globalità, profondamente modificato dall’abbattimento delle barriere e dei costi di ingresso grazie al digitale. Chi negli anni delle ristrettezze interne ha vinto ogni pulsione protezionista o di pura trincea, ed è andato verso l’esterno assumendosene i rischi e accettando le sfide, adesso incassa il dividendo di tale scelta. Le esportazioni valgono il 29,6% del Pil.
Nonostante il contraccolpo causato dalla crisi dei mercati emergenti, hanno continuato a crescere anche negli anni della crisi e nei primi nove mesi dell’anno segnano un +4,2% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Vincono i produttori di macchine e apparecchiature, vince l’agroalimentare, che nell’anno dell’Expo fa il boom di esportazioni (+6,2% nei primi otto mesi del 2015) e riconquista la leadership nel mercato mondiale del vino (con oltre 3 miliardi di export). Vincono i comparti consolidati dell’abbigliamento (+1,4% di export nei primi otto mesi dell’anno), della pelletteria (+4,5%), dei mobili (+6,3%), dei gioielli (+11,8%). E vince un settore trasversale per vocazione come quello creativo-culturale, con 43 miliardi di export.
Ma a contare veramente è la rinnovata ibridazione di settori e competenze tradizionali che produce un nuovo stile italiano: il risultato di questa ibridazione è una trasformazione dei settori tradizionali. Il design e la moda ne sono l’archetipo (ibridazione di qualità, saper fare artigiano, estetica, brand). Oggi il successo della gastronomia italiana ha agganciato lo sviluppo della filiera agroalimentare, legandola anche al turismo, alle bellezze paesaggistiche e culturali del Paese, grazie anche al volano delle piattaforme digitali. Al riguardo va segnalato che il settore turistico ha registrato un costante incremento dei flussi anche negli anni della crisi. Dal 2000 il numero complessivo di arrivi nel territorio italiano è aumentato del 33,3%, raggiungendo nel 2014 la cifra record di 106,7 milioni, con 378,2 milioni di presenze. L’incremento maggiore riguarda gli arrivi di stranieri: sono stati 51,7 milioni nell’ultimo anno (+47,2% tra il 2000 e il 2014) e pesano ormai per il 48,4% del totale.
Il Rapporto sottolinea insomma la capacità della società italiana di «esprimere una certa dose di invenzione», una capacità che si sviluppa tuttavia nell’indifferenza del dibattito socio-politico e nel disinteresse dei media, assorbiti nella pura cronaca. Esempi positivi di questa capacità sono anche la naturalezza dei giovani a trasferirsi all’estero o nel tentare le start up; la già citata naturalezza delle famiglie a mettere a reddito il proprio livello patrimoniale, la silenziosa integrazione degli stranieri nella nostra quotidianità.
Al riguardo il Censis ricorda, come già in passato, che quella degli stranieri in Italia è perlopiù una traiettoria di crescita verso la condizione di ceto medio, ed anche per questo non si registrano le situazioni di concentrazione etnica e disagio sociale che caratterizzano le banlieue parigine o le inner cities londinesi, dove l’islam radicale diventa il veicolo del rancore delle seconde e terze generazioni per una promessa tradita di ascesa sociale.

Le città italiane dopo la grande crisi

Nelle pagine del Capitolo Territorio e Reti, il Rapporto dedica numerose pagine al tema del cambiamento che interessa le città per effetto della grande crisi e della riconfigurazione dei poteri nel Paese.
In un quadro in cui la politica, dal centro, ripreso il suo primato, punta a praticare una disintermediazione degli interessi molto forte, che tende in alcuni casi a “saltare” i territori (entrando inevitabilmente in conflitto con i soggetti di rappresentanza locale che non si sentono più ascoltati), inevitabilmente le grandi città stanno assumendo un ruolo sempre più rilevante, in quanto luoghi dove si accentrano flussi, interessi, decisioni e relazioni di scala sovranazionale.
Il Rapporto sottolinea come in questo contesto generale si acuisca il fenomeno della crescita differenziata delle grandi regioni urbane italiane, quell’armatura urbana di livello superiore che, nelle stime dell’Istituto, raccoglie poco più di 30 milioni di abitanti e in cui si addensa quasi la metà della popolazione italiana. La rilevanza di queste regioni urbane è destinata a crescere ulteriormente in futuro.
Le previsioni demografiche stimano che al 2030 nel loro insieme vedranno aumentare la popolazione dell’8,6% contro un incremento complessivo della popolazione italiana stimato nell’ordine del 3,4%.
Più in particolare, per molte delle aree-regioni urbane del Centro- Nord la crescita sarà ben più rilevante: la megaregione lombarda incentrata su Milano crescerà dell’11%, l’area romana del 15%, l’area veronese e quella fiorentina del 16%, l’asta emiliana quasi del 20%.
Al Centro-Nord le regioni urbane si confermeranno quindi come ambiti territoriali fortemente attrattivi. Di contro, nelle regioni urbane del Mezzogiorno si registrerà una sostanziale stagnazione.
L’area napoletana vedrà infatti diminuire la popolazione dell’1,2%, quella barese del 2,2%, mentre quella palermitana crescerà solo del 3,9%. Pur rimanendo grandi bacini di consumo, le aree urbane del Mezzogiorno rischiano quindi di perdere ulteriormente capacità attrattiva. Un problema che tocca anche in parte, e in modi diversi, alcune città medie del Centro-Nord, le ex piccole capitali, in passato protagoniste dello sviluppo produttivo, che in molti casi sembrano faticare a riposizionarsi in uno scenario globalizzato.
In questo quadro generale il Rapporto mette in rilevo il protagonismo di Milano e Roma, costantemente sotto i riflettori nel corso degli ultimi mesi: accomunate dalla centralità dei grandi eventi (Expo, Giubileo, Olimpiadi), cioè dal prevalere della logica della gestione straordinaria, ma anche spesso contrapposte in termini di buon/ cattivo governo. Il racconto mediatico recente, e non solo, è stato incentrato infatti sulla retorica della rinascita milanese e del contemporaneo declino romano. Il discorso sulle due città si è alimentato ancora una volta, ma anzi forse in maniera più marcata che in passato, dell’antica e un po’ miope diatriba tra le due “capitali”.
Il Censis al riguardo sottolinea come continui a mancare una diversa angolazione, che sposti l’attenzione sul ruolo per molti versi complementare svolto dalle due città quali nodi che, in ambiti diversi, mettono in rete l’Italia con i contesti esterni. E quindi sulle strategie di sistema per rafforzare questa capacità e metterla meglio al servizio del Paese.
Sul fronte delle politiche urbane, a fronte del lancio di un nuovo programma nazionale, il Rapporto evidenzia il carattere discontinuo e intermittente dell’attenzione (tanto mediatica quanto politica) al tema delle periferie in Italia. È passato poco più di un anno, nota il Censis, da quando su tutti i media italiani ha tenuto banco il tema dell’«incendio delle periferie» a seguito dei fatti avvenuti nel quartiere di Tor Sapienza a Roma. Poi l’interesse è scemato e il tema è di nuovo praticamente scomparso dai radar dei media. Del resto pur in assenza di una organica politica nazionale di intervento sui quartieri urbani difficili o degradati, l’azione pubblica si è articolata, come è noto, in un corso più che ventennale di programmi di varia natura (oltre 700 le iniziative finanziate) dagli esiti spesso deludenti. Di fatto sono mancate forme stabili di coordinamento e di valutazione degli effetti.
Troppo spesso alla genericità degli obiettivi, e di conseguenza dei criteri e dei parametri di selezione dei progetti, ha corrisposto una costruzione dei programmi non adeguata, con candidature che spesso si riducano a mere aggregazioni di interventi tra loro scollegati. Dopo anni di attenzioni intermittenti e di sempre minore investimento nella sperimentazione, nella recente riproposizione (poco meditata) di ulteriori iniziative il rischio di un’involuzione culturale e gestionale appare dunque reale.
Infine un’ultima segnalazione riguarda una fenomenologia urbana diffusa, in parte legata alla crisi, quella che il Censis chiama “il cambio di look dei piani terra delle città”. Al riguardo i dati mostrano che, alla progressiva riduzione della varietà dell’offerta commerciale nelle nostre strade urbane (con un calo sensibile dei settori tradizionali legati all’abbigliamento, alla casa, ai consumi culturali), si contrappone oggi una straordinaria dinamicità di tutto ciò che in vario modo ruota attorno al cibo e alla ristorazione. A cominciare dallo street food, con piccoli e medi esercizi che aprono e chiudono ad una velocità sorprendente ed un’offerta che si rinnova continuamente. Naturalmente si tratta di un fenomeno che ha evidenti e robuste spiegazioni sia dal lato della domanda, che da quello dell’offerta. Sul primo versante ai cambiamenti legati agli stili di vita ed in particolare al progressivo boom del pasto fuori casa (in crescita costante), si somma specie nelle grandi città l’incidenza significativa della presenza di migliaia di city users. Fattori che insieme generano una domanda di cibo veloce e a basso costo che tuttavia si vuole sempre più vario e caratterizzato. Sul fronte dell’offerta, trattandosi di investimenti a bassa soglia, in cui si ritiene vi siano meno barriere all’ingresso, il boom della ristorazione è legata alla possibilità dell’autoimpiego, e all’iniziativa di molti stranieri attivi nel commercio. Potrà non piacere questa deriva tutta legata al food, ma resta comunque il segnale di una nuova vitalità della strada come luogo della socialità urbana.

Data di pubblicazione: 22 marzo 2016